venerdì 23 novembre 2018

il manifesto 23.11.18
Spinoza e l’esistenza degli spettri
Il divano. Per il filosofo, “il vezzo diffuso tra gli uomini di narrare le cose, non come sono realmente, ma come vogliono che siano, si manifesta più che in ogni altra cosa nei racconti di spiriti e di spettri”
di Alberto Olivetti


Nell’Epistolario di Baruch Spinoza si conserva la corrispondenza tra il filosofo e Ugo Boxel, “eccellentissimo e sapientissimo signore”, già pensionario di Gorkum, che si compone di sei lettere. La prima, inviata da Boxel a Spinoza, reca la data del 14 settembre 1674: “vi scrivo perché desidero di conoscere il vostro parere intorno alle apparizioni, agli spettri o spiriti; e, se esistono, che cosa voi ne pensate e fin quando duri la loro vita, giacché alcuni li dicono immortali, altri mortali. Non insisto oltre nel parlarne, non sapendo se voi ne ammettete l’esistenza. Certo è che gli antichi vi credevano”.
L’indomani Spinoza risponde. A Boxel, che in realtà è “convinto della verità di tutte le storie raccontate dagli antichi e dai moderni”, chiede di segnalargliene almeno “una o due delle quali non sia possibile in alcun modo dubitare e che dimostrino nel modo più evidente l’esistenza degli spettri”. In ogni caso, per l’intanto, Spinoza fa notare che “il vezzo diffuso tra gli uomini di narrare le cose, non come sono realmente, ma come vogliono che siano, si manifesta più che in ogni altra cosa nei racconti di spiriti e di spettri”.
Rispondendo, Boxel, tra le ragioni che adduce a sostegno dell’esistenza degli spettri, la prima che indica è che “essi conferiscono alla bellezza e alla perfezione dell’universo”. Di rimando, Spinoza argomenta che la bellezza “non è tanto una qualità dell’oggetto che si contempla, quanto un effetto prodotto nel contemplante”. E, chiedendosi se Dio abbia creato il mondo “per soddisfare il piacere e la vista dell’uomo, o il piacere e la vista dell’uomo in conformità al mondo”, conviene che, senza dubbio, “il mondo sarebbe riuscito attraente, se Dio l’avesse congegnato secondo i capricci della nostra fantasia e l’avesse dotato di quelle cose che ciascuno può facilmente immaginare e sognare”.
Se ne ricava, dunque, che il piacere e la vista dell’uomo si compongono d’una duplice virtualità. Essa può condursi in ciascuno tanto con l’attenersi in conformità al mondo, quanto con l’indulgere ai capricci della fantasia, al sogno, all’immaginazione. Mantenersi conformi al mondo equivale, a giudizio di Spinoza, a dimostrarlo il mondo per via di speculazione secondo l’ordine geometrico ad esso inerente. Ma Boxel, alla richiesta d’una dimostrazione dell’esistenza degli spiriti e spettri che Spinoza esige, eccepisce che le dimostrazioni “non sono mai, all’infuori delle matematiche, così certe”, sicché, scrive, nel mondo “facciamo ogni tanto una congettura, e nei nostri ragionamenti, per mancanza di dimostrazioni, l’ammettiamo come probabile”.
Dunque nel mondo prevale, sulle ‘prove dimostrative’, il probabile e gli uomini si accontentano delle congetture probabili come se fossero verisimili. Al che pure Spinoza conviene: “nella vita ordinaria, scrive, noi siamo costretti a seguire il verisimile; ma nella speculazione siamo costretti a seguire la verità”. E aggiunge un avvertimento lungimirante: “dobbiamo guardarci bene dall’ammettere alcunché come vero che sia soltanto verisimile, perché, ammessa una falsità, ne seguono poi infinite altre”.
Nel 1670 Spinoza aveva pubblicato anonimo il Tractatus theologico-politicus al quale attendeva da almeno cinque anni. Il primo capitolo è dedicato alla profezia nelle Scritture. Qui Spinoza esplicita l’ispirazione profetica come la modalità peculiare di una immaginazione che ha per unico oggetto Dio. Di tale immaginazione le narrazioni dei profeti sono il frutto: nella Bibbia non si accolgono dimostrazioni, ma congetture verisimili, ovvero “quelle cose che ciascuno può facilmente immaginare e sognare”.
In proposito Antonio Droetto, commentatore del Tractatus, richiama l’ammissione di Spinoza: “io professo esplicitamente e senza ambagi di non intendere la Sacra Scrittura”. Rifletteva Antonio Banfi che “il problema estetico resta estraneo a Spinoza né egli accenna direttamente all’arte; non che lo spirito che anima la fioritura dell’arte gli sia lontano, ma egli lo sente in generale e non da un punto di vista interiore. Ma ciò che non ha sentito come arte, Spinoza ha sentito come vita. Quello spirito di realismo è vivo e profondo nella sua concezione e nel suo atteggiamento etico di fronte alla realtà”.

Repubblica 23.11.18
Psicoanalisi
A colloquio con Christopher Bollas
Il culto malato della normalità in psicoanalisi
di Vittorio Lingiardi


Christopher Bollas è una delle voci più originali e carismatiche della psicoanalisi contemporanea. Ha amici e nemici, questi ultimi considerandolo di indole letteraria, disinvolto nel pluralismo teorico, troppo ispirato e immerso nella sua fede psicoanalitica. Per gli amanti del pop, è l’unico psicoanalista menzionato nella prima serie originale (la migliore) di In Treatment. Nato negli Usa, ma di formazione clinica londinese, ha studiato con Francis Tustin e Donald Meltzer, è stato analizzato da Masud Khan, è tra i curatori dell’opera di Winnicott, ha subito il fascino di Lacan. Per anni ha svolto attività di formazione a Roma, presso l’Istituto di Neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli che, dice, «rimane il miglior centro psichiatrico per bambini che abbia mai visto». È prolifico: per quantità di libri, generi e neologismi. La sua scrittura risuona in modo subliminale ed è disseminata di concetti come “conosciuto non pensato”, “oggetto trasformativo”, “identificazione estrattiva”, creati per spingere sempre più in là il pensiero clinico.
Questo analista proteiforme sarà ospite del convegno nazionale della Società Psicoanalitica Italiana “Dalla consultazione alla costruzione della relazione analitica” (vedi box). Un titolo opportuno che evoca il respiro clinico che dal primo colloquio conduce al vero veicolo del cambiamento: la relazione terapeutica. Il tema della lecture di Bollas sarà la valutazione di chi è reduce da uno scompenso psicotico o addirittura è nel pieno del breakdown. «Parlerò di come la consultazione clinica con chi è alle prese con la psicosi può rivelarsi una magnifica occasione per un incontro trasformativo che prelude al lavoro analitico», esordisce. Gli stati mentali psicotici hanno sempre catturato l’interesse di Bollas, che sul tema ha scritto due libri da poco tradotti in italiano: Se il sole esplode (Cortina) e Catch them. La psicoanalisi del breakdown
psichico (Angeli), dove il titolo sta per “acciuffali in tempo” e scoprirai che il crollo ( breakdown) può diventare una breccia ( breakthrough). «La consultazione», aggiunge, «non è un passaggio tecnico nel processo dell’invio e della presa in carico. È un momento di comprensione analitica profonda». A un livello inferiore di accelerazione, penso la stessa cosa a proposito della diagnosi. Che non è assegnare un’etichetta, ma iniziare a formulare un caso, saper stare nella tensione benefica che ci sospende tra la categoria generale che classifica un disturbo e la storia individuale che, in quel paziente, lo rende unico. Ma poiché so che non tutti gli psicoanalisti amano le diagnosi, sono curioso di conoscere il punto di vista di Bollas. «Se non sa distinguere tra un isterico e un borderline», risponde, «credo che lo psicoanalista sia perduto. Si tratta di differenze cruciali, come sapere che un italiano non è uno svedese. Al tempo stesso credo che questa importante conoscenza in qualche modo “svanisca” man mano che ci si addentra nell’organizzazione di un particolare carattere. Come se nel corso dell’analisi le specificità diagnostiche scomparissero».
E ora proviamo a uscire dalla stanza d’analisi per fare quello che James Hillman, una specie di Bollas junghiano, vent’anni fa chiedeva agli analisti: aprire la finestra delle loro stanze e accorgersi del mondo. Nel suo L’età dello smarrimento. Senso e malinconia ( Cortina), Bollas non fa sdraiare sul lettino un singolo paziente, ma la nostra epoca. Gli chiedo quali sarebbero le libere associazioni di un elettore di Trump alla parola “umanità” che è la parola con cui finisce il suo libro. «Gli elettori di Trump sono molto diversi tra loro. Trump è un’oggettivazione sociale del nostro modo fallimentare di affrontare enormi problemi. Lo stesso vale per Brexit. Le risposte-scorciatoia tipo “lasciare l’Ue vs rimanere nell’Ue” non ci portano lontano. La libera associazione psicoanalitica serve a favorire domande capaci di muovere idee inconsce infinite. È un modo per battere l’egemonia delle soluzioni semplici a favore dei movimenti complessi del pensiero». A proposito della paura-rifiuto della complessità, che a mio avviso è la vera “diagnosi” contemporanea, uno dei capitoli più interessanti del libro di Bollas è quello sulla personalità “ammalata” di normalità, devota al benessere materiale, disinteressata alla vita interiore. «È psicofobica. Come molti americani, forse come il sogno americano stesso. Se Christopher Lasch, che scrisse La cultura del narcisismo, oggi fosse vivo sposterebbe l’accento dal narcisismo alla sociopatia come nuova normalità». Di solito i sociopatici non vanno in analisi. E i normopatici?. «Quando uscì il libro molti miei pazienti hanno concluso di essere normopatici. E da lì hanno provato a vedere le loro vite in modo diverso. È stato liberatorio. Le diagnosi sono effimere. Col tempo in analisi emergono le complessità della vita mentale e i sottili movimenti della personalità che coinvolgono l’Io dell’analista e dissolvono la coerenza della diagnosi originaria. Quindi, sì, ho iniziato a lavorare con alcuni normopatici e presto è iniziato il loro cambiamento. Di questi tempi molti pazienti cercano soluzioni operative a problemi complessi. La terapia cognitivo-comportamentale (che pure può essere utile) affronta i sintomi e i problemi con soluzioni operative».

il manifesto 23.11.18
L’obiezione di coscienza è una piaga che non si estirpa
Domani in piazza si chiederà una sanità laica che abbia al centro la salute delle donn
Verona, corteo Non Una Di Meno foto di Mirko Barbieri La Presse
di Elisabetta Canitano

La giornata di domano contro la violenza sulle donne deve essere motivo per una riflessione sull’obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza nasce nel 1978 nella legge per quei ginecologi che si siano specializzati non prevedendo che l ’aborto sarebbe stato fra i loro compiti. Allora il Vaticano invitò il personale che lavorava nei presidi ospedalieri a obiettare in blocco, elettricisti e cuochi compresi. Questo tentativo di rendere inapplicabile la legge ha camminato nel nostro paese non solo e non tanto sul tentativo di impedire la libera scelta delle donne nel primo trimestre. Si trova sempre una ginecologa che applica la legge.
Le procedure farmacologiche aumentano e in Francia se ne occupano i medici di medicina generale che lo desiderino. Donne e uomini sanno che è un diritto e si fanno sentire spesso se non vengono esauditi. Questo tentativo ha comunque camminato sull’aborto terapeutico per motivi fetali (Dio te lo ha mandato questo figlio e tu te lo devi tenere, e anche se fosse destinato a nascere solo per morire sarà appunto Dio a decidere quando se lo riprende e non tu) e su quello per cure materne. Se una donna ha bisogno di un aborto terapeutico, per proteggere la propria salute, deve essere in punto di morte perché venga praticato poiché la sua vita e quella dell’embrione o del feto (non del bambino, che non ci sarebbe comunque mai) devono andare in diretta contrapposizione fino all’ultimo. Muore Valentina Milluzzo nel 2016 perché nessuno le ha proposto di abortire a 17 settimane con utero aperto ed è notizia di ora il medico che di fronte a una donna che sta facendo un aborto terapeutico e ha bisogno di cure pretende che arrivi un ginecologo non obiettore: lui nemmeno la guarda. Inutile ribadire che non si può fare; si fa tutti i giorni in Italia negli ospedali cattolici che si autodefiniscono eccellenti per potersi assicurare la maggior parte dei finanziamenti come è successo nel Lazio con il Pd di Zingaretti.
Ma chi arriverà domani alla manifestazione si ricordi che la nostra ospitalità cattolica sta ricominciando la caccia alle streghe. Pretendete la sanità pubblica, la sanità laica. Quella che mette al primo posto le sorti delle persone nate. Le donne. Non il paradiso dei cattolici.

Repubblica 23.11.17
Lo scontro sulla 194
Neofascisti e ultrà cattolici in piazza contro le donne il patto che agita Verona
Domani il convegno di Forza Nuova con gli estremisti europei poi il corteo
Appello di Anpi, “ Non una di meno” e sinistra: “ Non rimaniamo indifferenti”
“Non molestarmi” è uno speciale del Visual Lab: testimonianze, storie e una guida pensata per le giovani donne contro le molestie. Online da oggi su Repubblica.it.
di Paolo Berizzi


Verona. Verona contesa sulla 194. Quarant’anni dopo. Da una parte l’associazione femminista “ Non una di meno”, la sinistra e la galassia delle sigle antirazziste. Dall’altra uno schieramento che va dal sindaco Federico Sboarina alla Lega, dai fascisti di Forza Nuova alle associazioni cattoliche e ai farmacisti. Questi ultimi, notizia di ieri, si sono appena schierati: Federfarma è entrata a gamba tesa contro l’iniziativa di “Nudm” che ha distribuito davanti alle scuole e alla stazione alcune bustine contenenti pasticche di zucchero e un foglietto informativo sui contraccettivi e sul casus belli, la legge 194 «che in Italia — è scritto sulla pagina Fb dell’associazione — consente alle donne di non morire di aborto».
« Già siamo preoccupati per l’abitudine all’utilizzo da parte delle giovani della pillola del giorno dopo — dice Arianna Capri, vicepresidente dell’associazione titolari di farmacia — . E non ci sembra il caso di parlare per strada e senza il dovuto supporto tecnico scientifico di un argomento che coinvolge la salute della donna». Critiche a cui le femministe hanno subito replicato tenendo il punto sulla pillola e spiegando che il volantino rimandava al sito dove le spiegazioni «erano ovviamente più esaustive e complete».
Il prossimo terreno di scontro sarà domani: una giornata che si preannuncia densa anche in piazza. Sul tema 194, ancora una volta, è schierata l’ultradestra. Forza Nuova e Comitato NO 194 — a cui aderisce anche il ministro leghista per la Famiglia Lorenzo Fontana — sfileranno in corteo (partenza alle 15 da Porta Nuova) a difesa delle tradizioni e in contrapposizione alla cosiddetta “rivoluzione del ‘68” sulla liberazione sessuale. Prima, in mattinata, il convegno di Forza Nuova dal titolo inequivocabile: “ Verona Vandea d’Europa”. Il luogo dell’insurrezione cattolica nella Francia giacobina rievocato per affermare l’immagine di Verona “città a favore della vita”. Un manifesto, di fatto, del laboratorio scaligero, dove tradizionalmente estrema destra, integralisti cattolici e leghisti trovano terreni di condivisione e saldature. Ma sulla sede del convegno è mistero: il Grand Hotel Des Arts — che doveva ospitarlo — ha revocato la sala per motivi di sicurezza. I neofascisti hanno cercato un’altra location. Chi sono i relatori dell’incontro? Oltre al segretario forzanovista Roberto Fiore, sulla locandina di “Verona Vandea d’Europa” spicca Marian Kotleba, presidente del partito ultranazionalista e razzista Nostra Slovacchia: uno che si fa chiamare vodca ( duce, in slovacco) e che sfila in uniforme e baffetto alla Hitler con la torcia in mano per commemorare il sistema collaborazionista di Josef Tiso. Era prevista anche la presenza di László Toroczkai, sindaco di Asotthalom, al confine serbo- ungherese, leader di gruppi paramilitari violente “ cacciatori di migranti” (su Fb posta le foto delle catture con gli esseri umani rappresentati come prede). Curiosità: il nome di Toroczkai, inizialmente nella locandina del convegno, è sparito nell’ultima versione. Confermato invece il pugile Fabio Tuiach, consigliere comunale di Fn a Trieste secondo il quale i femminicidi sono « un’invenzione della sinistra».
Contro l’iniziativa neofascista e il corteo si schierano i partiti di sinistra e l’Anpi. « Verona sarà nuovamente teatro di eventi che richiamano all’odio e all’intolleranza », spiega in un comunicato l’Anpi scaligera che fa un appello: « Non rimaniamo indifferenti » . Oltre ai relatori di “ Verona Vandea d’Europa” — « noti per le loro posizioni lesive della dignità delle persone, in particolare delle donne e dei migranti » — l’Anpi punta l’indice anche contro il corteo contro la legge 194. Un controcorteo vedrà in piazza la sinistra: dal Pd (che pure sulla mozione anti- aborto proposta dal consigliere comunale leghista Alberto Zelger si era diviso, con la capogruppo Carla Padovani che aveva votato a favore) alle sigle dell’assemblea “ 17 dicembre”. « Faremo sentire la nostra voce contro chi vuole calpestare i diritti delle donne in nome di un progetto delirante che vorrebbe vietare l’aborto per ripopolare la Nazione e fermare “l’invasione africana”».

Repubblica 23.11.18
Religione senza alternativa. E la scuola laica?
di Concita De Gregorio

Grazie a Claudia Simonetti, Roma
Gentile Concita, mio figlio frequenta la prima elementare in un istituto statale di Roma, una scuola pubblica, quindi. In questa scuola pubblica due ore settimanali del programma scolastico sono dedicate all’insegnamento della religione cattolica.
Nella prima riunione dell’anno scolastico l’insegnante di riferimento ha illustrato a grandi linee quale sarebbe stato il programma che avrebbe svolto con i bambini: si sarebbe parlato soprattutto di Gesù, della sua nascita morte e Resurrezione ponendo però l’accento più sulla Resurrezione per non rischiare di spaventare troppo i bambini con l’argomento “morte”. Mio figlio non si avvale dell’insegnamento della religione cattolica, striderebbe con la totale mancanza di vita religiosa all’interno della sua famiglia ( non è stato nemmeno battezzato) e dunque in quelle due ore dovrebbe essere impegnato nella cosiddetta “materia alternativa”. Ieri una delle maestre ha comunicato a me e agli altri genitori i cui figli non frequentano religione che la materia alternativa prevista ormai da un paio d’anni, incentrata sullo studio dei monumenti di Roma, quest’anno non potrà svolgersi: manca l’insegnante preposta. Sarà dunque lei, la maestra di matematica, a occuparsi dei bambini in quelle due ore, portandoli in sala computer.
Tutto ciò mi lascia con l’amaro in bocca. La scuola pubblica è per sua stessa definizione laica. Io rispetto tutte le religioni e soprattutto rispetto chi ha una fede e vuole educare i propri figli alla luce di quella, ma è una sfera che attiene esclusivamente al privato, ai valori e alla vita familiare dei singoli. Ciò di cui non mi capacito è che all’interno di un’istituzione come quella scolastica sempre più carente nei rispondere alle problematiche sociali delle nuove generazioni, non si possano impiegare quelle due ore, o anche solo una, per attività che puntino maggiormente alla crescita emotiva dei nostri figli, allo sviluppo della socialità, al dialogo con gli stessi insegnanti in quanto rappresentanti del mondo adulto, invece di dover scegliere tra il catechismo e un’attività del tutto inutile.
Un esempio? Nelle scuole danesi a partire dai sei anni una volta alla settimana si svolge l’ora di classe, in cui bambini e insegnanti si confrontano e i bambini sono stimolati a esprimersi sia su eventuali problemi della classe o dei singoli sia ad affrontare questioni più ampie compresi la morte o il sesso (non vengono considerati troppo piccoli per farlo); attraverso questa ora i bambini vengono aiutati a conoscere maggiormente loro stessi e gli altri, e ciò si è rivelato anche un prezioso strumento nella prevenzione del bullismo.
Oggi ho ricevuto un messaggio nella chat di classe in cui la rappresentante esponeva le problematiche espresse dalle maestre: i bambini presentano scarsa autonomia, sostanziale assenza di regole e hanno comportamenti eccessivamente infantili per la loro età. Noi genitori siamo giustamente chiamati a cercare di prendere provvedimenti in tal senso, ma a una mia richiesta di chiarimento sulla specificità di questi problemi non ho ricevuto risposta. Spero che se ne parli almeno durante le ore di religione”.

Repubblica Roma 23.11.18
Violenze a Roma classifica shock "Uno stupro ogni giorno"
L’allarme dallo studio della Uil: nel 2017 sono state 416 le denunce di aggressioni sessuali Dieci i femminicidi oltre ai sei di quest’anno
di Cecilia Gentile


Dati agghiaccianti, ai quali non si vorrebbe credere. Nel 2017 a Roma si è consumato più di uno stupro al giorno. I femminicidi sono stati 10, sei nei primi dieci mesi del 2018.
Dall’elaborazione realizzata da Uil Lazio ed Eures per la Giornata internazionale contro la violenza alle donne di dopodomani, emerge il cupo scenario di una capitale cieca e misogena, dove le donne, anche minorenni, sono troppo spesso esposte alla ferocia gratuita degli uomini, spessissimo proprio all’interno delle mura domestiche.
Sono state 416 le denunce per violenza sessuale a Roma nello scorso anno, il 17,3% in più rispetto al 2016, quando erano 352, con una crescita superiore a quanto avviene nel resto dell’Italia, dove le violenze sessuali aumentano del 15%. Violenze spesso di gruppo, se si considera che il numero degli autori è di gran lunga superiore a quello delle vittime: 886 stupratori uomini su 405 donne vittime. Nel Lazio le denunce per violenza sessuale nel 2017 sono arrivate a 514, il doppio rispetto al 2000 quando erano 275. Trentuno nel Lazio e 25 a Roma riguardano vittime minori di 14 anni.
«Dati che fanno rabbrividire — commenta il segretario generale della Uil del Lazio, Alberto Civica — e che ci fanno comprendere quanto ci sia ancora da fare a tutela dell’universo femminile, vittima non solo di orrendi reati ma anche di una cultura fortemente maschilista che permea la nostra società, contribuendo ad acuire quelle disparità lavorative, economiche e sociali purtroppo preesistenti su cui invece bisognerebbe agire in fretta».
E naturalmente le violenze sono di gran lunga superiori alle denunce perché tra le vittime sono ancora molto forti forme di resistenza psicologica, dovute alla vergogna, all’esposizione della propria intimità violata, ai sensi di colpa, alla paura del rifiuto sociale. Così si rimane paralizzate dal terrore, doppiamente vittime.
Tra il 2000 e i primi dieci mesi del 2018 sono state 257 le donne uccise nel Lazio, con una media di 14 vittime l’anno. Una conta che non accenna a diminuire: a fronte di un progressivo calo degli omicidi e delle vittime di sesso maschile, il numero delle vittime di sesso femminile è rimasto sostanzialmente costante negli anni, rappresentando oltre il 40% delle vittime nell’ultimo biennio (45,2% nel 2016 e 41,9% nel 2017). L’indagine colloca la nostra regione al secondo posto in Italia dopo la Lombardia per intensità del fenomeno. Nel 72,4% dei casi (179 in valori assoluti, ovvero mediamente 10 ogni anno), le donne sono state uccise in famiglia o all’interno di una relazione di coppia, in essere o conclusa. Contesti che si confermano i più a rischio, con 110 vittime uccise da un marito, un amante o un ex partner. Sempre nel 2017 a Roma si sono registrati due casi al giorno di stalking.

Repubblica Roma 23.11.18
La vertenza
Dalla Casa delle Donne raccolta fondi: resistiamo
di Arianna Di Cori

La polemica col Campidoglio non si ferma: "Forniamo molti servizi e tutti di grande valore sociale e culturale Ma il Comune non ci pensa"
« Ci chiamano privilegiate? È il comune di Roma ad essere privilegiato ad avere realtà come la nostra. Siamo un’opportunità, non parassiti ». È il grido che si leva alla Casa Internazionale delle Donne che ieri ha annunciato il ricorso al Tar contro la procedura di sfratto intentata dal Comune per morosità.
Le avvocate Giuliana Aliberti e Maria Rosaria Russo Valentini — che stanno prestando consulenza pro bono — ne hanno illustrato i contenuti. «C’è un equivoco di fondo — spiega Aliberti — l’immobile del Buon Pastore fa parte del patrimonio indisponibile del Comune, ossia è destinato solo a servizi di pubblica utilità. La Corte dei Conti ha già riconosciuto che non vi è stato alcun danno all’erario da parte della Casa». In sintesi, l’immobile è vincolato ad ospitare associazioni senza scopo di lucro e non può essere usato "per far cassa".
« Ci sono esempi in Italia analoghi — continua l’avvocata — per tutti è previsto il pagamento di canoni irrisori, che tengono conto del valore dei servizi offerti». Inoltre, il consorzio ha anche realizzato, a sue spese, interventi di manutenzione straordinaria e ordinaria della sede seicentesca. «Se il Comune erogasse gli stessi servizi che noi offriamo, sosterrebbe costi molto più alti » , chiosa Francesca Koch, presidente della Casa. « Al contrario di quel che dichiara la sindaca, noi vogliamo pagare il giusto. Abbiamo chiesto, invano, di incontrarla più volte proprio per avviare una trattativa», continua Koch, mostrando le numerose lettere in carta intestata spedite all’attenzione di Virginia Raggi.
Per far fronte al debito ( che secondo il Comune ammonta a oltre 800mila euro, 250mila per la Casa) è partita una campagna di raccolta fondi. « Le donne a casa » , « Aiutiamole a casa loro — sì ma quale casa? » sono alcuni dei messaggi e slogan ironici da diffondere online e che riporteranno al nuovo sito lacasasiamotutte. it.
Al fundraising faranno eco una serie di eventi: oggi dalle 17 all’ex caserma Guido Reni un pomeriggio di spettacoli e talk in vista della giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre. Il 17 dicembre la Casa andrà al Trullo per una serata jazz con Nicky Nicolai; gran finale all’Auditorium, il 26 gennaio: tra gli ospiti Fiorella Mannoia, Paola Turci, Tosca. E questo sabato, appuntamento in piazza, con la manifestazione nazionale di Non una di meno.

Il Fatto 23.11.18
“Diversi dalla Lega, innanzitutto sulla legalità”
Barbara Lezzi - Il ministro per il Sud del M5S: “Il governo esisterà finché farà quanto previsto dal contratto”
“Diversi dalla Lega, innanzitutto sulla legalità”
di Luca De Carolis


“L’emendamento passato grazie ai franchi tiratori dimostra che noi e la Lega siamo diversi, innanzitutto sulla legalità. E di certo non siamo alleati”. Due giorni dopo l’agguato alla Camera, con il governo finito sotto in un voto segreto sul disegno di legge Anticorruzione, il ministro per il Sud Barbara Lezzi semina paletti.
I 36 erano davvero solo del Carroccio? O c’era dentro qualcuno dei vostri?
Noi le nostre discussioni le facciamo in modo trasparente, per cui immagino vengano dalla Lega
È stato un attacco a voi o un’operazione interna contro Matteo Salvini? O entrambe le cose?
Non lo so, le dinamiche interne alla Lega non mi interessano. Piuttosto, ho letto di anonimi deputati leghisti che sostenevano di aver voluto dare un segnale al Movimento. Ma è un messaggio che rispediamo al mittente. Non ci siamo impauriti, e su temi come l’Anticorruzione non faremo sconti a nessuno.
Qualcuno se li aspettava?
Non siamo al governo per fare le cose a metà. Questo esecutivo esisterà finché farà tutto ciò che deve fare per il bene del Paese, rispettando il contratto.
Esponendosi in favore degli inceneritori, Salvini ha messo in dubbio proprio l’intoccabilità del contratto di governo, “perché la realtà cambia”.
Certo, i tempi cambiano. Quindi bisogna andare oltre gli inceneritori, perché ci sono impianti che riciclano la plastica e la carta. Non si può tornare indietro.
Perché il segretario della Lega vuole gli inceneritori, per prendere voti di politii campania?
Non so se Salvini stesse parlando a loro o ad altri. Di certo con quelle parole non è andato incontro al M5S e al contratto.
Se siete così diversi, perché proseguire assieme? Solo per il potere?
No, per realizzare cose che servono al Paese. Noi non siamo alleati della Lega, e abbiamo un’identità molto diversa dalla loro, ma siamo impegnati da un contratto.
Ma come farete a fidarvi ancora gli uni degli altri?
Io non devo fidarmi della Lega, mi fido dei ministri dei 5Stelle e del contratto di governo. E comunque al ministro Centinaio ho dato 30 milioni per fermare la xilella. E lavoro bene anche con altri ministri del Carroccio.
A unirvi è rimasta solo l’ostilità verso la Commissione europea? In queste settimane voi e la Lega avete usato toni violenti.
All’inizio anche i commissari europei hanno usato toni duri. C’è chi ha detto che i mercati rimanderanno gli italiani a votare. Dopodiché, riconosco che bisogna abbassare i toni e dialogare. Io lo sto facendo con la commissione sui fondi europei, e sta dando ottimi risultati. Per esempio recuperemo 750 milioni per la Sicilia.
Sarà. Però la commissione boccia la manovra anche perché prevede troppo poco per gli investimenti.
Non è così, le risorse ci sono e con 15 miliardi in più. E abbiamo previsto in manovra una cabina di regia presso Palazzo Chigi per accelerare su miliardi di investimenti già previsti ma mai attuati.
Non possono fidarsi di un governo così traballante.
Ora non si fidano perché i precedenti governi non hanno mantenuto le promesse. Ma noi abbiamo previsto controlli periodici sui conti per rimanere dentro il 2,4%. Questo governo ha diritto al beneficio del dubbio: ci diano un anno.
Se non cadrete prima… L’Anticorruzione è stata una ferita.
Quando vado in Europa porto con me il ddl sull’Anticorruzione, che abbatterà la corruzione e quindi i costi delle opere pubbliche. Ci aiuterà nei negoziati con la commissione. E la Lega lo sa.

La Stampa 23.11.18
Lega in ascesa continua
Primo partito in Emilia ora sfonda anche al Sud
di Fabio Martini


C’è qualcosa di antico, anzi di nuovo nell’irresistibile escalation della Lega guidata da Matteo Salvini. Lo raccontano non tanto i soliti sondaggi nazionali, ma elaborazioni più chirurgiche, più riservate. Dentro rilevazioni che confermano una tendenza oramai «antica» - la tenuta delle intenzioni di voto per la Lega sopra il 30 per cento - numeri altrettanto sorprendenti riguardano l’Emilia Romagna e la Toscana, dove la Lega è diventato, sia pure virtualmente, il primo partito, superando così il Pd, estenuato erede di una tradizione per decenni egemone da quelle parti; l’onda lunga nazionale trascina il partito di Matteo Salvini attorno al 50 per cento in Veneto, mentre al Sud il Carroccio sta diventando in alcune zone il secondo partito alle spalle dei Cinque Stelle.
Le due Italie
Numeri impressionanti perché consolidati in un arco di tempo limitato (sette-otto mesi), eppure questa ascesa così impetuosa, si è rallentata per effetto di un germe che potrebbe insidiare l’ulteriore escalation: in tutto il Nord c’è un tessuto di imprenditori, piccoli e grandi, partite Iva, artigiani che guarda con crescente sospetto ai Cinque Stelle. Dice Alessandra Ghisleri, leader di Euromedia Research, un istituto che lavora sempre con campioni importanti: «Lega e Cinque Stelle rappresentano due Italie diverse, l’Italia del lavoro e quella assistenziale. In questo momento gli imprenditori del Nord guardano con attenzione al progetto di Salvini di allagare il consenso al Sud, ma vogliono meno tasse e più crescita: seguire troppo l’alleato di governo potrebbe essere penalizzante per il Nord…».
Rallentamento al Nord
Penalizzante al punto da inibire la crescita del Carroccio? «Se nella impetuosa crescita della Lega un’increspatura c’è - dice Roberto Weber, capo di Ixè - questa riguarda il Nord e non il Sud. È al Nord che c’è la ricchezza, è al Nord che potrebbero consolidarsi le incertezze verso il governo».
Per il momento sono stati proprio i sondaggi nazionali la ragione principale della conflittualità permanente tra i due alleati di governo. Le elezioni del 4 marzo avevano conferito ai Cinque Stelle il 32,7% e alla Lega il 17,4%: questo significa che il peso dei due partiti, in un’ideale «torta» era diviso al 65,4% per i pentastellati e il restante 34,1% ai leghisti. Ora quel rapporto si è invertito per effetto di numeri che parlano da soli: dall’iniziale 17,4% la Lega sarebbe passata al 32,7%, per Ipsos al 34,7%, per Euromedia al 31,3%. Contestualmente i Cinque Stelle sono segnalati da Ipsos al 28,7%, da Euromedia al 26,7% e da Swg addirittura al 26,4%, poco sopra la percentuale ottenuta alle Politiche del 2013.
La scommessa del Sud
Dentro queste dinamiche nazionali, i diversi territori rispondono in modo diverso. Molto significativa la stima di Alessandra Ghisleri sulla Circoscrizione 2 delle Europee, che comprende Veneto, Friuli, Trentino Alto-Adige, Emilia Romagna: «In questa area del Paese la Lega sta tra il 45 e il 48%, anche se l’ incremento relativo più significativo si registra nelle regioni rosse, Emilia e Toscana. Mentre il progetto è quello di diventare un partito nazionale con percentuali alte in tutta Italia. Anche al Sud».
Una vocazione nazionale, in parte sudista e soprattutto l’alleanza con i pentastellati possono rallentare la crescita leghista in un’area strategica come il Nord-Ovest? «L’alleanza con i Cinque Stelle, che mostrano tanta buona volontà ma una evidente incapacità - sostiene il “moderato” Giacomo Portas, deputato torinese del Pd con un passato nel campo dei sondaggi - da ora in poi può incidere sulla crescita ulteriore della Lega, finora protagonista di un boom di consensi davvero eccezionale. Alla lunga la Lega rischia di non reggere e di pagare elettoralmente una diffusa strategia del No. Per dirne solo una: il 4 marzo in Val di Susa ha vinto Salvini, mica i No Tav».

il manifesto 23.11.18
Congresso virtuale e segretario eletto dal popolo
Primarie. Il Pd è ormai un partito “in franchising”. I leader nazionali contrattano il sostegno dei leader periferici, in cambio del pieno controllo delle “filiali” locali. In queste condizioni, quanti saranno gli elettori alle primarie sinceramente motivati dal sostegno ad un candidato, e quanti quelli che invece saranno mobilitati da un capo-cordata?
di Antonio Floridia


Il Pd ha avviato le procedure per l’elezione del segretario (non chiamiamolo congresso). Candidati non particolarmente innovativi e non si va oltre un repertorio di luoghi comuni.
In assenza di idee forti, e di una vera discussione politica, l’osservatore non può che concentrarsi su alcuni dettagli, rivelatori dello stato e delle condizioni in cui si trova il partito.
Il primo: ritorna lo sciagurato mantra del “vincitore la sera delle elezioni”. Minniti considera una iattura l’eventualità che dal voto ai gazebo non esca subito un candidato eletto con oltre il 51% dei voti . Ricordiamo che l’Assemblea Nazionale, cui spetterebbe decidere, in questo caso, con un ballottaggio tra i due candidati più votati, è composta in modo rigorosamente proporzionale, sulla base di liste (bloccate) collegate ai vari candidati. L’Assemblea, quindi, non è dotata di una propria autonoma legittimità democratica: è composta da membri, letteralmente, trainati (e prima ancora, decisi) dai candidati-segretario. Perché, allora, questo allarme? E’ chiaro: perché in tal caso, sarebbe necessaria, orribile solo a dirsi e a pensarsi, una qualche mediazione.
Queste parole di Minniti, e non solo sue, dimostrano quanto radicata sia la distorsione plebiscitaria del modello di partito che caratterizza il Pd. All’interno di questa logica, il leader è veramente tale se eletto dal “popolo”, e risulterebbe dimezzato, delegittimato e senza le “mani libere”, se subisse l’onta di essere votato da un organismo dirigente.
In un partito sorretto da un normalissimo modello di democrazia rappresentativa, gli organismi avrebbero e hanno il compito di individuare un segretario che esprima le posizioni prevalenti, ma che sia anche in grado di fare sintesi e di tenere insieme il partito: nel Pd, no, non è così; vige una forma di democrazia immediata. Un vero leader non può che essere unto dal popolo delle primarie: un popolo, oltre tutto, sfuggente e indefinito, un “corpo sovrano” inafferrabile, che si materializza solo al momento del voto, e poi svanisce.
La seconda parola-chiave è posizionamento. Con questo termine si intende la delicata operazione con cui i principali esponenti del partito, ma poi giù, a cascata, tutti i vari notabili locali, decidono di dare il proprio sostegno a questo o a quel candidato alla segreteria. Operazione ad alto rischio, perché si tratta di scegliere il cavallo vincente su cui puntare: ovviamente, vogliamo sperarlo, ci saranno anche nobili motivazioni e ragioni politiche, a guidare questa scelta. Ma non ne saremmo troppo sicuri: soprattutto, quando, si passa dai piani alti a quelli più bassi.
Anche questo meccanismo è legato ad una caratteristica strutturale del Pd: il suo essere un partito “in franchising”. I leader nazionali contrattano il sostegno dei leader periferici, in cambio del pieno controllo delle “filiali” locali. In queste condizioni, quanti saranno gli elettori alle primarie sinceramente motivati dal sostegno ad un candidato, e quanti quelli che invece saranno mobilitati da un capo-cordata? In realtà, vincerà chi riuscirà ad attivare la più efficace circolazione extra-corporea, ovvero elettori che nulla hanno oramai a che fare con il partito e quel che rimane della sua vita ordinaria.
Del resto, è quello che raccontano le cronache politiche di queste settimane: Zingaretti che si assicura il sostegno di Gentiloni e Franceschini, Minniti che esibisce il sostegno di 500 sindaci, con De Luca che scalda i motori in Campania; altri pezzi dell’ex-maggioranza renziana e delle ex-minoranze di sinistra, che cercano forse un proprio autonomo spazio di manovra, appoggiando Martina. Una logica che presuppone un preciso meccanismo: i leader nazionali attivano i propri “referenti” regionali e locali e questi, a loro volta, mobilitano i loro “terminali” alla base. Altro che esercizio di democrazia: le primarie funzionano così.
Infine, un terzo dettaglio, ma non di poco conto: Renzi, ostentatamente, diserta l’Assemblea nazionale del 17 novembre. Le cronache hanno anche raccontato come, in quel di Salsomaggiore, dove la settimana prima si erano riuniti i renziani, serpeggiasse un certo malumore: il Capo sembra disinteressarsi del destino delle sue truppe fedeli. La realtà, semplicemente, è che quest’area del partito non è stata in grado di esprimere un candidato forte, che fosse realmente rappresentativo del renzismo di questi anni. Ma questo rivela come quella di Renzi non sia stata una vera leadership, capace di costruire intorno a sé un gruppo dirigente, un insieme di idee-forza, di visioni politiche e programmatiche.
Nulla di tutto questo: è stato un esercizio di comando solitario, vissuto nel vuoto e che lascia il vuoto. Per un verso, questo modo di concepire la leadership si rivela disarmata, quando si tratta di competere su un altro terreno, costretta a sostenere di mala voglia un candidato, come Minniti, che ha altre radici, e che sta già mostrando di non voler farsi etichettare come renziano (che ci riesca veramente, è altra storia, e lo capiremo guardando alla composizione delle liste che lo sosterranno); ma per altro verso, Renzi è un Capo che conserva pur sempre una sua base strettamente personale di consenso e una sua rete di potere.
Si spiega così come l’idea di “andare oltre” il Pd, ambiguamente, torni ad aleggiare sullo sfondo: in questa logica, il partito conta solo se lo si controlla, altrimenti lo si può abbandonare al suo destino. E forse, per il bene di quel che resta del Pd, sarebbe forse la cosa più saggia da fare.

il manifesto 23.11.18
De Magistris lancia la coalizione civica contro «l’onda nera»
Sinistra. Il primo dicembre a Roma, con Sinistra Italiana e Prc. Collegamenti video con Spagna e Grecia. Iniziativa in vista delle europee. Ma il sindaco pensa soprattutto alle prossime politiche
di Adriano Pollice


Le Sezioni riunite della Corte dei conti mercoledì pomeriggio hanno sospeso il provvedimento della Corte dei conti campana, che aveva imposto il blocco della spesa del comune di Napoli per irregolarità nella stesura dei bilanci. Il parere definitivo toccherà alla Corte costituzionale ma, intanto, l’amministrazione partenopea tira un sospiro di sollievo. Ieri il sindaco Luigi de Magistris ha spiegato: «Il dispositivo di blocco della spesa addirittura prefigurava in modo un po’ improvvido, se noi non avessimo fatto determinate cose, anche lo scioglimento del consiglio comunale». Entro oggi la giunta approverà il bilancio di previsione e il nuovo piano di riequilibro.
Per mettere i conti in salvo, però, ci vorrà un intervento del governo sul debito con il consorzio Cr8 risalente al terremoto del 1980, un debito che lo stato ha riconosciuto come proprio con il governo Gentiloni, tocca al nuovo esecutivo cancellarne le sanzioni. I contatti con la sponda grillina sono buoni e con un certo ottimismo de Magistris si appresta a sbarcare a Roma per l’assemblea del primo dicembre al Teatro Italia.
L’iniziativa è stata lanciata sotto le insegne del suo movimento, Dema, ma è in realtà un tentativo per capire che spazio c’è per la costruzione di una nuova coalizione nazionale: «È giunta l’ora – scriveva nell’appello de Magistris – di un fronte popolare democratico senza confini politici predeterminati, senza recinti tradizionali. Non è un quarto polo, non si deve ricostruire il collage delle fotografie già viste e sconfitte». L’invito a partecipare è stato fatto, in particolare, a Ilaria Cucchi e al sindaco sospeso di Riace, Mimmo Lucano, in entrambi i casi guardando a possibili candidature alle elezioni europee. Sono previsti pullman da Nord a Sud (in particolare Liguria, Calabria e Puglia) e collegamenti video da Spagna e Grecia, sponda Podemos e Diem25.
Molto attive nell’organizzazione dell’appuntamento Sinistra italiana e Rifondazione comunista, reduce quest’ultima dalla rottura con Potere al popolo. Anche a Pap è arrivato l’invito: domani durante il neo Coordinamento nazionale, eletto a inizio mese, si deciderà se aderire o meno. Ma, comunque, mettono le mani avanti: «Non siamo interessati a cartelli elettorali con gli schemi della vecchia sinistra». Insomma, il finale dell’assemblea del primo dicembre non è già scritto.
Sul tavolo ci sono le scadenze elettorali a cominciare dalle europee del 2019, anche se de Magistris non ha ancora sciolto la riserva su una sua corsa in prima persona, avvisando anzi che nell’ipotesi di elezione lascerebbe il posto al secondo in lista. Nel 2020, poi, ci saranno le regionali in Campania ma l’interesse primario è la costruzione di un fronte in grado di misurarsi alle politiche.
Mercoledì de Magistris l’ha detto in modo esplicito: «Vorrei essere l’anti Salvini. Come premier sarei il suo opposto: credo che si debba lavorare su coesione e solidarietà». Ieri, a margine dell’incontro con la stampa sulla sentenza della Corte dei Conti, è tornato sullo scenario politico nazionale: «La bocciatura della manovra economica del governo da parte dell’Unione europea mi preoccupa. Per i capricci elettorali di qualcuno, rischiamo che vengano sbriciolati i risparmi di una vita dei cittadini. C’è il timore forte che il paese non sia in mani salde». Per poi offrire una piattaforma alternativa: «Ci vorrebbe una manovra che metta in sicurezza l’Italia, che si sta sgretolando, una manovra vicina ai sindaci e alle esigenze dei territori». L’obiettivo, ha spiegato de Magistris, è la costruzione di una coalizione civica nazionale «contro l’onda nera che avanza».

il manifesto 23.11.18
Medici in sciopero per 24 ore: «Contratto bloccato da 10 anni»
Protesta. La ministra della Sanità Grillo: «Sono con voi». Sui fondi incontro tra Stato e regioni il prossimo 29 Novembre.
di Madi Ferrucci


Medici, veterinari e dirigenti sanitari scioperano per 24 ore oggi per il rifinanziamento del servizio sanitario nazionale e il rinnovo del contratto nazionale bloccato da dieci anni. E la ministra della Salute Giulia Grillo ha detto: «Sono con voi». «Sono anni che ogni autunno i medici lanciano l’allarme in vista della legge di bilancio, è ora di ascoltarli» ha detto in un’intervista al «Quotidiano Sanità». Il prossimo 29 novembre è stato convocato un confronto tra Stato e regioni su uno dei punti dolenti per il settore: la rimozione del tetto di spesa sul personale sanitario. La speranza di Grillo è che il ministero dell’economia sia disposto ad affrontare la spesa. Dopo un incontro con il presidente delle regioni Stefano Bonaccini, ieri il viceministro dell’economia Massimo Garavaglia ha parlato di «proposte interessanti per fare tanta spesa per investimenti». «A me i “potrebbero” interessano poco, interessano più che i fondi ci siano» ha risposto Bonaccini.
LA LEGGE DI BILANCIO stanzierà un miliardo di euro di fondi per la sanità, come già previsto da quella precedente del governo Gentiloni, a fronte dei due richiesti dalle regioni. Oltre alle risorse sui rinnovi contrattuali, mancano al momento quelle per le borse di studio necessarie all’attività degli specializzandi. Per i sindacati il governo Lega-Cinque Stelle si conferma in linea di continuità con le politiche dei tagli al welfare, portate avanti dai governi precedenti: «Da un lato si parla di “reddito di cittadinanza”, dall’altro non garantisce a tutti i cittadini la fruizione dei servizi di base – sostiene Andrea Filippi, segretario della Fp Cgil Medici – Questa situazione crea una sfiducia sempre maggiore nel sistema sanitario pubblico e mette in conflitto cittadini e operatori dei servizi, a tutto vantaggio del settore privato». Mancano 50 mila operatori sanitari, mentre dei 3 mila contratti per la formazione specialistica necessari, il governo attuale ha deciso di stanziare risorse solo per 800 posti, investendo 20 milioni di euro a fronte dei 120 milioni previsti. Per Filippi la decisione appare quindi il frutto di «una precisa volontà politica che ha scelto di continuare ad erodere i fondi per la sanità pubblica, favorendo in tal modo la concorrenza delle strutture private».
È NECESSARIO INVESTIRE in maniera programmata sulle assunzioni e sui processi di formazione dei nuovi medici sostiene Alessandro Conte, vice coordinatore di Anaao giovani, Ad oggi ci sarebbero 10 mila giovani in attesa di ottenere un posto per la specializzazione; un esercito che vive in una condizione di precariato, pronto a riversarsi nelle strutture private o ad emigrare all’estero. «E’ necessaria una scelta di campo – sostiene Conte – si vuole garantire un sistema di cure universale in cui non importa chi sei o di chi sei figlio, oppure vogliamo fal dipendere la salute dei cittadini dal tipo di assicurazione che possono permettersi?».

il manifesto 23.11.18
Un crollo ogni quattro giorni di lezione a scuola
Giornata nazionale della sicurezza. Anche ieri due bambine ferite dalla caduta di calcinacci in una scuola in provincia di Sondrio. Nella prevenzione negli istituti scolastici il Sud arranca, meglio al Centro e al Nord
di Roberto Persia


Anche nella giornata nazionale per la sicurezza nelle scuole alcuni calcinacci si sono staccati dal soffitto di una scuola materna in provincia di Sondrio ferendo in modo lieve due bambine di due e quattro anni.
Secondo il XVI rapporto sulla sicurezza delle scuole redatto da Cittadinanzattiva il nostro paese presenta notevoli diseguaglianze a seconda delle aree geografiche. Il Sud arranca, solo il 17% delle scuole ha il certificato di prevenzione incendi, il 15% quella igienico-sanitaria, il 15% quello di agibilità, il 18% il collaudo statico; un po’ meglio al Centro, dove il 19% ha il certificato di prevenzione incendi.
Decisamente più positivi i dati al Nord, con il 64% delle scuole in possesso del certificato di prevenzione incendi, il 61% ha effettuato il collaudo statico. Solo un quarto delle scuole ha l’agibilità/abitabilità, poco più della metà (53%) il collaudo, un terzo è in possesso della certificazione di prevenzione incendi, poco più (36%) di quella igienico-sanitaria.
Il quadro è poco confortante che non cambia se guardiamo ai dati sulla manutenzione degli edifici scolastici. Dal rapporto emerge un’Italia a «tre velocità». Chi investe di più sulla manutenzione ordinaria è la Lombardia, in media quasi 119mila euro); meno la Puglia che però non arriva ai 3mila euro. La verifica di vulnerabilità sismica è stata effettuata solo nel 2% delle scuole calabresi e nel 59% di quelle umbre, il certificato di prevenzione incendi è presente nel 69% degli istituti del Trentino Alto Adige e solo nel 6% di quelli laziali. Per Save The Children, che ieri ha aderito alla giornata , in Italia circa 4 milioni e mezzo di studenti vivono in province in aree ad alta o medio-alta pericolosità sismica.
I lavori dell’Osservatorio per l’edilizia scolastica, a cui anche Save the Children ha preso parte, è stato presieduto dal ministro dell’Istruzione Marco Bussetti che, all’apertura del suo mandato, ha annunciato che il governo avrebbe sbloccato «un miliardo di euro per la prevenzione antisismica» delle scuole.
Tra le promesse ci sono anche tempi più rapidi per l’assegnazione delle risorse e pagamenti diretti agli enti senza passaggi intermedi. Ieri il Miur ha firmato un protocollo con il ministero dell’Economia e la Banca Europea degli investimenti nel quadro della programmazione triennale sull’edilizia scolastica 2018-2020. Le risorse sono pari a tre miliardi e mezzo (su sette).
A dieci anni dalla tragedia del liceo Darwin di Rivoli, in provincia di Torino, e dalla morte di Vito Scafidi, allora 17enne, c’è ancora molto da fare per la sicurezza delle scuole.

Repubblica Roma 23.11.18
L’intervista
"Noi del Tasso che crediamo nella politica"
Parla Lorenzo, 17 anni: "Non si può discutere soltanto di scuola"
di Mauro Favale


«Noi studenti non ci possiamo limitare a parlare solo di scuola. La coscienza politica va formata a 360 gradi. Per questo in quel comunicato abbiamo voluto allargare il discorso. E non ci limitiamo a dire che questo è un governo xenofobo, razzista e fascistoide per quello che fa e dice su sicurezza e migranti. La nostra critica punta anche sulle questioni economiche». Lorenzo ha 17 anni, frequenta il quarto anno al Tasso (il miglior liceo classico della città, secondo la Fondazione Agnelli) dove un mese fa è stato eletto rappresentante d’istituto. Ha una passione per il Milan («L’unica cosa che condivido con Matteo Salvini») e in questi giorni è alle prese con l’occupazione della sua scuola (che, come comunicato, terminerà domani alle 18.30), rilanciata sui social con un comunicato condiviso da migliaia di persone, non solo romane, in cui il bersaglio è il governo "gialloverde", le politiche del ministro dell’Interno ma anche le scelte su tassazione (alla flat tax preferiscono «il sistema a scaglioni progressivi») e lavoro («Il reddito di cittadinanza svilisce la dignità del lavoro», scrivono).
Questioni che potrebbero non riguardarvi, almeno per adesso.
«Ma ci toccheranno tra pochi anni.
E poi la scuola deve rendere gli studenti pronti al voto. Chi esce da qui, compiuti 18 anni, dev’essere in grado di esprimere un voto consapevole. A me toccherà a maggio, alle Europee, un’elezione cruciale non solo per l’Italia».
Ha già le idee chiare?
«No, ma di certo andrò alle urne».
A leggere il vostro comunicato è difficile che il suo voto possa andare a Salvini o Di Maio.
«Mai avuto simpatie per Lega o 5S».
E per le altre forze? C’è qualche personaggio politico che stima?
«Non ho mai pensato che i politici siano uno peggio dell’altro, anzi.
Credo ci siano tante persone per bene e preparate che fanno politica sui territori, nei quartieri. È da lì che bisogna ripartire».
Un nome?
«No, niente nomi».
Com’è nato il comunicato
finito sulle bacheche social di migliaia di persone?
«Quel documento è il frutto di un mese e mezzo di dibattiti politici che stiamo portando avanti nel collettivo del Tasso. Ogni riunione affrontiamo un tema diverso e, assemblea dopo assemblea, siamo arrivati alla stesura di quel comunicato».
Come si svolgono queste riunioni?
«Nel collettivo ci sono 250 studenti, tutti del Tasso, nessun esterno. Alle assemblee partecipano circa 170-180 persone. Ci vediamo in via Puglie, dietro al liceo, o a Villa Borghese. C’è una prima parte di dibattito poi si passa alle questioni pratiche: come organizzare una manifestazione o realizzare uno striscione. Alle riunioni preparatorie all’occupazione eravamo anche oltre 300 anche se poi non tutti hanno aderito alla forma di protesta scelta nonostante ne condividessero i contenuti».
Quest’anno la partecipazione è maggiore rispetto al passato?
«Negli ultimi anni il Tasso (che spesso viene definita una scuola politicizzata e di sinistra) aveva mostrato disinteresse verso la politica. Quest’anno c’è un interesse maggiore».
Si è chiesto il perché?
«Per il momento storico che sta vivendo il nostro Paese: non ci vogliamo arrendere al dibattito politico attuale».
Dal Tasso sono usciti diversi politici, compreso un ex premier: lei cosa vuole fare "da grande"?
«Francamente non lo so. Il calciatore, direi. E anche se i piedi sono quelli che sono, io ci spero ancora».   

Repubblica 23.1.18
Le idee
Scrivere significa capire e amare le vite degli altri
David Grossman, che ha ricevuto il Premio per la tolleranza del Museo ebraico di Berlino, spiega perché fare letteratura è un atto politico che nasce da un profondo esercizio di comprensione. Anche dei propri “nemici”
di David Grossman


David Grossman, che ha ricevuto il Premio per la tolleranza del Museo ebraico di Berlino, spiega perché fare letteratura è un atto politico che nasce da un profondo esercizio di comprensione. Anche dei propri “nemici”
Questo illustre premio per la tolleranza e la comprensione mi viene consegnato esattamente ottant’anni dopo la Notte dei Cristalli in un luogo – il museo ebraico di Berlino – denso di significato e in un contesto in cui quasi ogni parola, e certamente termini come tolleranza, comprensione, pluralismo, umanità, hanno una cassa di risonanza potente e talvolta tragica. Il premio ha anche un significato politico: esprime il sostegno alla volontà e alla lotta per arrivare alla pace tra Israele e i palestinesi. Non posso tuttavia fare una distinzione fra il me politico e il me scrittore, né tra il me scrittore e il me uomo. Dirò qualche parola su un particolare tipo di tolleranza e di accettazione degli altri insito nella letteratura e rilevante anche nella sfera politica. Un tipo di tolleranza e accettazione che consente allo scrittore – e di conseguenza anche al lettore – di sperimentare il mondo tramite la coscienza, l’anima e il corpo di un’altra persona, sconosciuta e talvolta nemica.
Vi racconterò una piccola storia.
Poco più di dieci anni fa ero impegnato nella stesura del romanzo A un cerbiatto somiglia il mio amore la cui protagonista, una donna israeliana di nome Orah, si allontana da casa per sottrarsi alla notizia della morte del figlio in guerra. Dopo avere scritto di Orah per circa due anni e avere lottato con lei, avevo ancora la sensazione di non riuscire a capirla veramente. Di non conoscerla come uno scrittore dovrebbe conoscere il personaggio di cui scrive. Non percepivo in lei quel fremito di autenticità, di verità e di vita senza il quale non posso credere nel personaggio che narro, essere quel personaggio.
Alla fine, non avendo scelta, ho fatto quello che ogni bravo cittadino nella mia situazione avrebbe fatto: mi sono messo a tavolino e ho scritto una lettera a Orah. Una lettera semplice, come si faceva una volta, con carta e penna, dal mio cuore al suo.
E nella lettera le ho chiesto: Orah, che succede? Perché mi respingi in questo modo, perché non ti concedi a me? Ma ancor prima di completare la prima pagina ho capito il mio grande errore: non era Orah che doveva concedersi a me.
Ero io che dovevo concedermi a lei. In altre parole, dovevo smettere di opporre resistenza alla possibilità che Orah esistesse dentro di me.
Lasciarmi andare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto il corpo alla possibilità che dentro di me ci fosse una donna. Quella particolare donna. Dovevo lasciare che le particelle del mio spirito fluissero liberamente, senza freni e senza paura, verso la potente calamita di Orah e la femminilità che irradiava. Da quel momento in poi Orah ha quasi scritto se stessa da sola.
La creazione è la possibilità di toccare l’infinito. Non un infinito matematico o filosofico: un infinito umano. Gli infiniti volti dell’uomo, le infinite pieghe della sua anima, i suoi infiniti pareri, opinioni, istinti, abbagli, piccolezze, grandezze, forze creative e distruttive, le sue infinite combinazioni. Quasi ogni mia idea su un personaggio di cui scrivo mi apre innumerevoli possibilità, innumerevoli tratti del suo carattere: un giardino di sentieri che si biforcano. È quasi banale emozionarsi per qualcosa di tanto scontato, ma oggi concedetemi di farlo: noi – noi tutti – siamo pieni di vita. In ognuno di noi ci sono illimitate possibilità e modi di essere, di vivere. Ma forse questa non è affatto una cosa scontata. Forse è qualcosa che dovremmo ricordare continuamente a noi stessi.
Guardate infatti quanto stiamo attenti a non vivere la profusione che è in noi, tutto ciò che le nostre anime, i nostri corpi e le circostanze della nostra vita ci offrono. Molto in fretta, già ai primissimi stadi della vita, ci raggrumiamo, ci riduciamo a essere “uno”: un solo corpo, una sola lingua (o al massimo due) con la quale diamo un nome alle cose, un solo genere. Ognuno di noi racconta una propria “storia ufficiale” tra le tante possibili, che talvolta si trasforma in una prigione. E quello di trasformarci in prigionieri della storia ufficiale che ci raccontiamo è un pericolo, peraltro, in agguato non solo per gli individui ma per intere società, stati e popoli.
Scrivere è un movimento dell’anima contro quella riduzione, contro la rinuncia alla profusione.
La creazione letteraria è il movimento sovversivo dello scrittore, in primo luogo contro se stesso. Più prosaicamente potrebbe essere paragonata a un massaggio che lo scrittore fa di volta in volta, ostinatamente, alla propria cauta, inibita e impaurita coscienza. Per me, scrivere significa essere libero di muovermi con agilità e leggerezza lungo l’asse immaginario tra il bambino che ero e il vecchio che sarò, tra l’uomo e la donna che sono, tra sanità mentale e follia, tra il me israeliano e il palestinese che sarei potuto essere se fossi nato 500 metri più a est. E sono sicuro che dal momento in cui concederemo a noi stessi di percepire questa libertà di movimento (e l’arte è un modo meraviglioso per farlo) toccheremo anche l’essenza della tolleranza politica in tutte le sue declinazioni: nei conflitti tra i popoli come nella sfida posta dai profughi che affluiscono in Europa. La tolleranza nasce dalla disponibilità di sentire e comprendere l’altro dentro di noi, anche quando l’altro ci minaccia perché è diverso, e incomprensibile. Anche quando l’altro è nostro nemico dichiarato.
Vorrei ricordare le parole di un grande filosofo politico del XX secolo, John Rawls, che si ricollegano a quanto detto. Rawls disse che nello stabilire le leggi di uno Stato che vorremmo giusto, dovremmo porci come dietro a un velo d’ignoranza che ci impedisca di sapere cosa saremo quando quel velo sarà sollevato. In altre parole quando ci diamo delle leggi o, in generale, delle regole di condotta tra esseri umani, o decidiamo una linea politica governativa su un tema fondamentale e cruciale, non sappiamo chi saremo quando il velo d’ignoranza sarà sollevato: se osservanti o laici, ricchi o poveri, parte della maggioranza o della minoranza, uomini o donne, gay o etero, cittadini o rifugiati. Provate a fare questo esercizio mentale. È un modo meraviglioso per vedere, d’un tratto, il mondo e la realtà delle nostre vite da una prospettiva diversa.
La tolleranza, in sostanza, è la disponibilità a leggere la realtà (il conflitto tra israeliani e palestinesi, ad esempio, o i cinquantun anni di occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele) non solo con gli occhi di noi israeliani ma anche con quelli del nostro nemico. A concederci di sperimentare, anche se per poco, la sua storia, la sua giustizia, la sua sofferenza, gli errori che commette, i punti di cecità nei nostri confronti. Se così faremo il nostro contatto con la realtà sarà molto più profondo e completo. La realtà non sarà soltanto una proiezione delle nostre angosce profonde né dei nostri desideri assurdi. Sarà qualcosa di molto più autentico. E a quel punto potranno nascere comprensione, tolleranza e accettazione dell’altro, della sua diversità, della sua differenza.
E forse, a distanza di anni, dopo che i veleni di una lunga guerra si saranno dissolti dall’apparato circolatorio dei due popoli ostili, potranno emergere curiosità reciproca, apprezzamento e anche una certa empatia.
Più di questo è difficile sperare per ora ma se ciò avverrà, sarà la realizzazione di un sogno.
– © David Grossman Traduzione di Alessandra Shomroni
DAVID HEERDE/ REX/ SHUTTERSTOCK Il discorso che pubblichiamo è stato tenuto da David Grossman alla cerimonia di consegna del Premio per la tolleranza e la comprensione del Museo ebraico di Berlino                                                                               

Repubblica 23.11.18
Il viaggio di Giorgio Bocca nel Paese che cambiava pelle
Torna in libreria “Miracolo all’italiana” del 1962
“Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi” Iniziava così il celebre reportage da Vigevano
di Fabrizio Ravelli


Al principio fu Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Incipit leggendario, che generazioni di cronisti hanno mandato a memoria. E comincia da lì, da Vigevano e da quella beffarda contabilità, il libro del 1962 che Feltrinelli ora ristampa (con prefazione di Guido Crainz). Quel Miracolo all’italiana che ai cronisti ha fatto sognare di scrivere come Giorgio Bocca, ma che a legioni di intellettuali e politici (soprattutto gli odierni) avrebbe potuto insegnare come si conosce e si racconta un Paese. L’Italia degli anni ‘50-‘60, del miracolo (la definizione venne battezzata dal Daily Mail) che stava cambiando tutto: economia, industria, consumi, costumi, abbigliamento, ideologie.
Un “miracolo” anche giornalistico, dentro al quale Bocca si muove con la vitalità di chi vede possibile il cambiamento. Ha 40 anni, è un inviato del Giorno di Mattei diretto da Italo Pietra, ex-partigiano anche lui. E «l’aggressività petrolifera di Mattei» si traduce in linea politica (neocapitalista, riformista, con un occhio di riguardo a socialisti e sinistra democristiana): «E il provinciale che ero», scriverà Bocca nell’autobiografia, «ci ricadde, per le seconda volta tornò a sperare come nella guerra partigiana, in un paese laico moderno in cui il giornale dell’Eni avrebbe dato voce a una nuova cultura industriale, a pensare che saremmo diventati il giornale dell’aristocrazia operaia e della tecnocrazia che stavano facendo dell’Italia un paese ricco e moderno». Un giornale coraggioso «nei riguardi del vecchio establishment»: «A me il Giorno di Pietra e di Mattei dava via libera per andare alla scoperta dell’Italia». E quindi via, soprattutto verso la provincia industriale, grande sconosciuta, con il suo caos, la vitalità e la volgarità, le conquiste e i rivolgimenti. Una «miniera a cielo aperto», la chiama Bocca. Che scava e racconta, con un metodo anche quello nuovo per il giornalismo italiano: molta preparazione di dati sulla realtà, molti libri letti alle spalle, un gran numero di persone incontrate (e ben poche citate poi), un approccio molto personalizzato del testimone che dice: «Io questo ho visto e questo ho capito». Dal vitalismo e dalla volgarità del “miracolo” Bocca è sbalordito, divertito, schifato ma anche affascinato: «Quell’Italia aveva animo lieto e alacre nonostante le difficoltà della vita perché percorsa da un’idea o grande speranza o grande illusione di progresso. L’atteggiamento di un cronista come me rispetto alle prime manifestazioni di consumismo massificato, di benessere diffuso era insieme di critica e di adesione: critica delle forme, adesione per la sostanza».
A deluderlo è casomai quella borghesia che non riesce a essere classe dirigente: «Sembra incredibile che un ceto così ricco di fiuto merceologico, di attaccamento al lavoro, di ardimento commerciale, di gusto manufatturiero non riesca a capire che una società, la società in cui vive, non può continuare senza un solido assetto sociale, senza interessi e iniziative intellettuali, senza un ordine. In altre parole senza una civiltà che non sia quella pura e semplice dei consumi». Calzaturieri di Vigevano, magliai di Carpi, ovunque il “miracolo” accumuli neonate fortune. Bocca, inutile ripeterlo, non è solo lo spietato indagatore della realtà, e anzi poiché scrive divinamente e ha un occhio infallibile, si concede sprazzi di puro divertimento: I maièr, i magliai, quei tipi cordialoni, forse troppo, vestiti all’ultima moda, con facce color terra e sangue come quella di un Adamo celtico, appena impastato».
Il “miracolo” ha tante facce: a Foggia «c’è prima di esserci, esiste perché deve venire, è un miracolo sulla parola, la gente cui è stato promesso ha incominciato a anticiparselo». A Siena il miracolo c’è stato sette secoli prima, e ancora lo si rimembra con nostalgia: il boom c’è anche qui, «ma i parvenus si sono fermati a Poggibonsi». Fra palazzi aviti del Dugento, cacce e arazzi, il cuneese Bocca non si ritrova: «In questi giorni mi sento molto allobrogo.
Di giorno sto a disagio fra questi uomini che hanno profili etruschi e nobili fattezze, fra queste donne dai tratti fini e deliziosi. Di sera, nella mia stanza, scopro nello specchio la pesantezza, grossolanità, ottusità dei miei connotati celtici, appena romanizzati». Il “miracolo” a Milano è quello dei cafoni arricchiti, ma anche quello dei pendolari intirizziti nell’alba che Bocca va a incontrare a Palazzolo sull’Oglio: «Sveglia alle quattro e mezza, stanza fredda, acqua fredda, sacramenti e così fino alla stazione». E col “miracolo” anche i “miracolati”, i famosi che Bocca ritrae: da Guttuso (un pezzo da maestro), Mina agli esordi, Alberto Sordi e Walter Chiari, un Omar Sivori che sbeffeggia la disciplina savoiarda della Juventus.


Repubblica 23.11.18
Medio Oriente
Il lancio di Spotify abbatte i muri per gli artisti palestinesi


La scorsa settimana Spotify ha lanciato il suo servizio in Nord Africa e Medio Oriente, compresi i territori della Cisgiordania e di Gaza, consentendo a molti artisti palestinesi di far conoscere la loro musica fuori dal Paese.
«L’hub arabo offre una piattaforma unica per l’intero spettro della cultura e della creatività arabe», ha spiegato a Reuters Suhel Nafar, un musicista della città israeliana di Lod. Spotify è la prima grande compagnia di streaming a lanciare un programma specifico per i territori palestinesi occupati. «Noi artisti palestinesi abbiamo molte restrizioni, alcuni non possono viaggiare per esibirsi in un altro paese», ha raccontato Bashar Murad, un cantante che vive a Gerusalemme est. «Dopo il lancio, i miei follower mensili (su Spotify) sono aumentati da 30 a qualcosa come 6.500».

Corriere 23.11.18
Il missionario John, ucciso dalle frecce sull’isola proibita
di Michele Farina


Il popolo senza contatti con il mondo esterno
Una copia impermeabile della Bibbia, il pallone da regalare ai ragazzi e le buone intenzioni non hanno salvato John Allen Chau, ucciso a 27 anni sulla spiaggia di North Sentinel nel meraviglioso Mare delle Andamane. L’isola più isolata, un grumo di territorio indiano grande come Manhattan dove da 60 mila anni vive la comunità più incontaminata del mondo, non ha accolto il giovane americano come accadeva nei suoi giochi di bambino con arco e frecce, quando si colorava il volto con le bacche e impersonava Robinson Crusoe e Venerdì con il fratello nel giardino di casa a Vancouver, Stato di Washington. Gli amici lo descrivono «puro». Generoso, appassionato di natura e di calcio, viveva parte dell’anno isolato in una cabina in mezzo ai boschi d’America: forse per questo ha creduto di poter essere accettato dagli «isolati» per eccellenza?
Prima di uccidere l’«invasore» arrivato in kayak con il proposito «di diffondere la parola di Gesù», i Sentinelesi decimati dalla storia (sarebbero in tutto 50-100 individui) gli avevano fatto capire che la sua visita non era gradita. L’ha scritto lui stesso, nel diario che la madre ha dato al Washington Post. Ai suoi saluti stentati nella lingua del posto («Sono John, vi amo e anche Gesù vi ama») avevano risposto con una freccia sulla Bibbia water-proof. Al secondo tentativo, ha raccontato la polizia indiana, gli avevano distrutto la canoa facendolo tornare a nuoto alla barca d’appoggio, a 500 metri dalla riva. Il mattino successivo, venerdì 16 novembre, John non è tornato. I pescatori che l’avevano accompagnato in quella missione illegale hanno visto i locali trascinare il suo corpo sulla spiaggia e seppellirlo.
Ci vorrà tempo per recuperarlo, ha raccontato ieri il capo della polizia delle Andamane Dependra Pathak. Una squadra di esperti e antropologi è stata inviata in zona. Intanto sette persone sono state arrestate. Coloro che hanno reso possibile il viaggio proibito: i pescatori, l’amico ingegnere che ha procurato la barca, un altro logista. Per la legge indiana North Sentinel è un’isola off-limits già a sei miglia dalla costa. È una misura di protezione: Survival International l’ha definita «la società più vulnerabile del pianeta», per la mancanza di difese immunitarie (dovuta all’isolamento) verso le «nostre» malattie.
Candido o invasato, Chau non pensava ai rischi reciproci di quell’incontro. Nell’ultimo messaggio alla famiglia aveva scritto: «Penserete che sono pazzo, ma per me vale la pena portare Gesù tra quella gente. Non incolpate gli indigeni se verrò ucciso». La famiglia di John vorrebbe che anche gli arrestati ora fossero rilasciati. Con loro ha delle responsabilità Mat Staver, fondatore della congregazione protestante «Covenant Journey» a cui Chau aveva aderito ai tempi dell’università in Oklahoma. «Sin da ragazzo — ha detto Staver — John sognava di predicare su quell’isola». Perché non è stato dissuaso?
Sull’isola dove gli antenati sono approdati 60 mila anni fa con le prime migrazioni dall’Africa, i sentinelesi non ne vogliono sapere di chi arriva da fuori, in pace o in guerra. Hanno ferito a colpi di frecce un regista che voleva girare un documentario per National Geographic, hanno ucciso due pescatori di frodo. Nel 2004 tesero l’arco contro l’elicottero mandato a controllare le loro condizioni dopo lo tsunami. Quando è arrivato Chau, con i suoi sorrisi, la bibbia e il pallone, hanno visto in lui un altro nemico.

Repubblica 23.11.18
India
Ucciso a colpi di frecce
Il missionario John e le ong divise sulla sua morte
Voleva convertire una tribù delle Andamane I volontari: “Vanno lasciate in pace”
di Federico Rampini


NEW YORK Non succede spesso, che l’uccisione di un missionario venga applaudita dalle organizzazioni umanitarie. Ma la tragica fine di John Allen Chau non ha nulla di ordinario. Il 27enne americano originario dell’Alabama e residente nello Stato di Washington (ma di origini etniche cinesi) era stato inizialmente descritto come un “turista avventato e illegale”, quando la polizia indiana ha recuperato il suo cadavere. Recupero tutt’altro che facile: ha richiesto un blitz in elicottero, su un’isola che solo teoricamente ricade sotto la giurisdizione del governo di Delhi. L’isolotto sperduto ha un nome suggestivo, si chiama la Sentinella del Nord, fa parte dell’arcipelago delle Andamane.È nella Baia del Bengala, molto a Est delle coste dell’India, in linea d’aria più vicino alla Birmania.
Ancora più suggestiva è la sua fama. Sarebbe uno degli ultimi territori veramente incontaminati del pianeta, mai conquistato dall’uomo contemporaneo e dalle sue tecnologie, abitato da una piccola tribù aborigena che rifugge da ogni contatto con “noi”. Ne ha fatto le spese, per l’appunto, il giovane Chau.
Che ha sfidato i divieti del governo indiano. Forse ha pagato qualche pescatore per il tragitto abusivo, o forse si è avventurato da solo in kayak (molti dettagli restano avvolti nel mistero) ed è sbarcato sull’isola. La sua spedizione è durata pochissimo. Trafitto da miriadi di frecce, poi bruciato e sepolto sulla spiaggia, fino all’operazione-recupero della polizia indiana in elicottero.
In realtà Chau non era un turista come da versione iniziale. È stato ritrovato un suo diario sui social. Il cittadino americano era o voleva essere un missionario cristiano. Avendo appreso dell’esistenza di una tribù così isolata, senza contatti con la civiltà, si era incaricato della missione di “portargli la Parola di Dio”, secondo le ultime testimonianze affidate ai social e poi lette dai suoi familiari. Aveva già fatto quattro viaggi esplorativi, usando un visto turistico, sia nelle isole Andamane che nelle Nicobar, a partire dal 2015.
È qui che subentra la reazione-shock di alcune ong umanitarie, tra cui spicca Survival International, dedita alla sorte delle minoranze etniche: «Gli abitanti delle isole Sentinelle – si legge nel comunicato – hanno dimostrato più volte di voler essere lasciati in pace. Il loro desiderio va rispettato».
In effetti perfino le autorità indiane, che non brillano sempre per il rispetto delle minoranze tribali, in passato hanno preferito fare un censimento a distanza, osservando da navi o elicotteri la popolazione locale: la stima è che gli abitanti della Sentinella del Nord siano a malapena un centinaio. I britannici ne deportarono qualcuno a fine Ottocento.
Altre spedizioni di antropologi hanno tentato il contatto e sono tate respinte.
La reazione di Survival International ha un fondamento sanitario ineccepibile: il contatto con la “civiltà” (la nostra) può esporre gli abitanti a malattie ignote sull’isola e contro le quali non hanno alcuna immunità naturale. Ne seguirebbe uno sterminio batteriologico. È una possibilità tutt’altro che remota.
È proprio così che avvenne il genocidio degli indiani d’America da parte dei conquistadores spagnoli e portoghesi: molto più delle aggressioni militari fecero strage le aggressioni del vaiolo e del morbillo.
Il povero Chau forse non si rendeva conto: non solo del pericolo che correva lui, ma del pericolo a cui esponeva gli aborigeni che voleva convertire.




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