giovedì 22 novembre 2018

Repubblica 22.11.18
Quelle vite espropriate degli ebrei italiani
di Simonetta Fiori


Un gigantesco saccheggio di aziende, attività, proprietà mobili e immobili, conti correnti, e appartamenti L’ente che se ne occupò, l’Egeli, fu soppresso soltanto nel 1997

Il nuovo saggio di Fabio Isman racconta le persecuzioni seguite alle leggi razziali e la macchina pubblica che si impadroniva dei beni delle vittime Dai piccoli oggetti alle case, tra cui la villa che ora appartiene a George Clooney
Lo saprà George Clooney? La sua villa sul Lago di Como, quella a cui si accede dalla darsena privata, è una delle dimore più sontuose della Grande razzia. Potrebbe esserne il simbolo oltre che la location per un film a sfondo storico. È facile immaginarne la prima scena: l’approdo a Villa Oleandra del divo hollywoodiano, con contorno glamour di amici e collaboratori. E poi si va a ritroso nel tempo, fino ad arrivare all’intellettuale che l’abitava negli anni Trenta del Novecento, Emilio Vitali, pittore provvisto di passione per la musica. I suoi ritratti di Renata Tebaldi e Franco Corelli sono tuttora esposti in diversi musei. Ogni estate Emilio amava trascorrere i giorni più caldi nella sontuosa magione settecentesca, ricevuta in eredità dal nonno. Ma il 10 novembre del 1944 fu espropriato di tutto, anche dei due conti correnti e delle ottantuno azioni della Banca Popolare di Milano. Derubato dallo Stato fascista, come i quasi cinquantamila ebrei colpiti dalle leggi razziali.
Quella orchestrata tra il 1938 e il 1945 – con un progressivo incrudelimento di leggi, decreti, circolari, disposizioni – fu una spoliazione sistematica e minuziosa mossa dallo Stato fascista con l’intenzione esplicita non soltanto di espungere gli ebrei dalla vita civile ma di ridurli alla fame, «di annullarne qualsiasi potenziale economico», di vessarli sul piano morale oltre che materiale. Un gigantesco saccheggio di aziende, attività, beni mobili e immobili, conti correnti, case, appartamenti, arredi, gioielli, rimasto per svariati decenni in penombra, spinto ai margini della memoria collettiva dal ricordo più lancinante dei lager, delle carneficine, del sangue versato. E su quella razzia contribuisce oggi ad allagare il fascio di luce il prezioso saggio di Fabio Isman, 1938, l’Italia razzista (il Mulino). I documenti della persecuzione contro gli ebrei, frutto del lavoro sulla sterminata mole di carte raccolte dalla commissione parlamentare istituita nel 1998 per indagare sulle proprietà sottratte.
Seppure impressionanti, le cifre non bastano a quantificare il grande bottino: la somma complessiva derubata, calcola Isman, si aggira intorno ai 150 milioni di euro. Ma più degli espropri milionari, dei ladrocini commessi sulle grandi aziende del Nord o sui palazzi pregiati o sulle collezioni d’arte, colpiscono la ruberia minuta, le liste delle piccole cose dettagliatamente compilate dai saccheggiatori mandati dalle province, dalle prefetture o dalle varie articolazioni dello Stato fascista, elenchi che includono "mutandine sporche", "lettini di ferro" "una carrozzina", "una camicia strappata", "quaranta bottiglie vuote", "una bicicletta Bianchi senza ruote". «Nessuno fu risparmiato», sintetizzò vent’anni fa la presidente della commissione Tina Anselmi. «Né i ricchi né i poveri, né i commercianti né le aziende industriali, né chi disponeva di pacchetti azionari né chi aveva un modesto conto bancario». O per dirla con Elie Wiesel a proposito dei nazisti «fu strappata la ricchezza ai ricchi e ai poveri la povertà». Non si trattò solo di un affare di denaro, ma di una mortificazione collettiva che non aveva precedenti: insieme alle case si perdevano ricordi, vissuti, intimità.
La Grande razzia poté contare su un apparato amministrativo che ruotava intorno all’Egeli – l’ente responsabile della gestione e delle vendite delle proprietà sequestrate – ma fu favorita anche dalla cattiva coscienza di chi vi colse occasione d’affari e dall’indifferenza di coloro che assistettero alla spoliazione senza fiatare. E se la catena di responsabilità nella persecuzione degli ebrei italiani è stata illustrata con grande efficacia da Simon Levi Sullam – dai travet che redigevano gli stati civili ai dattilografi che riportavano gli ordini – Isman ripercorre la galleria dei burocrati di Stato che beneficiarono delle vendite, degli antiquari pronti a far commercio con gli aguzzini, dei privati cittadini che non esitarono a entrare in possesso di case, biancheria, pellicce, stoviglie argenteria, quadri, tappeti o anche solo a partecipare al libero assalto di un negozio ebreo (capitò a Trieste nel negozio di abiti del padre di Fiorella Kostoris, dove sopravvisse al furto solo un bottone). O anche di quanti facevano domanda al ministero delle Finanze per essere nominati amministratori dei beni sottratti alle vittime: che carriera! Sono innumerevoli le storie di corruzione, cinismo, tradimento e torpore morale in un Paese in cui la classe intellettuale – quella che dovrebbe maggiormente tenere a freno gli istinti ventrali – si precipita a ricoprire con soavità le cattedre lasciate dai professori ebrei espulsi. E Isman fa bene a ricordare che, su 896 docenti universitari chiamati a sostituire gli ebrei, Massimo Bontempelli fu l’unico a opporre un rifiuto. E che ci sono voluti ottant’anni perché l’università italiana chiedesse scusa (è accaduto quest’anno nell’ateneo di Pisa).
Storie di vita – moltissime quelle di morte – senza un epilogo confortante. Perché nel dopoguerra sarebbe stata restituita solo una parte di quel patrimonio. E a prezzo di estenuanti trafile che ebbero anche un costo in danaro. Con un particolare che acquista un sapore grottesco: agli ebrei depredati l’Egeli richiese le spese di gestione, come se un bandito presentasse all’ostaggio liberato anche il conto dei pasti consumati durante il sequestro (la faccenda si chiuse solo nel 1962). E per fotografare le difficoltà con cui lo Stato democratico fece i conti con questa mostruosa ruberia, può bastare una data: l’Egeli è stato soppresso solo nel 1997, praticamente ieri.
Il libro di Isman è molto bello non solo per la mole della documentazione, ma per la passione che vi palpita. Dietro ogni carta, provvedimento, esproprio c’è una esistenza spezzata, o comunque privata della libertà e dell’identità.
Come quella dei suoi genitori che furono salvati dal tenente Giorgio Cevoli: il suo nome ora figura allo Yad Vashem tra i Giusti.
Quanto a Clooney, può godersi sereno la sua villa. Nel dopoguerra fu restituita al pittore Vitali, che vi trascorse parte della vecchiaia. Non sappiamo se negli ultimi mesi di guerra abbia ospitato qualche divisa nazista, ma questo può essere lasciato alla libera immaginazione dell’attore-regista dal quale non ci resta che attendere il film.
Potrebbe essere anche l’occasione per un nostro atto pubblico di scuse. In Italia ancora non c’è stato.