mercoledì 21 novembre 2018

Corriere 21.11.18
Novecento Gianluca Falanga ricostruisce per Viella carriera e ambiguità di un uomo di fiducia di Ciano
Un fascista che protesse gli ebrei
Il percorso di Luca Pietromarchi
di Sergio Romano


Dopo l’ingresso degli Alleati a Roma, nel giugno 1944, il ministero degli Esteri italiano tornò nella sua vecchia sede di piazza Colonna. Pochi mesi dopo, una commissione di epurazione si mise al lavoro per passare al setaccio vita e carriera dei diplomatici durante il Ventennio e punire con la sospensione dal servizio quelli che si erano distinti per zelo fascista o per una manifesta adesione al regime. Dopo la fine della guerra, con metodi ancora più rigorosi, lo stesso sarebbe accaduto per quelli che avevano seguito Mussolini a Salò e aderito alla Repubblica sociale italiana.
Il protagonista del libro scritto da Gianluca Falanga per l’editrice Viella (Storia di un diplomatico. Luca Pietromarchi al Regio Ministero degli Affari Esteri) aveva lasciato il ministero dopo l’armistizio dell’8 settembre, aveva trovato rifugio in una casa amica sino all’arrivo degli Alleati ed era tornato a Palazzo Chigi non appena l’ultimo tedesco era uscito dalla capitale. Non era un collaborazionista, quindi. Ma nel suo passato vi erano vicende che facevano di lui un naturale imputato della commissione. Si era iscritto al Partito nazionale fascista nel 1924 (l’anno dell’assassinio di Giacomo Matteotti), aveva firmato il manifesto dei cattolici italiani per il fascismo, era convinto che Mussolini avesse cristianizzato il fascismo e aveva persino un grado nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, la formazione militare creata il 23 marzo 1923. Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri dal giugno 1936, fu colpito dalla sua intelligenza e dalle sue capacità organizzative. Quando scoppiò in Spagna la guerra civile e l’Italia intervenne contro i «rossi» con una Legione, gli affidò la direzione dell’«ufficio Spagna»: un organo che aveva stretti rapporti con il corpo di spedizione e, quindi, competenze militari. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale divenne capo dell’Ufficio «guerra economica».
Dopo alcune sedute della commissione di epurazione, Pietromarchi fu esentato dal servizio per indegnità. Una tale sentenza era in quei giorni inevitabile, ma non teneva conto di mentalità e circostanze che anche oggi sembrano spesso ignorate o trascurate. Luca Pietromarchi era un nazionalista cattolico. Negli anni della gioventù aveva viaggiato in Africa, era stato affascinato dalla popolazione camitiche (gli eredi di Cam figlio di Noè, fra cui gli etiopi) e aveva scritto un’opera importante sull’Abissinia. Combattente nella Grande guerra, era tornato dal fronte con una medaglia al valore. Durante il «biennio rosso», quando il massimalismo socialista invocava la rivoluzione, aveva assistito con simpatia all’ascesa del movimento fascista. Riconosceva a Mussolini il merito di un Concordato che gli aveva consentito di essere contemporaneamente cattolico romano e patriota italiano. Nella guerra di Etiopia vide il riscatto di Adua, la battaglia perduta del 1896. Nella guerra di Spagna vide la lotta contro il bolscevismo e, per l’Italia, la conquista di una posizione eminente nel Mediterraneo. Nella Conferenza di Stresa, convocata da Mussolini nel 1935, vide il lodevole tentativo di creare un fronte anglo-franco-italiano contro il revanscismo tedesco. Alcune di queste posizioni sono discutibili e criticabili, ma erano condivise da molti italiani non necessariamente fascisti.
I primi dubbi e un crescente malessere si manifestarono quando Mussolini cominciò a legare il destino del suo Paese a quello del Terzo Reich e permise a Hitler di cancellare lo Stato austriaco dalla carta geografica. Pietromarchi sperò che l’Italia, dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale, rispettasse la non belligeranza, proclamata nel settembre del 1939, e fu tra i primi ad accorgersi che la Germania sarebbe stata, nei rapporti con l’Italia, spregiudicatamente rozza e brutale.
Vi è nella vita di Pietromarchi un interessante capitolo ebraico. Aveva sposato una ebrea convertita al cristianesimo e dovette piegarsi ai bizantinismi di una legislazione che prevedeva la discriminazione (cioè l’esenzione dai divieti previsti per gli ebrei) per alcune categorie, ma pretendeva anzitutto che i discriminabili (nel suo caso moglie e figli) presentassero un certificato di ebraismo. Più tardi, durante la guerra, Pietromarchi si servì delle sue funzioni per difendere gli ebrei che vivevano nelle zone occupate dalle truppe italiane soprattutto in Jugoslavia e in Grecia. I comandanti militari, i diplomatici italiani nei Balcani e lo stesso ministero degli Esteri resistettero sistematicamente alle continue pressioni tedesche e rifiutarono di consegnare gli ebrei alle autorità germaniche. È una pagina di storia che sarebbe stato giusto ricordare negli scorsi mesi, quando è stato commemorato l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali.
L’esilio di Pietromarchi da Palazzo Chigi durò fino al 1947, quando il Consiglio di Stato, come in molti altri casi, annullò l’epurazione. Carlo Sforza, allora ministro degli Esteri, lo richiamò a Palazzo Chigi. Il governo De Gasperi lo nominò ambasciatore in Turchia nel 1950 e il governo Fanfani, sollecitato dal presidente della Repubblica Gronchi, lo nominò ambasciatore a Mosca nel 1958. La classe politica postfascista aveva deciso che la continuità dello Stato era più importante di qualche contingente regolamento di conti.