Repubblica 21.11.18
Il racconto
Antifascismo è non dire mai "me ne frego"
di Maurizio Maggiani
Antifascismo militante.Maurizio Maggiani è nato nel 1951 Il suo ultimo libro è L’amore (Feltrinelli)
Tanto
tempo fa, in un giorno d’estate, un futuro scrittore, allora ragazzino,
rispose così, sbadatamente, al papà, ricevendo in cambio il primo e
unico schiaffo della vita: "Ora capisco cosa voleva insegnarmi la sua
mano"
Per tutto il tempo che ha potuto esercitare la sua potestà
sulla mia capoccia, mio padre ha alzato le mani una sola volta per
prenderla di mira, ed è stato un gran fatto, un manrovescio, un patton
nella mia lingua natale, che mi si è impresso nella mente così come nel
corpo, nel corpo tra guancia, orecchio e collo, un tinnire di denti, un
fischiare di orecchio, un palpitare di pupilla che ancora mi si
rievocano con cristallina presenza a mezzo secolo dall’accaduto. Ricordo
il tempo, era estate e andavo per la terza media, e naturalmente
ricordo ragione e motivo, e ricordo molto bene come mi fossero apparsi
incomprensibili e ingiustificabili, e come recriminassi, in silenti ma
cogenti lacrime, la gratuità di tanta crudele violenza. Di fatto avevo
solo sbadatamente risposto «me ne frego» a una qualche sua osservazione,
la sostanza della quale mi parve così irrilevante che, quella sì, non
riesco a farmela tornare alla mente; mio padre non era un uomo dedito a
un intenso dialogo intergenerazionale, non ritenne di dover accompagnare
il gesto con verbo alcuno, dopodiché fece passare un giorno intero
prima di aprir bocca in merito all’accaduto, e lo fece con poche e ben
scandite parole: non voglio un fascista in casa mia. Mio padre aveva dei
problemi con il fascismo in generale e con i fascisti in particolare,
era stato condannato a morte in contumacia dalla Repubblica Sociale come
militare renitente, dopodiché lui e i fascisti si erano combattuti per
due interi anni armi in pugno nella montagna che si vedeva da casa
nostra, proprio dove andavamo a fare la scampagnata a ferragosto. Questo
lo sapevo, mi era stato raccontato, parcamente da mio padre e più
diffusamente, con ricchi e conturbanti particolari, dai suoi amici che
venivano a trovarlo e che erano più propensi a darmi confidenza; potevo
dunque capire come mio padre riprovasse fortemente l’idea di un fascista
in casa sua, non mi capacitavo però per quale ragione il fascista
dovevo essere io, per via di quel «me ne frego», possibile?
Ci
dovetti pensare un po’, in effetti continuo a pensarci ancora, ci penso
molto in questi giorni per il gran parlare che si fa del fascismo, e
anche dell’antifascismo. Beh, sì, io sono antifascista, so che a questo
punto posso articolare un ragionamento intelligentemente complesso sul
perché lo sono, ma in tutta sincerità le ragioni fondanti del mio
antifascismo sono di grande semplicità. Mi sono fatto una prima,
rudimentale coscienza antifascista intorno ai tredici anni per vedere di
risparmiarmi degli altri patriarcali manrovesci, ho poi raffinato la
coscienza non molti anni dopo, lontano ormai dalle grosse mani paterne e
per questa ragione propenso a considerare in libertà di cosa
intendessero parlare quelle mani, le mani parlanti di un uomo che non
aveva che poche parole e per il tempo che ha vissuto, con il lavoro
delle sue mani aveva edificato tutto ciò che intendeva essere e
intendeva che il mondo fosse, tutto ciò che di lui voleva si sapesse, e
capisse. Non era il solo se è per questo, sono nato e cresciuto tra
uomini e donne che gli somigliavano, che con il lavoro delle proprie
mani compendiavano la loro vita e altro strumento per educarmi non
avevano se non il loro agire, il loro edificare. Agivano per la vita, e
nient’altro che vita edificavano; niente di che, vita da poco, vita di
molta miseria e qualche speranza, e quella loro speranza nella miseria
trovava ragione solo nel fatto che si incaparbivano a non fregarsene di
niente e di nessuno, di nessuno che vivesse, uomo, pianta, animale e
sasso. Di questo ho avuto coscienza diventato giovane uomo, giovane uomo
lavoratore, di essere venuto alla luce e di vivere per mano di gente
che se se ne fosse fregata di qualcosa si sarebbe sentita perduta, che
se non si fosse presa preoccupazione anche solo della gallina che stava
allevando per le uova dei suoi figli, come del compagno di lavoro che si
era preso la pleurite, come di quei disgraziati che se n’erano venuti
dal Polesine senza nemmeno una coperta addosso, sarebbe morta annegata
nell’infelicità dei miserabili senza speranza, e per quello che ne
potevano sapere, nell’estinzione dell’universo.
Me ne frego era
proibito, me ne frego era la morte. Non ci ho dovuto lavorare molto per
capire che io stesso non riuscivo a fregarmene, a fregarmene di niente e
di nessuno, ero stato educato bene, figlio della speranza, inetto a
vivere nell’infelicità. Geneticamente kantiano, per così dire,
geneticamente antifascista; nell’insegna degli uomini che si presero e
portarono a morte il fratello di mio padre c’era un teschio elevato
sopra la scritta dorata me ne frego.
E oggi ancora ci penso, e so
che penso rozzamente, so che il fascismo è una cosa complicata che va
studiato bene per non sbagliare e confondere, che è meglio spaccare il
capello in quattro piuttosto che rischiare, che ci sono strumenti
adeguati per misurare e tabelle per valutare, che un conto è il fascismo
e un altro conto l’antifascismo; ma io so anche, e ne ho la tattile
certezza, di vivere in un tempo dell’infelicità, esco di casa e sento,
sottile e ottuso e persistente, il sordo ronzio di un rumore di fondo di
infelicità, quest’epoca si è ingravidata di fascismo. Si è aperto alto
un balcone, i consoli del tempo della disgrazia si sono fatti avanti sul
popolo e hanno ululato il loro grido di battaglia: dio è morto,
afffanculo tutto, viva la morte. Me ne frego. Il popolo, sbigottito,
incoraggiato dagli appositi segnali luminosi, ha preso a esultare, i
miliziani della disgrazia hanno cominciato il loro giro di propaganda,
ed è stato tutto un sibilare, un canticchiare, un cadenzare di me ne
frego. E nel suo disperato esultare, con la stessa rapidità con cui è
stato evocato, il popolo si è dissolto in un indistinto puntiforme,
convenzionalmente noto come massa, la massa irresponsabile infeconda, e
infelice. Un suppurare di infelicità ovunque, venduta come un
investimento sicuro, dispensata come una cura, inferta come una lezione,
infelicità raccattata come un’elemosina, accumulata come un capitale,
comprata al prezzo di un gratta e vinci e portata a casa per avere un
po’ di compagnia. L’infelice compagnia di un sussidio da spartire, di
una tragedia da condividere, di un’esenzione da contendere, di un nemico
alle porte da affrontare come un sol uomo. Psicologia di massa del
fascismo. Quest’epoca ne è partoriente, e chi non ne intravvede le
insegne consideri con più attenzione ciò che può con agio osservare: non
uno, ma si possono distintamente notare montagne di teschi sotto i
piedi di coloro che postano me ne frego. Ce ne fregammo un dì della
galera, ce ne fregammo della brutta morte, per preparare questa gente
forte che se ne frega adesso di morir.
Ci penso, e mi guardo le mani, e vedo che non sono le mani di mio padre, non sono mani adatte a edificare, a generare.
Sono
diventato un lavoratore della mente, la mia parte risiede nella ragione
che hanno le mie parole, se sanno essere mani ed edificare, e generare,
se sanno prendersi cura e mettere in salvo, se sono abbastanza salde
per questo, se sanno avere abbastanza costanza, lavorare per la vita
almeno le quarant’ore, e non basta, perché chi lavora per la morte
lavora a cottimo.