Repubblica 21.11.18
I migranti al confine
Fiumi, bus e autostop la marcia di Eduardo verso il sogno americano
Ha 24 anni, in Honduras è un disertore. Ha preso una licenza e si è unito alla Carovana: "Non devi mai guardarti indietro"
il
mio stipendio non bastava mai" "Sono partito per me, mia madre, mia
moglie e i miei tre figli. Per dargli un futuro, un giorno"
di Carlo Bonini
TIJUANA
Eduardo Trochez, all’anagrafe Marcio Eduardo Trochez Ortiz, 24 anni, da
Olanchito, nord ovest dell’Honduras, tra due settimane taglierà per
sempre l’ultimo ponte che si è lasciato alle spalle alle due del
pomeriggio di sei settimane fa.
Perché, il prossimo 3 dicembre,
Eduardo non si ripresenterà al battaglione della fanteria di Marina del
suo Paese, di cui è ancora ufficialmente un sergente di prima classe, e
verrà dichiarato disertore. Quel giorno, il suo capitano scoprirà che la
licenza straordinaria che gli aveva concesso all’inizio di ottobre non
era per motivi familiari, come lui gli aveva raccontato mentendo. Ma un
biglietto di sola andata verso un’altra vita e un altro mondo.
Anche
per questo, tra due settimane, sarà più facile per Eduardo scacciare
anche solo la tentazione di tornare indietro per riabbracciare tutto ciò
che ha di più caro al mondo e che non sa se potrà mai rimettere
insieme: sua madre Dunia, 49 anni, contadina in un campo di banani, sua
moglie Devi, 24 anni come lui, disoccupata, e i suoi figli Elbin, 6
anni, Dilan, 4 anni, e Eithan, 3 mesi. «Non li rivedrei comunque. Da
disertore finirei in un carcere», dice invitando ad allontanarsi di
qualche centinaio di metri dall’ingresso del campo profughi "Benito
Juarez", dove è arrivato giovedì della scorsa settimana, 15 novembre,
dopo un viaggio di 4.500 chilometri, e dove consuma giornate senza fine.
Tra
il giaciglio che gli è stato assegnato, i bagni, la mensa. Già, ha
voglia di raccontare, Eduardo, ma senza avere occhi addosso, soprattutto
in questa mattina complicata, nervosa, con la polizia messicana che si è
portata via in manette 34 migranti arrivati, come lui, con la Carovana
della Vita e arrestati per spaccio.
AMBASCIATORI DI CRISTO
Ha
lo sguardo, la forza e la spinta vitale del giovane uomo che è,
Eduardo. Ma ha le cicatrici di un vecchio. Cui il destino ha bruciato
troppo in fretta il tempo delle cose. E nel posto sbagliato, per giunta.
Fin dal giorno in cui è nato, 24 anni fa, quando suo padre, Raphael,
sparì da casa. «Non l’ho mai conosciuto. Non so come sia fatto. Ma
conosco la sua voce.
Quando ero già grande mi telefonò. Mi disse
che viveva negli Stati Uniti da clandestino da quando ero venuto al
mondo e lui aveva lasciato l’Honduras.
Ma non mi ha mai voluto
dire dove. L’ho chiamato al telefono nelle scorse settimane mentre
risalivo il Messico con la Carovana. Gli ho detto che volevo entrare
negli Stati Uniti.
Gli ho chiesto aiuto. Speravo mi dicesse di
raggiungerlo. E invece ha messo giù augurandomi buona fortuna. Poi, non
ha più risposto neppure ai miei messaggi».
Funziona così in
Honduras, un paradiso naturale stretto tra il Pacifico e il mar dei
Caraibi e abitato da demoni. Il Paese più violento al mondo per
percentuale di omicidi (42,8 ogni 100mila abitanti). La terra che, da un
decennio, gronda del sangue dei colpi di Stato, degli squadroni della
morte, e delle armi delle pandillas, le sue bande criminali — i "Maras
Salbatrucha", gli "Ms", i "18" — e dove, tra il 2012 e il 2013, ci sono
stati più morti che in Iraq. «Non devi mai guardarti indietro nel mio
Paese. Perché quasi sempre non trovi più niente. E, soprattutto, non c’è
nulla che valga la pena rimpiangere.
L’unica cosa che conta è
rimanere vivi e aggrappati al sogno di poter essere un giorno altrove».
Quello che Eduardo aveva cominciato a coltivare da adolescente, quando
era un promettente centrocampista degli "Embajadores de Cristo", gli
Ambasciatori di Cristo, una delle squadre di calcio di Olanchito. «Io e i
miei amici Victor, Herlin, Carlos giocavamo insieme. E ce lo ripetevamo
sempre. "Un giorno andremo negli Stati Uniti". Ma, alla fine, ce l’ha
fatta solo Carlos. Mi chiamò il giorno che riuscì a entrare da
clandestino qualche anno fa. Poi, come mio padre, più nulla. Non si è
più voltato indietro».
FUCILIERE DI MARINA
Victor, Herlin e
Carlos sono ancora vivi. «E questa è una fortuna. Non succede mai che i
tuoi amici di infanzia siano ancora tutti vivi alla nostra età».
«Alla
nostra età». Eduardo lo dice come fosse un’ovvietà che i ventiquattro
anni, quanti lui ne ha, siano un’aspettativa tutto sommato decente per
chi nasce in Honduras. Ma ha ragione. È una fortuna. E la sua ha avuto
un nome: Marina Militare. «Facevo l’elettricista, mia madre lavorava nei
campi di banani e non riuscivamo a mettere insieme il pranzo con la
cena.
L’alternativa era tra le pandillas e la Marina. Ringraziando
Dio e l’educazione che mi ha dato mia madre, ho scelto la Marina. Mi
sono arruolato a 18 anni. Mi ha cresciuto come avrebbe fatto un padre,
se solo lo avessi avuto. Mi ha fatto diventare un uomo. Mi ha dato da
vivere». Seimila lempiras (la moneta honduregna) al mese. Duecento euro.
Poco più di 6 euro al giorno. «Mille e cinquecento lempiras le davo a
mia madre per aiutarla a campare, 800 le pagavo per la casa della mia
famiglia e il resto servivano per comprare da mangiare ai miei figli e a
mia moglie. Ma non bastavano mai». La casa di Eduardo, due stanze, una
macchina per cucinare, una latrina all’esterno, e niente acqua — «La
compravamo e la scaldavamo in casa con le bombole del gas» — non può
essere un posto dove far crescere decentemente cinque esseri umani.
«Anche per questo la Marina è stata una fortuna. Io vivevo in caserma
con turni di 45 giorni consecutivi, intervallati da 10 di permesso. In
questo modo io risparmiavo sul cibo. E la mia famiglia aveva anche più
spazio». Si capisce dunque perché per un po’ questa che Eduardo chiama
"fortuna" le sia sembrata davvero tale. Anche quando, vestendo
l’uniforme da fuciliere, ha ucciso il primo di una serie di uomini di
cui non ha mai voluto tenere il conto. «Il governo usava il mio
battaglione per combattere le gang. In città e in mare, dove davamo la
caccia ai Narcos. La prima volta che mi spararono addosso capii che o
uccidevo o sarei stato ucciso. E da allora non ci ho pensato più.
Facevo fuoco sul bersaglio a cui mi veniva ordinato di tirare».
Poi,
un giorno, tornando a casa durante uno dei suoi permessi, Eduardo trovò
Devi, sua moglie, che piangeva a dirotto. «Mi confessò che i soldi del
mio stipendio, che le avevo fatto avere qualche giorno prima, erano
finiti. Che da settimane, ormai, comprava tutto a credito.
Anche i
pannolini e il latte per Eithan. E allora decisi. Avrei colto la prima
occasione che fosse capitata. La prima. Avrei realizzato il mio sogno di
bambino. Gli Stati Uniti. Per me, per Devin, per i miei tre figli. Per
dargli un futuro, un giorno. Si, sarei partito. E lo avrei fatto con
Exell, mio cognato. Che la pensava come me».
UNA BIBBIA, DUE PANTALONI E TRE CAMICIE
Il
2 ottobre, il battaglione di Eduardo viene comandato di pattuglia nelle
strade di Olanchito. «Ci era stato ordinato di garantire la sicurezza
durante il passaggio di una carovana di migranti honduregni diretta
verso il Messico. Mentre li vedevo passare, mi chiamò al telefono Exell.
Mi spiegò che aveva parlato con gli organizzatori. Che potevamo unirci.
Ma dovevamo farlo subito. Telefonai allora immediatamente al mio
capitano dicendogli che avevo un’emergenza con la mia famiglia e avevo
bisogno di una licenza straordinaria. Me la negò. Tornai a chiedergliela
il giorno dopo e quello dopo ancora, finché non si convinse.
Ero
un buon sergente. E lui pensò me la meritassi. Così, arrivai di corsa a
casa la sera del 4 ottobre e dissi a Devin che sarei partito con Exell.
Passammo
la notte in bianco. A piangere e baciarci. Poi, lei mi aiutò a fare la
borsa. Ci mise dentro la Bibbia, due paia di pantaloni, due paia di
scarpe e tre camicie. Alle due del pomeriggio, diedi l’ultimo bacio a
lei e ai miei figli e uscii di casa con mille lempiras in tasca.
Tutto quello che mi era rimasto.
Ero vestito esattamente come sono vestito oggi».
INSEGUENDO LA CAROVANA
Quel pomeriggio del 5 ottobre, il ritardo di Eduardo e Exell sulla Carovana è di cinque giorni.
«Sapevamo
quale itinerario avrebbe seguito e che avremmo dovuti riunirci da
qualche parte nello Stato messicano del Chiapas. Ma dovevamo sbrigarci».
Con un autobus raggiungono prima san Pedro Sula e quindi, in autostop,
Santa Rosa de Copán, alla frontiera con il Guatemala, dove Eduardo e il
cognato ottengono un permesso temporaneo di soggiorno di dieci giorni
con l’obbligo di rientrare in Honduras alla scadenza. Le mille lempiras
erano già finite.
«Incontrammo una signora guatemalteca. Le
raccontammo perché stavamo scappando dal nostro Paese. E lei ci accolse
in casa. Ci diede da mangiare, ci fece lavare e ci offrì anche di
lavorare per la ditta di cui era impiegata. Ma la mattina dopo ci
facemmo accompagnare sul ciglio dell’autostrada per continuare il nostro
viaggio».
La notte del 9 ottobre, Eduardo ed Exell sono sulla
riva del fiume Suchiate, al confine con il Chiapas, Messico. Entrambi
stanno per diventare ufficialmente clandestini. Per traghettare, i
trafficanti di uomini gli chiedono 100 pesos.
Che non hanno. Ma
almeno hanno capito dove è possibile attraversare senza essere portati
via dalla corrente. Lo fanno con il buio, immersi in un’acqua gelida e
nera come l’inchiostro.
Il 10 sono ad Arriaga, dove si riuniscono alla Carovana. Sono riusciti a rimontare lo svantaggio.
ALLUCINOGENI
Cominciano
venti giorni in cui Eduardo perde anche la cognizione del tempo. La
Carovana non ha mezzi propri per procedere di conserva.
Ognuno
deve arrangiarsi come può. Per tutti, l’appuntamento è fissato alla fine
del mese a Città del Messico. In autostop, la rotta si fa spezzata e
tortuosa. Dalla costa pacifica del Messico, i due ragazzi risalgono
verso quella atlantica, attraversando lo stato di Veracruz: Acayucan,
Veracruz, Tierra Blanca, Cordoba. Li carica per un lungo tratto un
camionista di Monterey che, alla guida di un gigantesco tir, è in giro
da una settimana per consegnare elettrodomestici. Il tipo è schizzato.
Ha tempi stretti che gli impediscono di dormire troppe ore. Guida
tenendosi su con la roba che ha nel cruscotto.
«Ci chiese se
volevamo provare a fumare i suoi cristalli. Disse che erano più forti
delle anfetamine e ci consigliò di provarli insieme alla sua erba.
"Aiuta a non andare troppo su e a non sprofondare troppo giù", diceva. E
intanto il camion viaggiava sbandando paurosamente. Gli dissi che non
mi drogavo e che non avrei cominciato li sopra.
Ma fu come farlo.
Fumava tenendo tutti i finestrini chiusi e noi che eravamo in cabina
finivamo per respirare quella roba. Quando scesi capii che il mio
destino era che rimanessi vivo».
"TI AMO"
Eduardo e Exell
arrivano a Città del Messico in tempo per l’appuntamento. Rimangono sei
giorni in una struttura sportiva messa a disposizione dal governo
Messicano. E, la prima settimana di novembre, a Santiago de Querétaro,
salgono su un convoglio di quaranta tra camion e bus che li porterà a
Tijuana lungo la costa del Pacifico, attraversando il Sinaloa. «Ora
forse capisci perché non tornerò mai più indietro», dice con un sorriso
Eduardo. «Aspetterò qui tutto il tempo che sarà necessario. Ma entrerò.
Se necessario, anche clandestinamente. Troverò il modo». Non sa ancora
che un giudice federale sembra leggergli nel pensiero e, di lì a poche
ore, ordinerà alla Casa Bianca di ripristinare il riconoscimento del
diritto di asilo anche se a chiederlo sono clandestini. Eduardo ora ha
un’altra urgenza. Riuscire a parlare con Devin. Non la sente da
settimane, da quando ha perso o gli hanno rubato il suo cellulare
durante il viaggio.
Sorride e scuote la testa con pudore quando
gli viene offerto il telefono dalla persona che ha di fronte e a cui ha
appena finito di raccontare la sua storia.
Compone il numero: +504-961…. «Amore, amore mio… Sono io.
Sono vivo. Sto bene, sì. E i bambini, come stanno i bambini?». Si accovaccia sul marciapiede. Ora bisbiglia.
Spinge la visiera del suo cappellino Adidas sulla fronte a coprirsi il volto. Ha le guance rigate di lacrime.
Marcio Eduardo Trochez Ortiz non tornerà indietro.