giovedì 22 novembre 2018


Repubblica 22.11.18
È stato perseguitato? Fornisca le prove
A Memo M. lo Stato ha chiesto di dimostrare quanto subito nel ’ 44
di Matteo Pucciarelli


LIVORNO Pazienza se da quella persecuzione sono passati più di 70 anni, ci servono adesso, «entro 60 giorni», due testimonianze dirette vidimate da un notaio. Firmato: ministero dell’Economia. Allora lei, la vittima, nel 1944 tenuta nascosta per circa un anno dentro una legnaia in un paesino del monte Amiata, torna in quelle case e ritrova i superstiti della famiglia che la ospitò insieme ai genitori.
Dopo che Repubblica ha raccontato la storia di quattro cittadini di religione ebraica alle quali la Corte dei conti ha negato l’assegno di benemerenza – cioè un risarcimento che lo Stato concede alle vittime della persecuzione fascista (507 euro al mese per ognuna, pari all’assegno minimo dell’Inps) – perché in sostanza le persone coinvolte erano troppo piccole per averne la cognizione, il signor Memo M. ci ha contattato per mostrarci le carte relative alla pratica della sorella, Graziella, nata nel 1939. È morta tre anni fa. Però quando era ancora viva, nel 2014, incredibilmente il Mef le chiese di produrre delle testimonianze a riprova della fuga da Livorno della loro famiglia.
Testualmente, scrisse il direttore dell’ufficio competente Marco Pierlorenzi, «la si invita a documentare la circostanza di essersi rifugiata presso la famiglia di Domenico V. (…) con atto notorio reso da due testimoni delle famiglie ospitanti oppure da due testimoni che si sono nascosti insieme alla signoria vostra ed alla sua famiglia».
Come fosse un fatto accaduto l’anno prima. «Una richiesta assurda, probabilmente contando sul fatto che fossero tutti già morti», dice Memo.
Comunque sia, lui e Graziella armati di pazienza (ri)partirono da Livorno, (ri)arrivarono a Vivo d’Orcia dove si rintanarono coi genitori e i nonni e si misero alla ricerca di possibili testimoni.
Alla fine ne trovarono ben sei: Edda P., Orlando C., Ottorino R., Ivo B., Mirella V., Adolfo B., tutti ultraottantenni ma loro coetanei e vicini in quei dodici mesi vissuti da fantasmi. «In realtà non fu difficile perché il paese è minuscolo e si sparse subito la voce del nostro arrivo e della nostra richiesta.
Rivedemmo tutti insieme anche la legnaia. Ora è stata sistemata, è uno dei locali di un bellissimo casolare», racconta Memo.
Nella frazione in provincia di Siena, 500 abitanti a quasi mille metri, rammentavano ancora quella famiglia livornese protetta segretamente con la complicità del podestà fascista, il conte Tommaso Cervini. Se ne ricordavano anche perché nei 14 anni successivi alla guerra i M.
tornarono tutte le estati proprio lì, quasi per riconoscenza verso quei luoghi e quelle persone che non li tradirono mai. Quando sempre nel ’44 si seppe che a breve ci sarebbe stato un rastrellamento della "Generallieutenant" delle Waffen SS, il conte avvertì i quattro. «La famiglia allora scappò a Montecatini val di Cecina – si legge in una ulteriore testimonianza allegata alla pratica – col padre che si unì ad un gruppo di partigiani. Quando poteva si riuniva coi familiari fingendosi gobbo e zoppo, appoggiandosi a un bastone».
La famiglia M., che come altre migliaia di "razza ebraica" durante il fascismo perse qualsiasi cosa, molte di queste anche la vita, anni fa ha avuto un risarcimento dalla Germania.
Ma non dall’Italia, che invece ha preferito puntare sullo sfinimento dei ricorrenti a suon di sentenze e ricorsi conditi da banalizzazioni storiche con linguaggio freddo e burocratico. «Non sapevamo nemmeno di aver diritto, insieme ai perseguitati politici di quegli anni, di questo assegno – continua Memo – e ne facemmo richiesta solo quattro anni fa.
Per noi non era e non è una questione di soldi. Ma di riconoscimento di una chiara responsabilità e di una verità storica». Graziella alla fine vinse la sua "sfida con lo Stato", come la chiama oggi il fratello. Lui no. Appunto: avendo nel biennio ’44-’45 pochi mesi, non era in grado di comprendere la propria persecuzione, sempre secondo i magistrati contabili con un pronunciamento del 25 settembre scorso. «Eppure – chiosa Memo – migliaia e migliaia di bambini furono uccisi nei campi di concentramento. Erano troppo piccoli per capire? Se è così anche una persona affetta da una malattia mentale, non essendo pienamente cosciente, può quindi subire una privazione o violenza?».