La Stampa 22.11.18
L’amico ritorna sui binari della tragedia
“Non l’ho sfidato, voglio morire anch’io”
di Emilio Randacio
«Io
non ho sfidato nessuno. È stato Abdul a dirmi se avevo il coraggio di
coricarmi sul binario». Urla, si agita dentro al suo piumino scuro, mima
quello che è successo poche ore prima sulla banchina della stazione di
Abbiategrasso, a due passi da Legnano. Lui è K., e grazie anche a una
mole imponente, dimostra molti più anni di quelli che ha: 13. Martedì
sera è stato l’amico più vicino ad Abdul, il ragazzo di origini
marocchine di due anni più grande, falciato sul terzo binario dal treno
regionale Milano-Domodossola.
K. rivive quello che è successo,
muove le mani, ripete le frasi dette in quell’istante. «Non sono stato
io», ribadisce alzando la voce a quattro agenti della Polfer che tentano
di ricostruire la tragedia. Intorno, la madre di K., cerca di placarlo e
un gruppo di amici, increduli, ascoltano silenziosi. La donna si
spiega, media agitando le braccia. «Quando sono arrivata in ospedale, la
madre di Abdul si è rivolta contro di me, accusandomi. Ma mio figlio
non ha fatto nulla». È un istante, e K., ancora tramortito dai
tranquillanti somministrati in ospedale, sbotta in «allora ora voglio
morire anche io». E cerca di lanciarsi sulla fondina con pistola di un
agente per cercare di sfilargliela. Una mossa tanto spettacolare quanto,
per fortuna, inutile.
L’allenamento
Abdul martedì sera era
tornato da Legnano in tenuta da allenamento, con la sua sacca su una
spalla. Giocava a calcio. Prima di rientrare a casa a San Giorgio su
Legnano, si era fermato in stazione con un gruppo di amici. Conosceva
K., si sono messi a giocare, fino a quella sorta di sfida. Su chi ha
proposto cosa, le versioni si dividono. Gli amici di Abdul accusano K,
lui si difende e giura di aver subito il gioco, con il senno di poi,
rivelatosi tanto stupito quanto fatale. In mezzo, gli agenti di polizia
vestono i panni di mediatori. Si raccomandano di non degenerare, cercano
di fare capire che quello che è successo non è altro che una tragedia. E
lo è per tutti.
Il tredicenne, martedì sera, una volta passato il
treno, è stato il primo a raggiungere l’amico. Sconvolto, ha preso sui
binari la testa di Abdul tra le mani, con la speranza di salvarlo, gli
ha parlato, lo ha implorato di svegliarsi. Tutto inutile. All’arrivo dei
soccorsi, è stato caricato su un’ambulanza pieno di sangue, mentre uno
dei fratelli della vittima con degli amici, si sono scatenati contro il
tredicenne, cercando di fargliela pagare. K. è arrivato in ospedale
completamente sconvolto. In stato di choc è rimasto in osservazione
tutta la notte, fino quando, ieri all’alba, la madre lo ha
riaccompagnato a casa, firmando le dimissioni. Durante il suo ricovero -
lo attestano i medici e gli infermieri che lo hanno seguito -, K. ha
tentato per ben tre volte un gesto estremo.
La disperazione
Una
disperazione che non gli ha dato pace fino a ieri. Tanto da non
resistere a tornare in stazione. Erano in tanti, ieri mattina, che come
lui si sono ritrovati su quei binari. Amici e amiche che si consolavano a
vicenda, quasi increduli per quanto successo. «Se ci fossi stata io non
sarebbe successo», garantisce una ragazza sui 14 anni, appena uscita da
scuola. Parla asciugandosi le lacrime sulle gote. «Abdul non era bravo,
era bravissimo. Se avessi visto cosa facevano, sarei andata io a
prenderli a schiaffi per tornare in stazione».
È un coro unanime
che si alza da questi ragazzi multietnici di Parabiago. «Non fumava, non
usava droghe», il ritratto postumo. Ma soprattutto, tutti garantiscono
che Abdul non era avvezzo alle mattane, alle sfide folli. «Gli piacevano
gli scherzi, ma aveva la testa sulle spalle», garantisce un’altra
ragazza. Ed è per questo che qui tutti i giovani che lo conoscevano,
stentano a credere a ciò che è successo.