La Stampa 21.11.18
Le leggi razziali sulla pelle
“Alla mostra che espone i registri con i beni sequestrati a mia nonna”
di Elena Loewenthal
Se
ne parla tanto, in questo periodo. È diventato una specie di slogan,
un’etichetta, una pietra di paragone, l’unità di misura di un test a
crocette. Per me, invece, il fascismo sta tutto in una delle quasi
trecento pagine dell’inventario «Antroponimi» dell’Egeli – l’«Ente
Gestione e Liquidazione Immobiliare», creato nel 1939. La voce 696 porta
il nome di mia nonna Ida Falco Loewenthal, sia benedetta la sua
memoria. È una cartellina opaca, irruvidita dal tempo. Dentro c’è la
documentazione superstite relativa ai beni di mia nonna sequestrati dopo
l’entrata in vigore delle Leggi Razziali. In fondo, in quella
cartellina non trovo soltanto la mia definizione di «fascismo»: lì
dentro c’è quello che sono. Mio malgrado. Ci sono le mie convinzioni e
le paure che mi porto dietro, ci sono i dubbi che mi assillano, c’è il
confine della mia ansia, c’è quello che voglio tramandare ai miei figli.
Ci sono i silenzi che circondavano la mia infanzia, c’è lo sguardo
sempre un poco smarrito di mio padre e mia madre. Questo e altro, ha
fatto a me il fascismo.
Con l’entrata in vigore delle Leggi
Razziali, il regime di Mussolini ordinò a una serie di banche sul
territorio italiano di creare un ente apposito per inventariare,
valutare e provvedere al sequestro – o alla confisca, che spesso era una
pratica più breve ed efficace – dei beni ebraici. In Piemonte e Liguria
toccò al San Paolo di Torino mettere in piedi questa complessa
organizzazione fatta di funzionari che bussavano alle porte di case e
aziende con carta e matita in mano, annotavano tutto, procedevano al
sequestro, gestivano i beni e le attività incamerati. Sono
centoequindici metri lineari di documenti con oltre seimila e trecento
fascicoli conservati presso la «Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura
della Compagnia di San Paolo», nella sua sede di piazza Bernini 5, dove
domani si apre la mostra «Le case e le cose. Le leggi razziali e la
proprietà privata».
Fra le banche italiane incaricate di creare
l’Egeli e portare avanti la «consegna» imposta dalle Leggi Razziali, il
San Paolo è la prima ad avere preso in mano questa scomoda storia in
nome di una responsabilità umana e morale. Merito del presidente Piero
Gastaldo, del direttore della Fondazione 1563, Anna Cantaluppi
(curatrice dell’Archivio storico della Compagnia di San Paolo fin dalla
sua costituzione nel 1986) e della squadra di lavoro. Merito del lavoro
dello storico Fabio Levi, che da anni lavora su questi documenti. Il
progetto è ampio, mira a creare uno spazio permanente di «Digital
Humanities» intorno a questo passato, in cui discipline e documenti di
diverse provenienze possano incontrarsi grazie alle potenzialità della
rete.
La mostra che resterà aperta sino a fine gennaio 2019
racconta tutto il lungo processo di catalogazione, sequestro, gestione e
restituzione dei beni ebraici attraverso i documenti estratti
dall’archivio, con un corredo di foto per dare alle storie corpo e
volti. Come quello di Primo Levi nella tenuta Saccarello (strada
comunale di Superga) della sua nonna materna Adele Luzzati, fra tre
degli alberi che il solerte funzionario non manca di inventariare per il
sequestro, insieme alla casa, gli interni, le macchine agricole, gli
arredi.
E’ tutto così terribile e doloroso, fra quelle carte.
Dentro quei registri scritti a mano: c’è quello della «Rubrica per Vie –
Ebrei Sequestrati», c’è la «Rubrica – Ebrei», ci sono gli «Ebraici
Confiscati», e gli «Ebraici Sequestrati». Sfogliando quei libri, aprendo
i fascicoli, trovo scritto «razza ebraica» talmente tante volte che mi
gira la testa e devo alzare lo sguardo verso la luminosa sala di
consultazione, affinare l’udito e sentire il ticchettio del computer
alle mie spalle, per assicurarmi di non essere precipitata in quel
passato. «Razza Ebraica» sta scritto infinite volte anche nel corposo
dossier su Leone Sinigaglia e la sua casa di Cavoretto. Con
quell’ottusità di cui solo la burocrazia è a volte capace, l’Egeli pensò
bene di sequestrargli formalmente la casa il 23 novembre del 1944, sei
mesi e sette giorni dopo che il compositore era morto di crepacuore
all’ospedale Mauriziano, per paura dei tedeschi e della deportazione. Il
processo disgregatore era cominciato ben prima di allora, con l’ordine
di “amministrazione provvisoria” per tutti i suoi beni mobili e
immobili. Dopo l’incursione aerea che si abbatté su Cavoretto l’1
dicembre del 1943, il “capo della Provincia” decretò che le ville
appartenenti a persone di razza ebraica venissero messe a disposizione
dei «sinistrati». Oggetti, indumenti, biancheria, mobili. Tutto. I
locali di casa Sinigaglia vengono svuotati, parte dei beni assegnati
agli sfollati, parte custoditi nei depositi dell’Educatorio Duchessa
Isabella, per poi finire oggetto di «arbitraria appropriazione» da
uomini della guardia nazionale repubblicana Leonessa e militari del
comando tedesco. Persino gli alberi del giardino furono tagliati per
farne legna da ardere.
Questo è ciò che dice a me la parola
«fascismo». Non è uno slogan, né una pietra paragone. Non è il luogo
comune che a volte è diventato. Sono quelle carte che il tempo ha reso
fragili e diafane, ma l’inchiostro degli elenchi, delle cifre, dei
provvedimenti è così nitido che sembra inciso sul foglio. È la sequenza
di nomi dentro quei registri, in cui trovo tutti quelli della mia
famiglia. Non uno di meno.