il manifesto 19.11.18
Napoleone era nero*
Ottant’anni dalla
pubblicazione di "The Black Jacobins" di C.L.R. James. Mentre l’oblio
del passato coloniale genera nuovi mostri e un delirio di massa su
presunte «invasioni» dal sud del mondo, quel libro continua a
influenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta continua a
riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di Toussaint, uno
qualunque, è divenuto il logo di Jacobin. E quel lascito non cesserà di
spaventare i padroni
di Wu Ming 1
Compie
ottant’anni The Black Jacobins di C.L.R. James, saggio storico tra i più
influenti del ventesimo secolo, nonostante la sua influenza continui a
suscitare imbarazzo, a essere rimossa o sminuita. È ancora incandescente
la vicenda ricostruita – la rivoluzione haitiana guidata
dall’ex-schiavo Toussaint L’Ouverture – ed è ancora drastica la
riconsiderazione della tradizione rivoluzionaria che, fin dal titolo, il
libro esorta a intraprendere.
Ispirato nella struttura e nello
stile alla Storia della Rivoluzione russa di Trotsky, e scritto tendendo
l’orecchio alle proteste internazionali contro l’invasione italiana
dell’Etiopia, The Black Jacobins fu pubblicato nel 1938. L’anno che
segna l’inizio della sconfitta dei repubblicani spagnoli, che James cita
nella prefazione; l’anno del famigerato Accordo di Monaco, col quale le
principali democrazie borghesi d’Europa – Francia e Regno Unito –
aprirono la strada al progetto imperialista di Hitler; l’anno della
“Notte dei cristalli”, i cui clangori sembrano già echeggiare nel libro.
La seconda guerra mondiale era ormai dietro l’angolo.
Proprio nel
Regno Unito, C.L.R. James – nero delle cosiddette «Indie occidentali»,
militante marxista, scrittore e drammaturgo – osava alcune
«considerazioni inattuali», e potenzialmente oltraggiose: una su tutte,
che senza la rivolta di massa degli schiavi di Haiti, scoppiata nel
1791, la Rivoluzione francese non sarebbe stata la Révolution che tutti
conosciamo. Non contento, aggiungeva che Toussaint L’Ouverture, spinto
verso l’alto da contraddizioni immani e dall’urto di tumultuose forze
sociali, fu uno dei più grandi uomini del suo tempo, pari solo al suo
nemico Napoleone. Un Napoleone negro!?
Quello che James stava
dicendo – ora in forma allegorica, ora esplicitamente – era: non può
darsi alcuna vera rivoluzione in occidente senza rivoluzioni nelle
colonie.
Nel 1938, mentre gli sguardi convergevano su Hitler,
sembrava una prospettiva remota, un tema non all’ordine del giorno, e
per una manciata d’anni la guerra sembrò spingerlo ancora più ai margini
di ogni discorso. In realtà, mettendo a dura prova i centri dei più
grandi imperi coloniali, (quello britannico e quello francese) e al
tempo stesso mobilitandone in massa i sudditi «di colore», la guerra
acuì proprio le contraddizioni su cui James aveva gettato luce.
Nel
dopoguerra, le atrocità del nazismo divennero la nuova pietra di
paragone per le atrocità del colonialismo. Basti un solo esempio: nella
seconda metà degli anni Cinquanta l’opinione pubblica britannica, ancora
fresca di vittoria contro il nazismo, scoprì gli orrori della Pipeline,
il sistema di centocinquanta lager – come altro chiamarli? – aperti in
Kenya per deportarvi la popolazione Gĩkũyũ e stroncare l’insurrezione
Mau Mau. Emersero casi di prigionieri bruciati vivi o castrati con pinze
da bestiame. Lo scandalo portò all’indipendenza del Kenya, e accelerò
la fine dell’impero «su cui non tramontava mai il sole».
Quel che
il borghese europeo non perdona a Hitler, scrisse Aimé Césaire nel 1950,
«non è il crimine come tale, il crimine contro l’uomo; non è
l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il
fatto di aver applicato all’Europa metodi coloniali finora riservati
agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri d’Africa». Una
riflessione che The Black Jacobins aveva anticipato ancor prima della
guerra, come aveva anticipato quelle di un altro figlio delle Indie
occidentali, Frantz Fanon, autore dell’altra grande opera anticoloniale
del XX secolo: I dannati della terra (1961).
Nel mentre, The Black
Jacobins circolava, talvolta illegalmente, nei paesi dove ardevano le
braci della rivolta coloniale. Diviso in dispense, copiato a mano
modello samizdat, fu uno dei testi più diffusi nel Sudafrica
dell’apartheid, tra attivisti di più generazioni, dal massacro di
Sharpeville (1960) alla rivolta di Soweto (1976) e oltre.
Riletta
nel suo ottantesimo anniversario, questa storia di uno Spartaco nero, di
un’armata di schiavi che fa la rivoluzione, risulta più attuale che
mai, per tante ragioni. Troppe perché questo articolo possa contenerle.
In Italia e in gran parte d’Europa, in una torsione paradossale, i
termini «schiavi», «schiavitù» e «schiavisti» sono usati strumentalmente
per difendere il privilegio bianco e attaccare le mobilitazioni
antirazziste: «Siete voi buonisti a difendere la nuova tratta degli
schiavi!», «Siete complici degli scafisti, i nuovi trafficanti di
schiavi!», «Li portano qui per farne degli schiavi!».
Del resto,
neri ammassati su imbarcazioni che compiono un viaggio drammatico… Cosa
potranno mai ricordare? Ma l’allegoria è fallace: gli scafisti non sono
negrieri ma passeurs, perché i migranti vogliono essere trasportati in
Europa e pagano per il viaggio, cioè per avere un servizio; che lo
ricevano di qualità pessima, da parte di carogne senza scrupoli, è colpa
sì di quelle carogne, ma prima ancora è colpa delle leggi europee
sull’immigrazione. E, sì, la situazione rende quei viaggi molto
pericolosi, ma non li rende uguali al Middle Passage delle navi
negriere.
Il termine «schiavi» è usato dai razzisti per negare
alle persone migranti ogni soggettività, ogni autonomia di scelta. Chi
compie quei viaggi è descritto come mero corpo, materia bruta
trasportata da un posto all’altro. Questo è il cliché razzista e
coloniale sugli schiavi, e nessuno lo ha dimostrato meglio di C.L.R.
James. Nella massa derelitta degli schiavi di Haiti erano in corso,
invisibili al padrone, sommovimenti profondi, prese di coscienza,
insubordinazioni striscianti, e quelli che nel gergo di oggi chiameremmo
«percorsi di autoformazione». Ci si formava attraverso riunioni e
lezioni clandestine, attraverso il sabotaggio, attraverso la fuga per
raggiungere le comunità degli schiavi fuggiti, i Maroons, e persino per
unirsi a ciurme di pirati. Da tali processi emersero, al momento giusto,
un soggetto rivoluzionario e un grande esercito popolare, coi suoi
comandanti, coi suoi brillanti strateghi, con il suo incredibile
Napoleone. Un esercito che scosse l’ordine del mondo.
Mentre
l’oblio del passato coloniale genera nuovi mostri e un delirio di massa
su presunte «invasioni» dal sud del mondo, The Black Jacobins continua a
influenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta continua a
riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di Toussaint, uno
qualunque, è divenuto il logo di Jacobin. E quel lascito non cesserà di
spaventare i padroni.
Chiudo parafrasando una canzone degli Stormy
Six: capitalisti e razzisti «ancora non si sentono tranquilli, perché
sanno / che gira per il mondo Toussaint L’Ouverture».
*Questo
articolo è tratto dal primo numero di Jacobin Italia, edizione italiana
della rivista che ha rilanciato il dibattito nella sinistra radicale
statunitense. Il progetto, edito da Alegre, è autonomo ma federato a
quello d’oltreoceano e ha già raccolto 1500 abbonati (chi non ne ha
sottoscritto uno può richiedere la rivista in libreria). Una redazione
trasversale a differenti culture si muove, spiegano, dentro un orizzonte
delimitato da due paletti. «Non ci interessano il sovranismo di ogni
colore e il riformismo liberale». Per questo debutto, Jacobin Italia
mette i piedi nel piatto e si chiede cosa significhi «Vivere in un paese
senza sinistra», affrontando i temi della produzione e della
riproduzione sociale, smontando il falso mito dell’egemonia culturale
della sinistra, osservando il doppio movimento delle emigrazioni
italiane e dei migranti che arrivano da queste parti. C’è poi una
sezione dedicata alle «parole contese». Nel «paese senza sinistra –
spiegano i redattori – parole come cambimento, beni comuni, reddito e
democrazia diretta perdono di senso e ci vengono sottratte. Siamo nati
anche per riprendercele». Il dossier tratto dall’edizione Usa si
intitola «Breaking Bank». Parla dei dieci anni della crisi dei mutui
subprime del 2008. Come ha cambiato l’immaginario, come ha reagito
l’Europa, che fine hanno fatto gli apprendisti della finanza. Per
informazioni e abbonamenti: www.jacobinitalia.it.*