venerdì 23 novembre 2018

il manifesto 23.11.18
Spinoza e l’esistenza degli spettri
Il divano. Per il filosofo, “il vezzo diffuso tra gli uomini di narrare le cose, non come sono realmente, ma come vogliono che siano, si manifesta più che in ogni altra cosa nei racconti di spiriti e di spettri”
di Alberto Olivetti


Nell’Epistolario di Baruch Spinoza si conserva la corrispondenza tra il filosofo e Ugo Boxel, “eccellentissimo e sapientissimo signore”, già pensionario di Gorkum, che si compone di sei lettere. La prima, inviata da Boxel a Spinoza, reca la data del 14 settembre 1674: “vi scrivo perché desidero di conoscere il vostro parere intorno alle apparizioni, agli spettri o spiriti; e, se esistono, che cosa voi ne pensate e fin quando duri la loro vita, giacché alcuni li dicono immortali, altri mortali. Non insisto oltre nel parlarne, non sapendo se voi ne ammettete l’esistenza. Certo è che gli antichi vi credevano”.
L’indomani Spinoza risponde. A Boxel, che in realtà è “convinto della verità di tutte le storie raccontate dagli antichi e dai moderni”, chiede di segnalargliene almeno “una o due delle quali non sia possibile in alcun modo dubitare e che dimostrino nel modo più evidente l’esistenza degli spettri”. In ogni caso, per l’intanto, Spinoza fa notare che “il vezzo diffuso tra gli uomini di narrare le cose, non come sono realmente, ma come vogliono che siano, si manifesta più che in ogni altra cosa nei racconti di spiriti e di spettri”.
Rispondendo, Boxel, tra le ragioni che adduce a sostegno dell’esistenza degli spettri, la prima che indica è che “essi conferiscono alla bellezza e alla perfezione dell’universo”. Di rimando, Spinoza argomenta che la bellezza “non è tanto una qualità dell’oggetto che si contempla, quanto un effetto prodotto nel contemplante”. E, chiedendosi se Dio abbia creato il mondo “per soddisfare il piacere e la vista dell’uomo, o il piacere e la vista dell’uomo in conformità al mondo”, conviene che, senza dubbio, “il mondo sarebbe riuscito attraente, se Dio l’avesse congegnato secondo i capricci della nostra fantasia e l’avesse dotato di quelle cose che ciascuno può facilmente immaginare e sognare”.
Se ne ricava, dunque, che il piacere e la vista dell’uomo si compongono d’una duplice virtualità. Essa può condursi in ciascuno tanto con l’attenersi in conformità al mondo, quanto con l’indulgere ai capricci della fantasia, al sogno, all’immaginazione. Mantenersi conformi al mondo equivale, a giudizio di Spinoza, a dimostrarlo il mondo per via di speculazione secondo l’ordine geometrico ad esso inerente. Ma Boxel, alla richiesta d’una dimostrazione dell’esistenza degli spiriti e spettri che Spinoza esige, eccepisce che le dimostrazioni “non sono mai, all’infuori delle matematiche, così certe”, sicché, scrive, nel mondo “facciamo ogni tanto una congettura, e nei nostri ragionamenti, per mancanza di dimostrazioni, l’ammettiamo come probabile”.
Dunque nel mondo prevale, sulle ‘prove dimostrative’, il probabile e gli uomini si accontentano delle congetture probabili come se fossero verisimili. Al che pure Spinoza conviene: “nella vita ordinaria, scrive, noi siamo costretti a seguire il verisimile; ma nella speculazione siamo costretti a seguire la verità”. E aggiunge un avvertimento lungimirante: “dobbiamo guardarci bene dall’ammettere alcunché come vero che sia soltanto verisimile, perché, ammessa una falsità, ne seguono poi infinite altre”.
Nel 1670 Spinoza aveva pubblicato anonimo il Tractatus theologico-politicus al quale attendeva da almeno cinque anni. Il primo capitolo è dedicato alla profezia nelle Scritture. Qui Spinoza esplicita l’ispirazione profetica come la modalità peculiare di una immaginazione che ha per unico oggetto Dio. Di tale immaginazione le narrazioni dei profeti sono il frutto: nella Bibbia non si accolgono dimostrazioni, ma congetture verisimili, ovvero “quelle cose che ciascuno può facilmente immaginare e sognare”.
In proposito Antonio Droetto, commentatore del Tractatus, richiama l’ammissione di Spinoza: “io professo esplicitamente e senza ambagi di non intendere la Sacra Scrittura”. Rifletteva Antonio Banfi che “il problema estetico resta estraneo a Spinoza né egli accenna direttamente all’arte; non che lo spirito che anima la fioritura dell’arte gli sia lontano, ma egli lo sente in generale e non da un punto di vista interiore. Ma ciò che non ha sentito come arte, Spinoza ha sentito come vita. Quello spirito di realismo è vivo e profondo nella sua concezione e nel suo atteggiamento etico di fronte alla realtà”.