Repubblica 23.1.18
Le idee
Scrivere significa capire e amare le vite degli altri
David
Grossman, che ha ricevuto il Premio per la tolleranza del Museo ebraico
di Berlino, spiega perché fare letteratura è un atto politico che nasce
da un profondo esercizio di comprensione. Anche dei propri “nemici”
di David Grossman
David
Grossman, che ha ricevuto il Premio per la tolleranza del Museo ebraico
di Berlino, spiega perché fare letteratura è un atto politico che nasce
da un profondo esercizio di comprensione. Anche dei propri “nemici”
Questo
illustre premio per la tolleranza e la comprensione mi viene consegnato
esattamente ottant’anni dopo la Notte dei Cristalli in un luogo – il
museo ebraico di Berlino – denso di significato e in un contesto in cui
quasi ogni parola, e certamente termini come tolleranza, comprensione,
pluralismo, umanità, hanno una cassa di risonanza potente e talvolta
tragica. Il premio ha anche un significato politico: esprime il sostegno
alla volontà e alla lotta per arrivare alla pace tra Israele e i
palestinesi. Non posso tuttavia fare una distinzione fra il me politico e
il me scrittore, né tra il me scrittore e il me uomo. Dirò qualche
parola su un particolare tipo di tolleranza e di accettazione degli
altri insito nella letteratura e rilevante anche nella sfera politica.
Un tipo di tolleranza e accettazione che consente allo scrittore – e di
conseguenza anche al lettore – di sperimentare il mondo tramite la
coscienza, l’anima e il corpo di un’altra persona, sconosciuta e
talvolta nemica.
Vi racconterò una piccola storia.
Poco più
di dieci anni fa ero impegnato nella stesura del romanzo A un cerbiatto
somiglia il mio amore la cui protagonista, una donna israeliana di nome
Orah, si allontana da casa per sottrarsi alla notizia della morte del
figlio in guerra. Dopo avere scritto di Orah per circa due anni e avere
lottato con lei, avevo ancora la sensazione di non riuscire a capirla
veramente. Di non conoscerla come uno scrittore dovrebbe conoscere il
personaggio di cui scrive. Non percepivo in lei quel fremito di
autenticità, di verità e di vita senza il quale non posso credere nel
personaggio che narro, essere quel personaggio.
Alla fine, non
avendo scelta, ho fatto quello che ogni bravo cittadino nella mia
situazione avrebbe fatto: mi sono messo a tavolino e ho scritto una
lettera a Orah. Una lettera semplice, come si faceva una volta, con
carta e penna, dal mio cuore al suo.
E nella lettera le ho
chiesto: Orah, che succede? Perché mi respingi in questo modo, perché
non ti concedi a me? Ma ancor prima di completare la prima pagina ho
capito il mio grande errore: non era Orah che doveva concedersi a me.
Ero
io che dovevo concedermi a lei. In altre parole, dovevo smettere di
opporre resistenza alla possibilità che Orah esistesse dentro di me.
Lasciarmi
andare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto il corpo alla
possibilità che dentro di me ci fosse una donna. Quella particolare
donna. Dovevo lasciare che le particelle del mio spirito fluissero
liberamente, senza freni e senza paura, verso la potente calamita di
Orah e la femminilità che irradiava. Da quel momento in poi Orah ha
quasi scritto se stessa da sola.
La creazione è la possibilità di
toccare l’infinito. Non un infinito matematico o filosofico: un infinito
umano. Gli infiniti volti dell’uomo, le infinite pieghe della sua
anima, i suoi infiniti pareri, opinioni, istinti, abbagli, piccolezze,
grandezze, forze creative e distruttive, le sue infinite combinazioni.
Quasi ogni mia idea su un personaggio di cui scrivo mi apre innumerevoli
possibilità, innumerevoli tratti del suo carattere: un giardino di
sentieri che si biforcano. È quasi banale emozionarsi per qualcosa di
tanto scontato, ma oggi concedetemi di farlo: noi – noi tutti – siamo
pieni di vita. In ognuno di noi ci sono illimitate possibilità e modi di
essere, di vivere. Ma forse questa non è affatto una cosa scontata.
Forse è qualcosa che dovremmo ricordare continuamente a noi stessi.
Guardate
infatti quanto stiamo attenti a non vivere la profusione che è in noi,
tutto ciò che le nostre anime, i nostri corpi e le circostanze della
nostra vita ci offrono. Molto in fretta, già ai primissimi stadi della
vita, ci raggrumiamo, ci riduciamo a essere “uno”: un solo corpo, una
sola lingua (o al massimo due) con la quale diamo un nome alle cose, un
solo genere. Ognuno di noi racconta una propria “storia ufficiale” tra
le tante possibili, che talvolta si trasforma in una prigione. E quello
di trasformarci in prigionieri della storia ufficiale che ci raccontiamo
è un pericolo, peraltro, in agguato non solo per gli individui ma per
intere società, stati e popoli.
Scrivere è un movimento dell’anima contro quella riduzione, contro la rinuncia alla profusione.
La
creazione letteraria è il movimento sovversivo dello scrittore, in
primo luogo contro se stesso. Più prosaicamente potrebbe essere
paragonata a un massaggio che lo scrittore fa di volta in volta,
ostinatamente, alla propria cauta, inibita e impaurita coscienza. Per
me, scrivere significa essere libero di muovermi con agilità e
leggerezza lungo l’asse immaginario tra il bambino che ero e il vecchio
che sarò, tra l’uomo e la donna che sono, tra sanità mentale e follia,
tra il me israeliano e il palestinese che sarei potuto essere se fossi
nato 500 metri più a est. E sono sicuro che dal momento in cui
concederemo a noi stessi di percepire questa libertà di movimento (e
l’arte è un modo meraviglioso per farlo) toccheremo anche l’essenza
della tolleranza politica in tutte le sue declinazioni: nei conflitti
tra i popoli come nella sfida posta dai profughi che affluiscono in
Europa. La tolleranza nasce dalla disponibilità di sentire e comprendere
l’altro dentro di noi, anche quando l’altro ci minaccia perché è
diverso, e incomprensibile. Anche quando l’altro è nostro nemico
dichiarato.
Vorrei ricordare le parole di un grande filosofo
politico del XX secolo, John Rawls, che si ricollegano a quanto detto.
Rawls disse che nello stabilire le leggi di uno Stato che vorremmo
giusto, dovremmo porci come dietro a un velo d’ignoranza che ci
impedisca di sapere cosa saremo quando quel velo sarà sollevato. In
altre parole quando ci diamo delle leggi o, in generale, delle regole di
condotta tra esseri umani, o decidiamo una linea politica governativa
su un tema fondamentale e cruciale, non sappiamo chi saremo quando il
velo d’ignoranza sarà sollevato: se osservanti o laici, ricchi o poveri,
parte della maggioranza o della minoranza, uomini o donne, gay o etero,
cittadini o rifugiati. Provate a fare questo esercizio mentale. È un
modo meraviglioso per vedere, d’un tratto, il mondo e la realtà delle
nostre vite da una prospettiva diversa.
La tolleranza, in
sostanza, è la disponibilità a leggere la realtà (il conflitto tra
israeliani e palestinesi, ad esempio, o i cinquantun anni di occupazione
dei territori palestinesi da parte di Israele) non solo con gli occhi
di noi israeliani ma anche con quelli del nostro nemico. A concederci di
sperimentare, anche se per poco, la sua storia, la sua giustizia, la
sua sofferenza, gli errori che commette, i punti di cecità nei nostri
confronti. Se così faremo il nostro contatto con la realtà sarà molto
più profondo e completo. La realtà non sarà soltanto una proiezione
delle nostre angosce profonde né dei nostri desideri assurdi. Sarà
qualcosa di molto più autentico. E a quel punto potranno nascere
comprensione, tolleranza e accettazione dell’altro, della sua diversità,
della sua differenza.
E forse, a distanza di anni, dopo che i
veleni di una lunga guerra si saranno dissolti dall’apparato
circolatorio dei due popoli ostili, potranno emergere curiosità
reciproca, apprezzamento e anche una certa empatia.
Più di questo è difficile sperare per ora ma se ciò avverrà, sarà la realizzazione di un sogno.
– © David Grossman Traduzione di Alessandra Shomroni
DAVID
HEERDE/ REX/ SHUTTERSTOCK Il discorso che pubblichiamo è stato tenuto
da David Grossman alla cerimonia di consegna del Premio per la
tolleranza e la comprensione del Museo ebraico di Berlino