venerdì 23 novembre 2018

Repubblica 23.11.18
Psicoanalisi
A colloquio con Christopher Bollas
Il culto malato della normalità in psicoanalisi
di Vittorio Lingiardi


Christopher Bollas è una delle voci più originali e carismatiche della psicoanalisi contemporanea. Ha amici e nemici, questi ultimi considerandolo di indole letteraria, disinvolto nel pluralismo teorico, troppo ispirato e immerso nella sua fede psicoanalitica. Per gli amanti del pop, è l’unico psicoanalista menzionato nella prima serie originale (la migliore) di In Treatment. Nato negli Usa, ma di formazione clinica londinese, ha studiato con Francis Tustin e Donald Meltzer, è stato analizzato da Masud Khan, è tra i curatori dell’opera di Winnicott, ha subito il fascino di Lacan. Per anni ha svolto attività di formazione a Roma, presso l’Istituto di Neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli che, dice, «rimane il miglior centro psichiatrico per bambini che abbia mai visto». È prolifico: per quantità di libri, generi e neologismi. La sua scrittura risuona in modo subliminale ed è disseminata di concetti come “conosciuto non pensato”, “oggetto trasformativo”, “identificazione estrattiva”, creati per spingere sempre più in là il pensiero clinico.
Questo analista proteiforme sarà ospite del convegno nazionale della Società Psicoanalitica Italiana “Dalla consultazione alla costruzione della relazione analitica” (vedi box). Un titolo opportuno che evoca il respiro clinico che dal primo colloquio conduce al vero veicolo del cambiamento: la relazione terapeutica. Il tema della lecture di Bollas sarà la valutazione di chi è reduce da uno scompenso psicotico o addirittura è nel pieno del breakdown. «Parlerò di come la consultazione clinica con chi è alle prese con la psicosi può rivelarsi una magnifica occasione per un incontro trasformativo che prelude al lavoro analitico», esordisce. Gli stati mentali psicotici hanno sempre catturato l’interesse di Bollas, che sul tema ha scritto due libri da poco tradotti in italiano: Se il sole esplode (Cortina) e Catch them. La psicoanalisi del breakdown
psichico (Angeli), dove il titolo sta per “acciuffali in tempo” e scoprirai che il crollo ( breakdown) può diventare una breccia ( breakthrough). «La consultazione», aggiunge, «non è un passaggio tecnico nel processo dell’invio e della presa in carico. È un momento di comprensione analitica profonda». A un livello inferiore di accelerazione, penso la stessa cosa a proposito della diagnosi. Che non è assegnare un’etichetta, ma iniziare a formulare un caso, saper stare nella tensione benefica che ci sospende tra la categoria generale che classifica un disturbo e la storia individuale che, in quel paziente, lo rende unico. Ma poiché so che non tutti gli psicoanalisti amano le diagnosi, sono curioso di conoscere il punto di vista di Bollas. «Se non sa distinguere tra un isterico e un borderline», risponde, «credo che lo psicoanalista sia perduto. Si tratta di differenze cruciali, come sapere che un italiano non è uno svedese. Al tempo stesso credo che questa importante conoscenza in qualche modo “svanisca” man mano che ci si addentra nell’organizzazione di un particolare carattere. Come se nel corso dell’analisi le specificità diagnostiche scomparissero».
E ora proviamo a uscire dalla stanza d’analisi per fare quello che James Hillman, una specie di Bollas junghiano, vent’anni fa chiedeva agli analisti: aprire la finestra delle loro stanze e accorgersi del mondo. Nel suo L’età dello smarrimento. Senso e malinconia ( Cortina), Bollas non fa sdraiare sul lettino un singolo paziente, ma la nostra epoca. Gli chiedo quali sarebbero le libere associazioni di un elettore di Trump alla parola “umanità” che è la parola con cui finisce il suo libro. «Gli elettori di Trump sono molto diversi tra loro. Trump è un’oggettivazione sociale del nostro modo fallimentare di affrontare enormi problemi. Lo stesso vale per Brexit. Le risposte-scorciatoia tipo “lasciare l’Ue vs rimanere nell’Ue” non ci portano lontano. La libera associazione psicoanalitica serve a favorire domande capaci di muovere idee inconsce infinite. È un modo per battere l’egemonia delle soluzioni semplici a favore dei movimenti complessi del pensiero». A proposito della paura-rifiuto della complessità, che a mio avviso è la vera “diagnosi” contemporanea, uno dei capitoli più interessanti del libro di Bollas è quello sulla personalità “ammalata” di normalità, devota al benessere materiale, disinteressata alla vita interiore. «È psicofobica. Come molti americani, forse come il sogno americano stesso. Se Christopher Lasch, che scrisse La cultura del narcisismo, oggi fosse vivo sposterebbe l’accento dal narcisismo alla sociopatia come nuova normalità». Di solito i sociopatici non vanno in analisi. E i normopatici?. «Quando uscì il libro molti miei pazienti hanno concluso di essere normopatici. E da lì hanno provato a vedere le loro vite in modo diverso. È stato liberatorio. Le diagnosi sono effimere. Col tempo in analisi emergono le complessità della vita mentale e i sottili movimenti della personalità che coinvolgono l’Io dell’analista e dissolvono la coerenza della diagnosi originaria. Quindi, sì, ho iniziato a lavorare con alcuni normopatici e presto è iniziato il loro cambiamento. Di questi tempi molti pazienti cercano soluzioni operative a problemi complessi. La terapia cognitivo-comportamentale (che pure può essere utile) affronta i sintomi e i problemi con soluzioni operative».