Repubblica 23.11.18
Il viaggio di Giorgio Bocca nel Paese che cambiava pelle
Torna in libreria “Miracolo all’italiana” del 1962
“Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi” Iniziava così il celebre reportage da Vigevano
di Fabrizio Ravelli
Al
principio fu Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se
esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti
cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a
battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Incipit leggendario,
che generazioni di cronisti hanno mandato a memoria. E comincia da lì,
da Vigevano e da quella beffarda contabilità, il libro del 1962 che
Feltrinelli ora ristampa (con prefazione di Guido Crainz). Quel Miracolo
all’italiana che ai cronisti ha fatto sognare di scrivere come Giorgio
Bocca, ma che a legioni di intellettuali e politici (soprattutto gli
odierni) avrebbe potuto insegnare come si conosce e si racconta un
Paese. L’Italia degli anni ‘50-‘60, del miracolo (la definizione venne
battezzata dal Daily Mail) che stava cambiando tutto: economia,
industria, consumi, costumi, abbigliamento, ideologie.
Un
“miracolo” anche giornalistico, dentro al quale Bocca si muove con la
vitalità di chi vede possibile il cambiamento. Ha 40 anni, è un inviato
del Giorno di Mattei diretto da Italo Pietra, ex-partigiano anche lui. E
«l’aggressività petrolifera di Mattei» si traduce in linea politica
(neocapitalista, riformista, con un occhio di riguardo a socialisti e
sinistra democristiana): «E il provinciale che ero», scriverà Bocca
nell’autobiografia, «ci ricadde, per le seconda volta tornò a sperare
come nella guerra partigiana, in un paese laico moderno in cui il
giornale dell’Eni avrebbe dato voce a una nuova cultura industriale, a
pensare che saremmo diventati il giornale dell’aristocrazia operaia e
della tecnocrazia che stavano facendo dell’Italia un paese ricco e
moderno». Un giornale coraggioso «nei riguardi del vecchio
establishment»: «A me il Giorno di Pietra e di Mattei dava via libera
per andare alla scoperta dell’Italia». E quindi via, soprattutto verso
la provincia industriale, grande sconosciuta, con il suo caos, la
vitalità e la volgarità, le conquiste e i rivolgimenti. Una «miniera a
cielo aperto», la chiama Bocca. Che scava e racconta, con un metodo
anche quello nuovo per il giornalismo italiano: molta preparazione di
dati sulla realtà, molti libri letti alle spalle, un gran numero di
persone incontrate (e ben poche citate poi), un approccio molto
personalizzato del testimone che dice: «Io questo ho visto e questo ho
capito». Dal vitalismo e dalla volgarità del “miracolo” Bocca è
sbalordito, divertito, schifato ma anche affascinato: «Quell’Italia
aveva animo lieto e alacre nonostante le difficoltà della vita perché
percorsa da un’idea o grande speranza o grande illusione di progresso.
L’atteggiamento di un cronista come me rispetto alle prime
manifestazioni di consumismo massificato, di benessere diffuso era
insieme di critica e di adesione: critica delle forme, adesione per la
sostanza».
A deluderlo è casomai quella borghesia che non riesce a
essere classe dirigente: «Sembra incredibile che un ceto così ricco di
fiuto merceologico, di attaccamento al lavoro, di ardimento commerciale,
di gusto manufatturiero non riesca a capire che una società, la società
in cui vive, non può continuare senza un solido assetto sociale, senza
interessi e iniziative intellettuali, senza un ordine. In altre parole
senza una civiltà che non sia quella pura e semplice dei consumi».
Calzaturieri di Vigevano, magliai di Carpi, ovunque il “miracolo”
accumuli neonate fortune. Bocca, inutile ripeterlo, non è solo lo
spietato indagatore della realtà, e anzi poiché scrive divinamente e ha
un occhio infallibile, si concede sprazzi di puro divertimento: I maièr,
i magliai, quei tipi cordialoni, forse troppo, vestiti all’ultima moda,
con facce color terra e sangue come quella di un Adamo celtico, appena
impastato».
Il “miracolo” ha tante facce: a Foggia «c’è prima di
esserci, esiste perché deve venire, è un miracolo sulla parola, la gente
cui è stato promesso ha incominciato a anticiparselo». A Siena il
miracolo c’è stato sette secoli prima, e ancora lo si rimembra con
nostalgia: il boom c’è anche qui, «ma i parvenus si sono fermati a
Poggibonsi». Fra palazzi aviti del Dugento, cacce e arazzi, il cuneese
Bocca non si ritrova: «In questi giorni mi sento molto allobrogo.
Di
giorno sto a disagio fra questi uomini che hanno profili etruschi e
nobili fattezze, fra queste donne dai tratti fini e deliziosi. Di sera,
nella mia stanza, scopro nello specchio la pesantezza, grossolanità,
ottusità dei miei connotati celtici, appena romanizzati». Il “miracolo” a
Milano è quello dei cafoni arricchiti, ma anche quello dei pendolari
intirizziti nell’alba che Bocca va a incontrare a Palazzolo sull’Oglio:
«Sveglia alle quattro e mezza, stanza fredda, acqua fredda, sacramenti e
così fino alla stazione». E col “miracolo” anche i “miracolati”, i
famosi che Bocca ritrae: da Guttuso (un pezzo da maestro), Mina agli
esordi, Alberto Sordi e Walter Chiari, un Omar Sivori che sbeffeggia la
disciplina savoiarda della Juventus.