giovedì 22 novembre 2018

Repubblica 22.11.18
India
Missionario Usa ucciso con le frecce da una tribù
di Gabriele Rizzardi


Ha tentato di avvicinarsi a una tribù autoctona indiana delle isole Andamane, che sopravvive grazie a caccia e pesca, ed è stato ucciso a colpi di frecce.
Protagonista un missionario degli Stati Uniti, John Chau, 27 anni, che sabato scorso aveva pagato dei pescatori per farsi trasportare vicino all’isola North Sentinel, abitata dalla tribù Sentinelese che si ritiene essere l’ultima tribù pre-neolitica sulla Terra, i cui membri continuano a resistere a ogni contatto con l’esterno, sono molto aggressivi e non permettono a nessuno di avvicinarsi. Il giovane missionario voleva evangelizzarli ma non ce l’ha fatta. Appena messo piede sull’isola, raggiunta con una canoa, è stato trafitto da una pioggia di frecce. «Abbiamo visto gli indigeni legare una corda intorno al suo corpo e trascinarlo», hanno raccontato alla polizia i pescatori.

Corriere 22.11.18
Cari scienziati, siate un po’ filosofi
Carlo Rovelli, le passioni e gli incroci tra discipline. «Ho riletto Aristotele: gli siamo ancora debitori»
Confronti Il fisico in dialogo con il direttore Luciano Fontana alla presentazione milanese del suo nuovo libro edito dal «Corriere della Sera»
di Ida Bozzi


Una serata in cui si è parlato di farfalle e di vita dopo la morte — e poi di cervello umano, tempo, coscienza, buchi neri, e perfino di vaccinazioni e di giornalismo — mostrando quante siano le questioni cui è chiamata a rispondere la scienza. Martedì sera, nella sala piena dell’Auditorium San Fedele di Milano, un pubblico attento ha partecipato, più che assistito, alla presentazione del nuovo libro del fisico Carlo Rovelli, Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, pubblicato dal «Corriere della Sera» e che raccoglie gli articoli del fisico scritti per diversi giornali. Partecipato: perché la conversazione tra lo scienziato, autore di saggi bestseller come Sette brevi lezioni di fisica e L’ordine del tempo (Adelphi), e il direttore del «Corriere» Luciano Fontana ha offerto il destro per una quantità di domande del pubblico.
Un dialogo, quello tra Fontana e Rovelli, che ha chiarito come la scienza sia aperta al mondo e capace di incontrare altre discipline. Le farfalle scelte per la copertina del libro ne hanno mostrato un primo esempio. «La farfalla è l’Icaro azzurro — ha spiegato Rovelli —, quella che studiava Vladimir Nabokov, uno dei grandi scrittori del Novecento, che sognava di essere ricordato per i suoi studi sulle farfalle. La sua teoria sull’Icaro è stata dichiarata esatta: aveva teorizzato che le 5 specie esistenti in America fossero giunte nel continente in 5 epoche diverse, e oggi si è scoperto che è vero. Era un grande scienziato, il suo sguardo sapeva vedere la bellezza: mostra quanto c’è in comune tra letteratura e scienza».
Il titolo del saggio, invece, nasce da un’esperienza in Senegal, ha ricordato Rovelli: «Sono entrato in una moschea con le scarpe in mano, cosa che non si può assolutamente fare. Ma è arrivato un vecchio che sorridendo ha preso le mie scarpe, le ha messe in un sacchetto, me le ha restituite e mi ha fatto cenno di entrare. Mi ha colpito che quell’uomo mi abbia accolto, preferendo la gentilezza alle regole. Se si collaborasse, invece che limitarsi alle regole, tutto andrebbe meglio».
A proposito di accoglienza, il direttore del «Corriere» ha ricordato il primo incontro con Rovelli: «La prima cosa che mi ha chiesto è stata: “Vorrei scrivere un articolo contro la guerra. Me lo pubblicate?”. Gli ho risposto: “Certo!”. Forse non mi credeva. Invece andò proprio così». In quei giorni era in discussione la partecipazione italiana a operazioni militari in Iraq. «Questo mi ha dato la sensazione — ha risposto Rovelli — di trovare un giornale aperto. Anche se non sempre i lettori sono d’accordo con me: ma è bello avere opinioni diverse, è il modo in cui si cresce».
Proprio sull’importanza di far incontrare opinioni, ma anche discipline diverse, è proseguito il dialogo. Fontana ha notato che nel libro si parla molto di filosofia e filosofia della scienza. E Rovelli ha spiegato: «Trovo che uno scienziato debba avere una prospettiva “filosofica”, che la scienza nel suo insieme sia un’esplorazione dei modi di pensare al mondo. Da Einstein a Newton, tutti i grandi si sono nutriti di filosofia. Einstein ha letto Kant a 15 anni. E i filosofi, Kant, Aristotele, si sono interessati alla cultura scientifica del loro tempo».
Rovelli ha raccontato le sue passioni («Ho riletto la Fisica di Aristotele e sono rimasto esterrefatto: è grande scienza. Nella fisica attuale ci sono ancora parti che risalgono a lui») e le sue teorie («Il tempo non è una cosa sola, ha vari livelli, alcuni dei quali hanno a che vedere con il mondo fisico, altri con il cervello, la memoria. Il tempo per noi è l’emozione del suo scorrere, il fatto che tutto finisce. Occorre districare l’“emozione del tempo” dal tic tac dell’orologio»).
Poi, le domande del pubblico. Sul libero arbitrio: «Come dice Spinoza, è il nome che diamo — ha risposto Rovelli — al non essere consapevoli di ciò che avviene in noi e ci determina; da dentro, non da fuori». Sulla possibilità di studiare anche l’essere umano con la fisica quantistica: «Sarebbe un esagerato spreco di dettagli. A ogni disciplina il livello di precisione che le compete». Sulla somiglianza dell’universo al cervello: «Secondo me noi capiamo meglio l’universo del cervello». Su ciò che prova, lui ateo dichiarato, se pensa che non c’è nulla dopo la morte: «Quest’ansia l’abbiamo tutti, atei o no». Sulla divulgazione scientifica: «La mancanza di rispetto per il sapere scientifico è pericolosa. Se non usiamo questo sapere ci facciamo del male, con il riscaldamento globale o non vaccinandoci». E sulla teoria del tutto: «Non credo che siamo vicini a trovarla. Ma possiamo imparare cose nuove proprio a partire da quelle che non ci tornano».
La teoria del tutto
«Non credo che siamo vicini a trovarla. Ma possiamo imparare cose nuove proprio a partire da quelle che non ci tornano»

il manifesto 22.11.18
L’«ars combinatoria» della moltitudine
Tempi Presenti. A partire da «Assemblea», di Toni Negri e Michael Hardt (Ponte alle Grazie)
di Marco Bascetta


Il tempo e lo spazio è quello dell’Impero, la complessa articolazione politica del capitalismo globale e dei suoi dispositivi di governo; il soggetto è la moltitudine, dimensione collettiva di una molteplicità irriducibile e polifonica di soggetti; la premessa della liberazione nonché il suo fine è il comune, destinato a scardinare il duopolio esercitato dalla proprietà privata e dallo stato. Nel quadro tracciato dalla trilogia di Toni Negri e Michael Hardt, a partire dal 2002, si tratta ora di mettere a punto gli strumenti della politica e dell’azione, di farli scaturire dalla realtà del mondo contemporaneo, dalla sua totalità sociale, ordinandoli in una prospettiva di trasformazione radicale. Di dare, insomma, fisionomia, sulle orme di Machiavelli, a un nuovo «Principe», inteso non come uomo della provvidenza, ma come metodo e intelligenza collettiva, capace di combinare fortuna e virtù, potenza ed effettività, democrazia e potere.
A QUESTO COMPITO si accinge Assemblea, l’ultimo lavoro dei due autori (Ponte alle Grazie, pp.440, euro 28,50). Un compito tutt’altro che semplice, molto più simile all’inizio di un viaggio avventuroso che non alla sua conclusione. L’avvio dell’esplorazione di una politica possibile, finalmente privata della sua autonomia e di gran parte degli strumenti, la nazione, la sovranità, l’unitarietà del popolo, che la modernità le aveva messo a disposizione. E che tuttavia sopravvivono attraverso varie metamorfosi, spesso in forme oppressive e violente, all’esaurimento del loro ciclo storico progressivo. È soprattutto guardando «dal basso», dal tessuto del lavoro vivo, sostengono Negri e Hardt, che questo esaurimento e le nuove vie imboccate dall’accumulazione capitalistica vengono più nitidamente alla luce. Ma con esse anche le impasse, le strettoie, le battute di arresto dei movimenti sociali, la difficoltà di consolidare i risultati conseguiti, di mantenere il controllo sull’innovazione e sulla ricchezza prodotte dalla circolazione del sapere, da una fitta interazione di soggettività, dalla condivisione delle esperienze e delle sensibilità e, infine, l’incapacità di stabilizzare le nuove forme politiche democratiche prodotte dalle lotte (sotto osservazione è soprattutto, nei suoi caratteri inediti, il ciclo del 2011, da Gezi Park alle acampadas spagnole, da Zuccotti Park alle primavere arabe).
Il problema può essere formulato in diversi modi, uno dei quali è il rapporto tra la dimensione orizzontale della moltitudine che produce il comune e quella verticale dell’organizzazione, la capacità cioè di prendere decisioni, di chiamare a raccolta la pluralità dei soggetti (assemblea) nell’affrontare le urgenze del momento, nel conferire durata e consistenza al contenuto delle lotte. Ma senza però ricadere in quella distanza tra governanti e governati che è l’essenza della sovranità. Senza generare una leadership che si costituisca stabilmente come coscienza separata dei movimenti e loro guida, che questo avvenga nella forma della rappresentanza o in quella del carisma.
LA FORMULA che i due autori adottano per scongiurare questa involuzione è un rovesciamento del rapporto classico tra tattica e strategia. Quest’ultima spetterebbe infatti alla moltitudine e ai movimenti che in essa prendono vita, mentre la tattica, l’azione contingente, dovrebbe affidarsi all’organizzazione intesa come una dimensione intelligente di servizio e di tenuta. Questo rovesciamento è reso possibile dal fatto che a produrre nuova società non è l’impresa del capitale e nemmeno la coscienza di un’avanguardia che ne penetra le contraddizioni, ma quella cooperazione sociale che costituisce la vita della moltitudine e, per così dire, il suo rapporto con sé stessa, nonché il suo perenne conflitto con i dispositivi dell’accumulazione. La quale però non può più separare la potenza dell’interazione dalle soggettività che la esercitano, come ancora poteva il padrone della fabbrica con la forza combinata dei suoi operai, pena prosciugare la sua stessa fonte di ricchezza, il territorio preso di mira dalla sua vocazione di predazione coloniale. Non può sottrarre, ma può estrarre la ricchezza sociale così come estrae le materie prime sepolte sotto la superficie del pianeta. Il senso dell’affermazione «il comune viene prima» risiede qui. Nel fatto che è la cooperazione sociale a fare impresa ed è la dimensione collettiva, non gli individui in competizione fra loro, la vera imprenditrice di sé stessa.
NELLA MOLTITUDINE intraprendente, dunque, e nella produzione del comune è racchiusa la visione strategica di una nuova società non astrattamente utopica, ma radicata nella prassi della cooperazione. Tuttavia, di fronte alla difficoltà del comune di sottrarsi ai dispositivi di cattura del capitale estrattivo e di tradursi in autogoverno converrà domandarsi se il rapporto tra il comune prodotto dalla cooperazione sociale e l’appropriazione capitalistica sia poi così lineare come lo è lo sfruttamento delle risorse minerarie. Se anche il comune «viene prima», una volta «estratto» esso può essere riproposto come «a priori» nella forma che l’appropriazione capitalistica intende imprimergli, riaffermandosi così come condizione ineliminabile della produzione di ricchezza. In termini astratti, il capitalismo delle piattaforme, i suoi algoritmi, i suoi network, i suoi strumenti tecnologici, organizzativi e amministrativi possono agire come categorie trascendentali che tracciano a priori i confini entro i quali la produzione di soggettività può essere detta, agita, esperita e infine sfruttata. Il mondo fenomenico ricadrebbe così sotto la legge del capitale che, superando i suoi caratteri puramente «estrattivi», tornerebbe a dettare le condizioni del possibile.
PER RESTARE dentro la suggestione kantiana dovremmo allora pensare lo scarto, l’eccedenza, l’imprevedibilità e l’autonomia del comune come una sorta di noumeno resistente alla fenomenologia del capitale, ma senza il quale l’intero sistema, così come l’impianto della critica kantiana, crollerebbe su sé stesso. Ovviamente non parliamo di uno spettro metafisico che vive solo della sua pensabilità, ma di una materialità della vita collettiva e dell’interazione tra i singoli che i dispositivi dell’accumulazione non riescono a inquadrare e trattenere entro i propri schemi. E che, però, non può isolarsi nella sua purezza come perenne dimensione di alterità e di resistenza senza riappropiarsi anche delle condizioni del pensiero e dell’azione che sono state trasformate in capitale fisso.
VI È PERÒ UN PROBLEMA, o piuttosto una sensazione che accompagna insistentemente il lettore di Assemblea lungo le molte diramazioni nelle quali si sviluppa l’argomentazione dei due autori. E cioè che questo scarto, questa irriducibilità della moltitudine sfugga in un certo senso alla moltitudine stessa. Che essa risulti imprevedibile e indefinibile anche a sé stessa. E che questo la ostacoli nel farsi potere, costringendo nell’implicito la capacità strategica che le viene riconosciuta. Può apparire un grave limite politico e un fattore di confusione, ma si tratta in fondo del paradosso di tutte le strategie di libertà, sempre aperte, sempre resistenti a ogni tracciato lineare, anche quando convergono per propria natura, ontologicamente direbbero gli autori, verso l’orizzonte del comune. Ed è proprio in questa apertura, estranea a ogni prescrizione dottrinaria, a ogni imposizione teleologica, ma radicata nella pratica delle relazioni e interazioni che Negri e Hardt fanno risiedere la capacità strategica della moltitudine. La politica del «nuovo Principe», allora, non si traduce in una linea di condotta, in un percorso obbligato verso la rivoluzione, ma in una ars combinatoria che attraversa forme diverse dell’agire politico e sociale: l’esodo dall’ordine sociale e produttivo imposto dal capitale; il riformismo antagonista, che a differenza da quello servizievole delle morenti socialdemocrazie, incalza le istituzioni sul terreno di una restituzione della ricchezza, di una ripresa del controllo democratico sulle risorse del comune; infine l’esercizio di una egemonia e del potere che ne discende sull’insieme della società. Nessuna di queste forme è però autonomamente risolutiva.
NON LA PREFIGURAZIONE su scala ridotta di nuovi rapporti sociali che convive con l’ordine dominante, non la «lunga marcia attraverso le istituzioni» che rischia di perdersi per strada, non una presa del potere che potrebbe finire con l’imitare e riprodurre le tradizionali prerogative della sovranità. Vecchie contrapposizioni che hanno lungamente infelicitato la vita dei movimenti vengono a cadere (riforma e rivoluzione, economia e politica, spontaneità e organizzazione, realismo e utopia) per sciogliersi nella politicità della dimensione sociale.
In un percorso così composito e accidentato, così dipendente dall’inventiva e dalla sperimentazione nulla è teleologicamente garantito. E non è un caso che gli autori evochino alla fine il pari di Blaise Pascal, una scommessa senza rete, che ha però in palio da una parte il nulla e dall’altra la pienezza dell’essere.

La Stampa 22.11.18
Il popolo è diventato una fiction
La democrazia diretta e gli altri miti d’oggi
E i populisti fabbricano la neolingua
di Massimiliano Panarari


E dunque, che cosa è attualmente il popolo? Oggi, come nel momento storico della Rivoluzione francese, rappresenta un’astrazione e una fictio (ovvero, se si preferisce, una fiction) di cui si servono la teoria politica e la dottrina giuridica per fondare la categoria di sovranità e la logica di funzionamento delle istituzioni. E, oggi, come allora, costituisce un terreno di battaglia politico (e di distorsioni e manipolazioni) rispetto al quale i neopopulismi hanno individuato il proprio vessillo nel maggioritarismo estremo. Che, nel nome della più nobile e gloriosa delle poste in gioco (la rappresentanza democratica) viene esteso in modo indebito e assolutistico facendo coincidere la volontà della maggioranza – o presuntamente tale, appunto – con quella generale di «tutto un popolo».
Peggio per le minoranze
Se le minoranze non la pensano così, e vogliono restare tali non conformandosi, peggio per loro, perché l’opinione pubblica si esaurisce de facto e in maniera consustanziale in quella della maggioranza. Quindi, zitte e mosca! Ed ecco così che la «totalità» (organicistica) del popolo viene a identificarsi con i propri rappresentanti populisti, che diventano i soli legittimati a parlare in nome e per conto del popolo tutto in quanto (sedicente) «comunità organica».
E lo fanno, spesso, utilizzando un linguaggio creato ad hoc, perché quando un nuovo regime si insedia istituisce una neolingua, con la finalità di renderla l’idioma unitario del proprio (neo) popolo. Questa, come noto, rappresenta una delle intuizioni più durature di 1984 di George Orwell, la cui validità è stata ampiamente certificata dal marketing politico, dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive, che hanno dimostrato che si può vincere alla grande una campagna elettorale (e mantenere il consenso) proprio cambiando radicalmente i significati del lessico della politica e imponendo un’egemonia linguistico-culturale che obbliga gli avversari a inseguire da una posizione di debolezza e subordinazione. La narrativa populista ha sposato questa forma estrema di soft power (fondamentalmente brevettata a partire, seppure con tonalità diverse, dal reaganismo), che viene miscelata con i precetti dello spin doctoring e veicolata molto efficacemente attraverso i social media.
Ricostruzione delle parole
Difatti, precisamente una neolingua è quella che viene dispiegata, giorno dopo giorno, dai due populismi postmoderni arrivati al governo dell’Italia, quello nazional-sovranista della Lega e quello camaleontico-postideologico del Movimento 5 Stelle, ambedue dichiaratamente «anti-sistema», e quindi impegnati a edificare – in maniera tra loro competitiva – un altro sistema (semantico), servendosi anche (e meticolosamente) della ricostruzione delle parole e della incessante fabbricazione ex novo dei frame linguistici.
La neolingua orwelliana si basava sui principi della semplificazione e della limitazione delle alternative – esattamente come avviene nel discorso pubblico populista basato sulla polarizzazione, dove ogni tematica complessa viene sottoposta a un processo di riduzione ai minimi termini e di banalizzazione. E dove ci si deve schierare «con noi, o contro di noi»; una dicotomia obbligata e un manicheismo coatto in cui il «noi» evocato a ogni piè sospinto coincide in maniera alquanto plastica con l’ipostatizzata comunità organicista del popolo. Ragione per la quale chi non supporta le misure dell’esecutivo italiano legastellato – e, più in generale, chi non condivide le ricette populiste – finisce per essere relegato a una condizione di nemico a tutti gli effetti.
In primo luogo, perché la polarizzazione anche linguistica si tinge di una connotazione moraleggiante, come nel caso della campagna anti-casta per antonomasia, quella riguardante i vitalizi. E come nella formulazione lessicale del «decreto dignità» del vicepresidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico, Lavoro e Politiche sociali Luigi Di Maio, la quale rimanda nuovamente a un piano etico e metapolitico che risulta centrale nell’ideologia sottile del populismo.
La neolingua legastellata, infatti, batte e ribatte sempre sul livello simbolico (e il «muscolarismo»), che per il populismo è assai più rilevante delle politiche concrete. E lo mostrano, in modo inequivocabile, tutti i suoi architravi: le idee forza (la legittima difesa quale «valore non negoziabile» e l’«abolizione della povertà» tramite il cosiddetto reddito di cittadinanza), le ostentazioni di virilità nelle relazioni internazionali (l’Italia che è «stata un po’ prepotente», ma vincente nei confronti dei partner Ue, a detta del premier Conte, con riferimento a uno dei vari summit tenutisi tra Bruxelles e Strasburgo), le frasi ruvide da bar sport elevato da refugium peccatorum dei commenti a sproposito ad apparato ideologico e gli slogan pensati come tweet o soundbite televisivi: «La pacchia è strafinita» pronunciato da Salvini a proposito di migranti, profughi e clandestini infilati tutti nello stesso mucchio, facendo di tutta l’erba un fascio.
Rovesciamento dei significati
Oppure il «vive su Marte» indirizzato al non allineato presidente dell’Inps Tito Boeri; le proiezioni utopico-futuristiche (o, se si preferisce, le fughe in avanti, come la delega ministeriale alla democrazia diretta o la mezz’ora gratis di Internet «per i poveri»); la scelta programmatica del politicamente scorretto e la polemica costante verso i «buonisti» (come le Ong); l’abilità nel rovesciamento dei significati («risorsa» che, da contributore straniero della previdenza nazionale, si converte nella sarcastica etichetta salviniana per indicare lo squilibrato nigeriano che ha assassinato un anziano a Sessa Aurunca nel luglio 2018). Sempre, e rigorosamente, all’insegna della logica della campagna elettorale permanente nella quale tendono a moltiplicarsi esponenzialmente i fattoidi (i cosiddetti «fatti alternativi»), la cui verosimiglianza frutto di manipolazione risulta inversamente proporzionale alla veridicità dei fatti autentici.

Repubblica 22.11.12
Salvini e gli studenti
La gogna istituzionale
di Nadia Urbinati


Ipopulisti al governo si di chiarano democratici, ma non liberali. Lo dice anche Viktor Orbán: non è necessario che le democrazie siano liberali, « possono anche essere conservatrici, sovraniste, senza alcun danno alla democrazia stessa». Una grande stupidaggine, che mette insieme maggioranze ( conservatrici o progressiste) e regimi (democratici o autoritari). Il fatto nuovo dei governi populisti è di appartenere al genere democratico ma con torsioni maggioritariste. Questo li rende totalizzanti nella sfera dell’opinione. L’olio di ricino era una pratica arcaica, segno della poca sicurezza di sé del regime fascista, che preferiva ingessare il proprio governo annullando fisicamente l’opposizione. Il fatto nuovo è che si umilia l’opposizione senza eliminarla. È sufficiente considerare lo Stato e le sue norme come "nostre", ovvero della "nostra" maggioranza. Il web fa il resto.
Questo fa Salvini, che usa il Viminale come la sede della " sua gente", della opinione della maggioranza che egli misura e nutre ogni giorno. La "sua" forza è la maggioranza dell’audience. L’olio di ricino digitale sono le quotidiane offese, i dileggi, le aggressioni verbali agli ordinari cittadini che manifestano dissenso. Come fanno i cittadini delle democrazie.
Nei giorni scorsi gli studenti sono scesi in piazza contro le politiche del governo sulla scuola. Hanno bruciato le bandiere degli alleati di governo e dichiarato il " No Salvini day" contro la xenofobia e il razzismo. È circolata online l’immagine di una ragazza con un cartello contro Salvini, il quale l’ha postata sulla sua pagina Facebook, provocando (come voleva) una canea in difesa del " Capitano". Nel giro di poche ore, il capo del Viminale ha scatenato la gogna contro quella ragazza: più di novemila messaggi, alcuni con l’augurio di " fare la fine di Desirée" e di " essere stuprata". Tutti ben postati dal ministro a cui fa capo la polizia postale.
Non ci sono democrazie illiberali, fino a quando si possono mandare a casa le maggioranze con il voto. Ma per mandarle a casa, le opposizioni devono poter fare libera campagna di dissenso. Il fatto nuovo che qualifica la democrazia populista è che la maggioranza si comporta "come se" lo Stato, i ministeri, i diritti fossero del "suo popolo", quello buono. L’uso proprietario dello spazio pubblico è l’aspetto più preoccupante. Dal patrimonialismo di Berlusconi a quello di Salvini. È questa pratica che scatena l’intolleranza, che mira a rendere la maggioranza nana, che usa il linguaggio come olio di ricino legittimato dall’opinione della maggioranza.
L’egemonia dell’opinione della maggioranza: questa è la democrazia populista. Se il ministro Salvini scatena la gogna digitale contro una ragazza che lo contesta, però, non è né un democratico né un liberale. È un fascista digitale che, se avesse l’agio di andare oltre i limiti imposti da una Costituzione amata e un’Europa non sepolta, potrebbe avere la tentazione di andare oltre il potere dell’opinione. Non fidiamoci: non ci possono essere democrazie illiberali. Come non ci possono essere asini che volano, anche se molti ci credono.

Il Fatto 22.11.12
Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa
Salute in carcere: un diritto negato
Le foto che pubblichiamo sono scatti di un viaggio compiuto da Nicola Baldieri assieme al magistrato Nicola Graziano, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa prima della dismissione, divenuto un libro (“Zero, zero, uno”, Giapeto editore) –
di Natascia Ronchetti


Quando Agostino Siviglia, garante dei detenuti di Reggio Calabria, presenta la sua relazione sulle due carceri cittadine, Antonino Saladino, 31 anni, è morto per un malore da poco più di due mesi in quella di Arghillà, dove era rinchiuso per traffico di droga. È il 24 maggio scorso, siamo a palazzo San Giorgio, sede del Comune. Siviglia, davanti al vicesindaco e ai carabinieri, affonda la sanità penitenziaria reggina. “La problematica più grave e complessa – dice – è rappresentata da un presidio sanitario che risulta sempre meno garantito. Manca la copertura infermieristica sulle 24 ore, il personale medico è del tutto insufficiente, non c’è un gabinetto radiologico, la specialistica necessita di implementazione”. Erminia, sorella di Saladino, aveva già denunciato: “Mio fratello stava male, aveva la febbre e vomitava. L’ambulanza è stata chiamata quando per lui non c’era più nulla da fare”. L’assistenza fuori dal carcere è quasi inesistente. L’azienda ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria, solo per citarne una, dispone di 2 soli posti letto per oltre 600 detenuti: in tutta la regione sono 4. Solo che la Calabria non è un caso a sé. E forse non è nemmeno il peggiore. Da Nord a Sud sono appena 133 i posti riservati dagli ospedali italiani a chi è in carcere: e i detenuti sono più di 59mila. Alcune regioni, poi, non ne hanno nemmeno uno. Lombardia, Veneto, Sardegna. Così i tempi di attesa per un intervento chirurgico sono interminabili. Si arriva anche a 5 anni. Non va molto meglio per le visite specialistiche: da un minimo di uno a due anni. Con l’aggravante che le cartelle cliniche digitali sono un miraggio, girano solo scartoffie che spesso si perdono. Così quando un detenuto viene trasferito nessuno può assicurargli la continuità terapeutica, e tutto riparte da zero. “La situazione è drammatica – scandisce Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania –. Ricevo una media di 15 lettere alla settimana dai detenuti. E il primo problema è sempre quello della salute. Per un ecodoppler attendono un anno e otto mesi, per una visita ortopedica due anni…”.
Nel frattempo nei tribunali si impilano i fascicoli sulla malasanità in carcere: nove medici, compreso un perito, imputati di omicidio colposo a Siracusa per la morte di Alfredo Liotta, deceduto nel luglio del 2012 nel carcere di Cavadonna; stessa accusa per otto guardie carcerarie e due medici di Regina Coeli per il suicidio di Valerio Guerrieri, 21 anni: soffriva di disturbi mentali, il giudice ne aveva disposto la scarcerazione ma era ancora in cella in attesa di essere ricoverato in una Rems, le strutture che hanno sostituito gli Opg. Il fatto è che i casi Liotta, Guerrieri, Saladino, sono solo la punta dell’iceberg. “Dopo il sovraffollamento oggi c’è un’altra emergenza: quella sanitaria”, conferma Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Antigone, associazione per i diritti dei detenuti. “La sanità in carcere non è affatto un corpo alla pari nel sistema sanitario nazionale”, ammette Luciano Lucania, presidente della Società di medicina penitenziaria. “Il personale scarseggia, Stato e Regioni latitano. Montagne di carte e iniziative e siamo al punto di partenza”. Il punto di partenza è la riforma che nel 2008 ha sancito il passaggio delle competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute. Sono passati dieci anni ed è un flop, con corredo di scaricabarile delle responsabilità. “Le competenze sono delle Regioni e delle Asl”, dice il ministero della Salute. Regioni e Asl, a loro volta, denunciano un conflitto tra le ragioni della sanità e quelle della sicurezza, che guidano un’amministrazione penitenziaria a corto di agenti (sono poco più di 32.300, dovrebbero essere 41.130). “Non c’è il personale, questa è la madre di tutti i problemi – dice Stefano Branchi, coordinatore Cgil degli agenti di polizia penitenziaria –. Per questo capita che non si riesca a trasferire un carcerato in ospedale perché mancano le guardie: ne servono due per un detenuto comune, almeno tre per uno sottoposto a regime speciale. Ogni guardia deve coprire più posti di servizio, una volta c’era un agente per ogni sezione con 50-60 detenuti, adesso è costretto a sorvegliarne tre”. L’ultimo bando ministeriale permetterà l’assunzione entro la fine dell’anno di 1.500 agenti, il ministero assicura che farà scorrere le graduatorie per reclutarne altri 1.300. “Ma sono del tutto insufficienti. E il ministero della Giustizia ci dice che mancano le risorse economiche”, aggiunge Branchi.
Oggi tra le malattie più diffuse in carcere ci sono quelle psichiatriche, oltre il 40% dei detenuti soffre di disturbi mentali. Poi ci sono le patologie infettive correlate all’epatite C. Ma non funzionano nemmeno i presidi sanitari che avrebbero dovuto essere un esempio, come il Sestante, il reparto psichiatrico aperto nel 2002 nella casa circondariale di Torino. Il garante nazionale, Mauro Palma, lo ha ispezionato due volte in un anno, l’ultima pochi mesi fa. Trova “sporcizia diffusa, muffa sulle pareti, nessuna doccia interna, servizi igienici a vista, materassi in pessime condizioni, letti privi di lenzuola”. Quando fa il secondo controllo la situazione è persino peggiorata. Si imbatte anche in una cosiddetta “cella liscia” per i detenuti con disturbi psichici in fase acuta. Un’eredità dei manicomi. È completamente vuota, scrive Palma, in condizioni “assolutamente inaccettabili”. “Non sappiamo – spiega Michele Miravalle di Antigone – in base a quali regole un detenuto viene rinchiuso in questo tipo di cella, quante volte viene visto da un medico. E se c’è una necessità di contenimento, questa andrebbe affrontata in un quadro di garanzie”. C’è chi nelle celle lisce è stato rinchiuso anche per più di 20 giorni, anche se dovrebbe essere utilizzata per un massimo di 36 ore. Questo tipo di celle sono più d’una nel nostro sistema carcerario. E, in questo caso, “il confine tra legalità e illegalità è sottile”.

Il Fatto 22.11.18
Famiglia De Benedetti. Il potere della stampa, soldi dalle banche e dagli enti pubblici
I giornali sono in perdita, ma le cliniche convenzionate fanno utili. E se le cose non vanno – come nel caso Sorgenia – ci pensa Mps
di Fabio Pavesi


Chiamansi “benefici indiretti del controllo”. Ogni padrone di giornali questo motto lo conosce a menadito. Con l’editoria (almeno in Italia) non si è mai diventati ricchi. Tantomeno negli ultimi 10 anni di crisi. Ma avere un giornale ti dà un potere che va al di là della mera contabilità. Uno strumento formidabile di pressione. Puoi blandire per ottenere favori negli altri campi in cui operi; puoi silenziare tutto ciò che riguarda le tue altre attività. L’editore impuro è questa cosa qui. E sul podio dei padroni della stampa con interessi molteplici si erge di diritto la famiglia De Benedetti. Con l’ex gruppo Espresso Repubblica divenuto Gedi dopo la fusione con l’Itedi degli Agnelli che ha portato in casa La Stampa e il Secolo XIX. Sotto il cappello del regno di Repubblica-Espresso (con una decina di testate locali più tre radio nazionali) c’è molto di più. Il gruppo Cir-Cofide che controlla Gedi sta su altre due gambe: la componentistica auto con Sogefi e la sanità privata con Kos e le sue 81 tra residenze per anziani e strutture mediche (8 mila posti letto).
C’era fino a qualche anno fa una propaggine, una volta gioiello della corona e finito miseramente come pacco-dono alle banche creditrici, che era Sorgenia. Le centrali elettriche che la Cir possedeva e che, entrate in crisi, sono divenute il più grande smacco bancario della storia recente. Già perché la famiglia degli imprenditori-editori, una volta compreso il disastro cui andava incontro Sorgenia, anziché farsene carico hanno rifilato il pacco miliardario alle banche creditrici. Divenute obtorto collo azioniste del gruppo in crisi. La storia della beffa di Sorgenia non la troverete certo sui giornali di casa che riportavano la vicenda in poche righe in cronaca e senza il coup de théâtre dei De Benedetti. Sorgenia va in crisi per eccesso di offerta, cadono i ricavi si producono le perdite. Nel 2013 fa un buco di 537 milioni. È il clou di una crisi che viene da lontano. Il paradosso è che più le cose vanno male più Sorgenia viene finanziata arrivando a cumulare 1,85 miliardi di prestiti. E non c’è da stupirsi, chiamandosi De Benedetti, che la banca più esposta con oltre 600 milioni sia Mps. Ma i De Benedetti (Rodolfo in testa, l’ideatore di Sorgenia) hanno già pronta l’exit strategy: nel 2013 azzerano il valore di Sorgenia nel bilancio di Cir, mossa propedeutica all’abbandono. Serve capitale. Nel 2014 le banche chiedono che la famiglia metta almeno 150 milioni. I De Benedetti non tirano fuori un euro e le banche si ritrovano la Sorgenia in odore di crac. Non avevano i soldi? Qui la tragedia si trasforma in farsa. Sempre nel 2013 i De Benedetti incassano 344 milioni dalla Fininvest che ha perso il lodo Mondadori. Non solo, la Cir era comunque piena di liquidità per 538 milioni. Cdb se la tiene stretta alla faccia di Sorgenia. Finisce che le banche (Mps in testa) fanno il salvataggio, i De Benedetti escono del tutto, deconsolidano da Cir quasi 2 miliardi di debiti e si ritrovano senza guai e con tanta liquidità.
Che dire di Kos? Il gruppo con le sue residenze per gli anziani fattura quasi mezzo miliardo, ha margini vicini al 20% dei ricavi e utili nel 2017 per 29 milioni. Un affare. Che deve buona parte della sua forza al rapporto stretto con il pubblico. Le sue strutture sono convenzionate con il Sistema sanitario e il 63% del suo mezzo miliardo di ricavi arriva da Regioni e Comuni. Non contenti, i De Benedetti cercano ancora la sponda pubblica. Il fondo healthcare di F2i compra nel 2016 il 46% di Kos sborsando 292 milioni. Così la famiglia usa meno capitale e condivide il rischio con il fondo pubblico.
E poi ecco Gedi. O meglio l’ex gruppo Espresso. È aperta un’inchiesta giudiziaria su un eventuale abuso dei prepensionamenti “facili” (a spese dell’Inps) del gruppo e della Manzoni, la concessionaria di pubblicità. Ma al di là dell’inchiesta, resta il fatto che il gruppo ha usufruito tra il 2012 e il 2015 di consistenti prepensionamenti di poligrafici e giornalisti, avvalendosi degli stati di crisi. Un altro regalo alla famiglia. L’unico bilancio in rosso per il gruppo è quello del 2017 per 123 milioni. Pesa la chiusura di una lite fiscale, finita in Cassazione, e che riguardava atti elusivi nella fusione addirittura del 1991 tra l’editoriale Repubblica e la Cartiera di Ascoli. Il fisco chiedeva 389 milioni, la Gedi alla fine ha chiuso il contenzioso con 175 milioni, di cui 140 pagati proprio nel 2017. E poi c’è l’avventura ingloriosa della quotata M&C, il fondo “salva-imprese”, che a detta dell’Ingegnere doveva investire in aziende in crisi, risanandole. Ai tempi fu presentata come una grande iniziativa che doveva coinvolgere anche il nemico di sempre, il Cavaliere. Alla fine M&C non ha salvato neanche se stessa. Di recente ha venduto il suo investimento nella tedesca Treofan portando a casa 30 milioni di perdite e cagionando ai soci di minoranza perdite sul titolo per oltre il 70% solo negli ultimi 4 mesi.
È nota pure la passione dell’Ingegnere per la finanza che pratica da trader smaliziato. Smaliziato e con accesso a informazioni privilegiate. Come non ricordare le visite a Palazzo Chigi e l’interesse sulla imminente riforma delle Popolari? Agli atti c’è l’intercettazione della Finanza in cui l’Ingegnere ordina il 16 gennaio (il venerdì prima dell’approvazione del decreto) al suo broker di fiducia l’acquisto di titoli delle Popolari che sarebbero state rivendute subito dopo fruttando una plusvalenza in pochi giorni. Un mordi e fuggi da speculatore ben informato. Il veicolo delle sue operazioni di Borsa è la Romed. La Romed vive di compravendite di azioni e derivati. In 3 anni ha portato a casa oltre 80 milioni di utili. I titoli in pancia a Romed valevano 65 milioni nel 2015. Sono saliti a 96 milioni. Poi ci sono i derivati per 30 milioni. Cdb scommette su azioni e futures. Il metodo è da corsaro della finanza: compra le azioni, le dà in pegno alle banche da cui ottiene finanziamenti per comprare altre azioni. Nel frattempo l’operazione Gedi e la sua Stampubblica non sta dando i frutti sperati. I ricavi sono aumentati di oltre il 10% ma i margini sono scesi di un buon 5%. Le maggiori dimensioni non fanno reddito. E i De Benedetti hanno già messo le mani avanti. Annunciati tagli dei costi tra cui quelli del lavoro per decine di milioni. Magari chiedendo un nuovo stato di crisi e il paracadute pubblico.

il manifesto 22.11.18
Centri anti-violenza, «fondi inutilizzati e poca trasparenza»
Il report di Action Aid. Il totale delle risorse erogate dallo stato ammonta a 85.774.736 milioni di euro, ma i soldi effettivamente utilizzati sono soltanto il 35,9%
di Madi Ferrucci


I fondi destinanti ai centri-anti violenza sulle donne non arrivano nei tempi previsti e non c’è ancora una completa trasparenza dei dati sul modo in cui vengono utilizzati. Queste le conclusioni del report redatto da ActionAid Italia, che ha monitorato il totale dei fondi stanziati nel periodo 2015-2017.
Secondo il rapporto il totale delle risorse erogate dallo stato ammonta a 85.774.736 milioni di euro, ma i soldi effettivamente utilizzati sono soltanto il 35,9%, pari a 30.842.006 milioni di euro. Circa due terzi dei finanziamenti quindi non arrivano a destinazione e rimangono bloccati nelle lungaggini burocratiche. «I fondi in parte vengono stanziati direttamente dal Dipartimento Pari Opportunità alle regioni, le quali poi possono destinarle a loro volta a enti locali e centri anti-violenza; un’altra parte invece è arriva attraverso il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017 che li distribuisce con bandi erogati sulla base dei progetti presentati», dichiara Isabella Orfano; curatrice del Report.
Secondo Orfano nel primo caso il problema è principalmente la burocrazia; i vari passaggi da un ente all’altro hanno tempi troppo lunghi e questo ha una conseguenza diretta sulla possibilità di offrire i servizi necessari alle donne che ne hanno bisogno. Nel secondo caso, invece, oltre ai ritardi il problema riguarda la trasparenza: «Non è sempre facile capire nel dettaglio come vengono utilizzati i finanziamenti. Riuscire ad accedere a tutti i dati sarebbe invece importantissimo, è una questione di democrazia, conoscere la quantità delle risorse permette di capire in che modo migliorare il servizio», aggiunge.
Come si legge nel dossier nessuna delle regioni italiane ha un livello di trasparenza ottimale nella comunicazione delle informazioni riguardo ai fondi e questo provoca una crescente dispersione delle risorse.

il manifesto 22.11.18
Casa delle donne, ricorso al Tar contro lo sfratto
La Casa siamo tutte. Il consorzio di trenta associazioni femministe che gestiva l'ex convento di via della Lungara a Roma contro la revoca della convenzione decisa dalla sindaca Raggi
di Rachele Gonnelli


Ricorso al Tar contro la revoca della convenzione comunale per la gestione dell’ex convento seicentesco del Buonpastore. Il consorzio di 30 associazioni di donne che fino a luglio teneva aperto e vitale quello spazio come Casa internazionale delle donne va al contrattacco e impugna l’atto con cui la giunta della sindaca M5S Virginia Raggi le ha voluto sfrattare.
La memoria presentata da due avvocate – che sarà illustrata nel dettaglio oggi in conferenza stampa – ripercorre tutta la storia amministrativa della Casa contestando la diffida arrivata al consorzio un anno fa con cui il Campidoglio chiedeva il pagamento di fitti arretrati, rivalutati a prezzi di mercato in 35 anni senza sconti, per l’iperbolica cifra di 833.512 euro, in contrasto con l’affidamento delle chiavi del bellissimo e centralissimo palazzo, ristrutturato con i fondi del Giubileo 17 anni fa, da parte dell’allora sindaco Walter Veltroni, concessione poi prorogata dal successivo sindaco Gianni Alemanno. Le due motivazioni alla base del ricorso sono: «Violazione e falsa applicazione» dei regolamenti sull’affidamento dei beni immobili del Comune di Roma» e «incompetenza».
Le ricorrenti fanno notare – tra l’altro – la prescrizione già concessa del debito maturato 1983-94 (valutato 129 milioni) e chiedono il riconoscimento di crediti per manutenzioni e servizi alla città stimati in 535mila euro.
«Vogliamo transare – spiega Maria Brighi della Casa – e a parole anche la sindaca Raggi lo vuole ma poi neanche ci rispon de alla lettera, protocollata, con cui le chiedevamo un incontro».

Repubblica 22.11.18
“Aborto spontaneo, non ti curo" licenziato il medico obiettore
Napoli, rifiutato l’intervento d’urgenza in ospedale. La donna aveva rischiato di morire
di Giuseppe Del Bello


Napoli Medico obiettore licenziato dalla Asl. In tronco, per omissione di assistenza. A rischiare la vita è stata una donna incinta, alla 18esima settimana di gravidanza. Il camice bianco è uno specialista ginecologo, così contrario all’interruzione volontaria di gravidanza da spingersi fino al rifiuto di prestare soccorso a una paziente in gravi condizioni.
È accaduto a Giugliano in Campania, nel popoloso hinterland partenopeo. Sono le 2,45 della notte tra il 30 giugno e il primo luglio scorsi, quando Maria (nome di fantasia) approda al pronto soccorso dell’ospedale San Giuliano. Di turno di guardia per il reparto di Ostetricia e Ginecologia c’è il dottor G. D. C. La donna sta male, lo capiscono subito l’infermiera e l’ostetrica che la accolgono. Chiamano il medico, lo avvertono della paziente appena arrivata, lui fa spallucce. Ricorda a entrambe di essere obiettore e quindi di non poter intervenire. A nulla valgono le insistenze di chi gli rappresenta urgenza e gravità della situazione. Si gioca tutto sul filo dei minuti. Alle 3,12 Fatima Sorrentino, l’ostetrica, telefona a un altro medico, Crescenzo Pezone. Lui non è di turno e nemmeno reperibile, spiega da casa, ribadendo che il collega già presente in ospedale è obbligato ad assistere la paziente. L’ostetrica ci riprova, ma riceve un altro rifiuto: « Il caso non è di mia competenza. Chiamate Pezone » . E a questo punto Pezone si infila in macchina e raggiunge l’ospedale. Arriva in un baleno. Gli basta poco per inquadrare lo stato clinico di Maria. Non può aspettare altro tempo. E così interviene al posto del collega. Ed è ancora Pezone che dopo qualche giorno scrive ai vertici della Asl Napoli 2 Nord da cui dipende il presidio ospedaliero. Fa il resoconto di una notte che poteva finire in tragedia. Dalla sua relazione si legge che la donna era «in travaglio. E di questa circostanza l’ostetrica aveva informato il dottor D.C. Pertanto, mi precipitavo in ospedale ( impiegando meno di dieci minuti) » . Poi entra nel dettaglio Pezone. Descrive la patologia acuta di Maria: « Mi resi conto che avendo già espulso il feto privo di attività cardiaca, doveva subito essere trasferita in sala parto. Chiamato l’anestesista di guardia, il dottor Ciccarelli, in anestesia generale procedevo…. ». È la cronistoria, precisa il medico nella relazione « che ritengo di dover riferire a chi di dovere ».
E in questo caso, la risposta della Asl è stata dura. Prima è stata istruita la commissione di disciplina che, dopo aver sentito le testimonianze, sia del personale ospedaliero di turno quella notte sia dello stesso dottor D.C, decide per la sanzione. La più severa, il licenziamento senza preavviso che viene immediatamente proposto al direttore generale dell’Asl, Antonio D’amore. Il manager la fa sua e la delibera diventa operativa.
Così chiude il caso Virginia Scafarto, direttrice sanitaria dell’Azienda: « La giustificazione addotta dallo specialista di guardia inadempiente non è stata ritenuta valida. Voleva far intendere che infermiera e ostetrica non lo avessero avvertito. Insomma che loro avevano mentito e lui diceva il vero. E questo non è risultato dall’indagine » . Tra l’altro, secondo la ricostruzione della storia clinica emerge che l’aborto farmacologico era già in fase avanzata e che quindi il ginecologo non avrebbe potuto appellarsi all’obiezione. Sarebbe bastato occuparsi dell’emergenza.
Commenta Silvana Agatone, ginecologa romana e presidente della Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per applicazione della legge 194): «L’obiezione di coscienza esenta dal compiere atti che inducono l’aborto, ma non esonera dal dovere di legge di prestare assistenza».

Repubblica 22.11.18
Arabia Saudita
Torturate le attiviste donne per il diritto di guida
di Francesca Caferri


Scosse elettriche, frustate, molestie sessuali: è quello che è accaduto - e, secondo fonti saudite ancora accade - alle attiviste arrestate fra maggio e luglio in Arabia Saudita: le donne, di età compresa fra i 20 e i 60 anni, sono le principali animatrici del movimento femminista che per anni si è battuto per dare alle donne il diritto di guida e le libertà personali oggi limitate dalla regola del guardiano, che impone a ogni saudita di dipendere da un uomo in ogni aspetto della vita. Eman al Nafjan, Aziza Yousef, Loujain al Atloun, per citare le più famose, secondo Amnesty International e Human Rights Watch non sono in grado di camminare e hanno segni di tortura sul corpo. Un altro durissimo colpo per l’immagine di riformatore del principe ereditario Mohammed Bin Salman, già accusato di essere il mandante dell’omicidio Khashoggi.

La Stampa 22.11.18
Il giallo del ragazzino travolto dal treno
Il 15enne ha atteso il convoglio giù dalla banchina, poi non è riuscito a evitarlo. Nell’area nessuna telecamera
di e. ran.


È un corteo mesto. Gruppi di persone che sbucano dalle via laterali di via Cavour, a San Giorgio su Legnano. Ragazzi, facce segnate di lavoratori più grandi, madri di famiglie con il velo, hanno tutti la stessa espressione attonita. Si infilano su un ciottolato tra due palazzi di case popolari di tre piani. La loro visita è un segno di rispetto nei confronti del loro imam. Da martedì sera, in questa casa color rosa, il figlio più grande del padre spirituale di questa comunità legnanese, non c’è più. E qui, tutti vogliono dare un segnale di vicinanza e di rispetto. Le visite durano un attimo e, poi, si riprende la strada d’uscita.
Abdul El Essaidi aveva 15 anni. Nato in Italia da una famiglia di origini marocchine, due fratelli e una sorella più piccoli, studente regolare di un istituto tecnico di Legnano. Nessuna segnalazione strana. Sui profili social, un ritratto sempre sorridente e una faccia da bravo ragazzo.
Martedì sera, poco prima delle 19, sceso dal treno che lo riportava a casa dopo l’allenamento di calcio, si era fermato con gli amici prima di rientrare a casa per cena. Lui e K., tredici anni, hanno iniziato a giocare sulla banchina tra il secondo e il terzo binario. Il gioco è degenerato. Quello che è successo dopo sembra non del tutto chiaro. Gli amici del quindicenne giurano che K. lo abbia sfidato in una prova di coraggio sui binari. Il ragazzo sostiene invece di essere stato lui a essere stato invitato a dare una prova di coraggio.
Abdul, ed è certo, è sceso tra le rotaie, si è sdraiato invitando K. a fare lo stesso. I testimoni giurano che a quel punto, il quindicenne sarebbe stato ingannato dall’arrivo di due treni. Uno sul secondo binario che procedeva in senso opposto, lo avrebbe distratto e gli avrebbe impedito di accorgersi che sul terzo stava arrivando quasi in contemporanea il regionale Milano-Domodossola. Inutile la frenata di emergenza e la sirena di avvertimento azionata prontamente dal macchinista. L’impatto è stato letale. Abdul, secondo i testimoni, è stato investito dopo che si era alzato e tentava di raggiungere disperatamente la banchina, conscio del pericolo. Sapere oggi chi dice il vero, in realtà sembrerebbe davvero poco importante.
La procura di Busto Arsizio ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Al momento contro ignoti. Con buona probabilità, il fascicolo al momento sembra destinato a una probabile archiviazione. Qualsiasi sia stato il comportamento del tredicenne, non è comunque imputabile. Su quel lato decentrato della stazione, inoltre, non ci sono telecamere. E questo non aiuta a ricostruire l’esatta dinamica.
È stato comunque un gioco folle finito male, ma soprattutto un caso isolato? Nella piccola stazione di Parabiago giurano di sì. Nella stanzetta angusta dei capistazione, non risulta che quella sfida folle che si è consumata martedì sera, fosse mai successa prima.

La Stampa 22.11.18
L’amico ritorna sui binari della tragedia
“Non l’ho sfidato, voglio morire anch’io”
di Emilio Randacio


«Io non ho sfidato nessuno. È stato Abdul a dirmi se avevo il coraggio di coricarmi sul binario». Urla, si agita dentro al suo piumino scuro, mima quello che è successo poche ore prima sulla banchina della stazione di Abbiategrasso, a due passi da Legnano. Lui è K., e grazie anche a una mole imponente, dimostra molti più anni di quelli che ha: 13. Martedì sera è stato l’amico più vicino ad Abdul, il ragazzo di origini marocchine di due anni più grande, falciato sul terzo binario dal treno regionale Milano-Domodossola.
K. rivive quello che è successo, muove le mani, ripete le frasi dette in quell’istante. «Non sono stato io», ribadisce alzando la voce a quattro agenti della Polfer che tentano di ricostruire la tragedia. Intorno, la madre di K., cerca di placarlo e un gruppo di amici, increduli, ascoltano silenziosi. La donna si spiega, media agitando le braccia. «Quando sono arrivata in ospedale, la madre di Abdul si è rivolta contro di me, accusandomi. Ma mio figlio non ha fatto nulla». È un istante, e K., ancora tramortito dai tranquillanti somministrati in ospedale, sbotta in «allora ora voglio morire anche io». E cerca di lanciarsi sulla fondina con pistola di un agente per cercare di sfilargliela. Una mossa tanto spettacolare quanto, per fortuna, inutile.
L’allenamento
Abdul martedì sera era tornato da Legnano in tenuta da allenamento, con la sua sacca su una spalla. Giocava a calcio. Prima di rientrare a casa a San Giorgio su Legnano, si era fermato in stazione con un gruppo di amici. Conosceva K., si sono messi a giocare, fino a quella sorta di sfida. Su chi ha proposto cosa, le versioni si dividono. Gli amici di Abdul accusano K, lui si difende e giura di aver subito il gioco, con il senno di poi, rivelatosi tanto stupito quanto fatale. In mezzo, gli agenti di polizia vestono i panni di mediatori. Si raccomandano di non degenerare, cercano di fare capire che quello che è successo non è altro che una tragedia. E lo è per tutti.
Il tredicenne, martedì sera, una volta passato il treno, è stato il primo a raggiungere l’amico. Sconvolto, ha preso sui binari la testa di Abdul tra le mani, con la speranza di salvarlo, gli ha parlato, lo ha implorato di svegliarsi. Tutto inutile. All’arrivo dei soccorsi, è stato caricato su un’ambulanza pieno di sangue, mentre uno dei fratelli della vittima con degli amici, si sono scatenati contro il tredicenne, cercando di fargliela pagare. K. è arrivato in ospedale completamente sconvolto. In stato di choc è rimasto in osservazione tutta la notte, fino quando, ieri all’alba, la madre lo ha riaccompagnato a casa, firmando le dimissioni. Durante il suo ricovero - lo attestano i medici e gli infermieri che lo hanno seguito -, K. ha tentato per ben tre volte un gesto estremo.
La disperazione
Una disperazione che non gli ha dato pace fino a ieri. Tanto da non resistere a tornare in stazione. Erano in tanti, ieri mattina, che come lui si sono ritrovati su quei binari. Amici e amiche che si consolavano a vicenda, quasi increduli per quanto successo. «Se ci fossi stata io non sarebbe successo», garantisce una ragazza sui 14 anni, appena uscita da scuola. Parla asciugandosi le lacrime sulle gote. «Abdul non era bravo, era bravissimo. Se avessi visto cosa facevano, sarei andata io a prenderli a schiaffi per tornare in stazione».
È un coro unanime che si alza da questi ragazzi multietnici di Parabiago. «Non fumava, non usava droghe», il ritratto postumo. Ma soprattutto, tutti garantiscono che Abdul non era avvezzo alle mattane, alle sfide folli. «Gli piacevano gli scherzi, ma aveva la testa sulle spalle», garantisce un’altra ragazza. Ed è per questo che qui tutti i giovani che lo conoscevano, stentano a credere a ciò che è successo.

Repubblica 22.11.18
Quelle vite espropriate degli ebrei italiani
di Simonetta Fiori


Un gigantesco saccheggio di aziende, attività, proprietà mobili e immobili, conti correnti, e appartamenti L’ente che se ne occupò, l’Egeli, fu soppresso soltanto nel 1997

Il nuovo saggio di Fabio Isman racconta le persecuzioni seguite alle leggi razziali e la macchina pubblica che si impadroniva dei beni delle vittime Dai piccoli oggetti alle case, tra cui la villa che ora appartiene a George Clooney
Lo saprà George Clooney? La sua villa sul Lago di Como, quella a cui si accede dalla darsena privata, è una delle dimore più sontuose della Grande razzia. Potrebbe esserne il simbolo oltre che la location per un film a sfondo storico. È facile immaginarne la prima scena: l’approdo a Villa Oleandra del divo hollywoodiano, con contorno glamour di amici e collaboratori. E poi si va a ritroso nel tempo, fino ad arrivare all’intellettuale che l’abitava negli anni Trenta del Novecento, Emilio Vitali, pittore provvisto di passione per la musica. I suoi ritratti di Renata Tebaldi e Franco Corelli sono tuttora esposti in diversi musei. Ogni estate Emilio amava trascorrere i giorni più caldi nella sontuosa magione settecentesca, ricevuta in eredità dal nonno. Ma il 10 novembre del 1944 fu espropriato di tutto, anche dei due conti correnti e delle ottantuno azioni della Banca Popolare di Milano. Derubato dallo Stato fascista, come i quasi cinquantamila ebrei colpiti dalle leggi razziali.
Quella orchestrata tra il 1938 e il 1945 – con un progressivo incrudelimento di leggi, decreti, circolari, disposizioni – fu una spoliazione sistematica e minuziosa mossa dallo Stato fascista con l’intenzione esplicita non soltanto di espungere gli ebrei dalla vita civile ma di ridurli alla fame, «di annullarne qualsiasi potenziale economico», di vessarli sul piano morale oltre che materiale. Un gigantesco saccheggio di aziende, attività, beni mobili e immobili, conti correnti, case, appartamenti, arredi, gioielli, rimasto per svariati decenni in penombra, spinto ai margini della memoria collettiva dal ricordo più lancinante dei lager, delle carneficine, del sangue versato. E su quella razzia contribuisce oggi ad allagare il fascio di luce il prezioso saggio di Fabio Isman, 1938, l’Italia razzista (il Mulino). I documenti della persecuzione contro gli ebrei, frutto del lavoro sulla sterminata mole di carte raccolte dalla commissione parlamentare istituita nel 1998 per indagare sulle proprietà sottratte.
Seppure impressionanti, le cifre non bastano a quantificare il grande bottino: la somma complessiva derubata, calcola Isman, si aggira intorno ai 150 milioni di euro. Ma più degli espropri milionari, dei ladrocini commessi sulle grandi aziende del Nord o sui palazzi pregiati o sulle collezioni d’arte, colpiscono la ruberia minuta, le liste delle piccole cose dettagliatamente compilate dai saccheggiatori mandati dalle province, dalle prefetture o dalle varie articolazioni dello Stato fascista, elenchi che includono "mutandine sporche", "lettini di ferro" "una carrozzina", "una camicia strappata", "quaranta bottiglie vuote", "una bicicletta Bianchi senza ruote". «Nessuno fu risparmiato», sintetizzò vent’anni fa la presidente della commissione Tina Anselmi. «Né i ricchi né i poveri, né i commercianti né le aziende industriali, né chi disponeva di pacchetti azionari né chi aveva un modesto conto bancario». O per dirla con Elie Wiesel a proposito dei nazisti «fu strappata la ricchezza ai ricchi e ai poveri la povertà». Non si trattò solo di un affare di denaro, ma di una mortificazione collettiva che non aveva precedenti: insieme alle case si perdevano ricordi, vissuti, intimità.
La Grande razzia poté contare su un apparato amministrativo che ruotava intorno all’Egeli – l’ente responsabile della gestione e delle vendite delle proprietà sequestrate – ma fu favorita anche dalla cattiva coscienza di chi vi colse occasione d’affari e dall’indifferenza di coloro che assistettero alla spoliazione senza fiatare. E se la catena di responsabilità nella persecuzione degli ebrei italiani è stata illustrata con grande efficacia da Simon Levi Sullam – dai travet che redigevano gli stati civili ai dattilografi che riportavano gli ordini – Isman ripercorre la galleria dei burocrati di Stato che beneficiarono delle vendite, degli antiquari pronti a far commercio con gli aguzzini, dei privati cittadini che non esitarono a entrare in possesso di case, biancheria, pellicce, stoviglie argenteria, quadri, tappeti o anche solo a partecipare al libero assalto di un negozio ebreo (capitò a Trieste nel negozio di abiti del padre di Fiorella Kostoris, dove sopravvisse al furto solo un bottone). O anche di quanti facevano domanda al ministero delle Finanze per essere nominati amministratori dei beni sottratti alle vittime: che carriera! Sono innumerevoli le storie di corruzione, cinismo, tradimento e torpore morale in un Paese in cui la classe intellettuale – quella che dovrebbe maggiormente tenere a freno gli istinti ventrali – si precipita a ricoprire con soavità le cattedre lasciate dai professori ebrei espulsi. E Isman fa bene a ricordare che, su 896 docenti universitari chiamati a sostituire gli ebrei, Massimo Bontempelli fu l’unico a opporre un rifiuto. E che ci sono voluti ottant’anni perché l’università italiana chiedesse scusa (è accaduto quest’anno nell’ateneo di Pisa).
Storie di vita – moltissime quelle di morte – senza un epilogo confortante. Perché nel dopoguerra sarebbe stata restituita solo una parte di quel patrimonio. E a prezzo di estenuanti trafile che ebbero anche un costo in danaro. Con un particolare che acquista un sapore grottesco: agli ebrei depredati l’Egeli richiese le spese di gestione, come se un bandito presentasse all’ostaggio liberato anche il conto dei pasti consumati durante il sequestro (la faccenda si chiuse solo nel 1962). E per fotografare le difficoltà con cui lo Stato democratico fece i conti con questa mostruosa ruberia, può bastare una data: l’Egeli è stato soppresso solo nel 1997, praticamente ieri.
Il libro di Isman è molto bello non solo per la mole della documentazione, ma per la passione che vi palpita. Dietro ogni carta, provvedimento, esproprio c’è una esistenza spezzata, o comunque privata della libertà e dell’identità.
Come quella dei suoi genitori che furono salvati dal tenente Giorgio Cevoli: il suo nome ora figura allo Yad Vashem tra i Giusti.
Quanto a Clooney, può godersi sereno la sua villa. Nel dopoguerra fu restituita al pittore Vitali, che vi trascorse parte della vecchiaia. Non sappiamo se negli ultimi mesi di guerra abbia ospitato qualche divisa nazista, ma questo può essere lasciato alla libera immaginazione dell’attore-regista dal quale non ci resta che attendere il film.
Potrebbe essere anche l’occasione per un nostro atto pubblico di scuse. In Italia ancora non c’è stato.

Repubblica 22.11.18
È stato perseguitato? Fornisca le prove
A Memo M. lo Stato ha chiesto di dimostrare quanto subito nel ’ 44
di Matteo Pucciarelli


LIVORNO Pazienza se da quella persecuzione sono passati più di 70 anni, ci servono adesso, «entro 60 giorni», due testimonianze dirette vidimate da un notaio. Firmato: ministero dell’Economia. Allora lei, la vittima, nel 1944 tenuta nascosta per circa un anno dentro una legnaia in un paesino del monte Amiata, torna in quelle case e ritrova i superstiti della famiglia che la ospitò insieme ai genitori.
Dopo che Repubblica ha raccontato la storia di quattro cittadini di religione ebraica alle quali la Corte dei conti ha negato l’assegno di benemerenza – cioè un risarcimento che lo Stato concede alle vittime della persecuzione fascista (507 euro al mese per ognuna, pari all’assegno minimo dell’Inps) – perché in sostanza le persone coinvolte erano troppo piccole per averne la cognizione, il signor Memo M. ci ha contattato per mostrarci le carte relative alla pratica della sorella, Graziella, nata nel 1939. È morta tre anni fa. Però quando era ancora viva, nel 2014, incredibilmente il Mef le chiese di produrre delle testimonianze a riprova della fuga da Livorno della loro famiglia.
Testualmente, scrisse il direttore dell’ufficio competente Marco Pierlorenzi, «la si invita a documentare la circostanza di essersi rifugiata presso la famiglia di Domenico V. (…) con atto notorio reso da due testimoni delle famiglie ospitanti oppure da due testimoni che si sono nascosti insieme alla signoria vostra ed alla sua famiglia».
Come fosse un fatto accaduto l’anno prima. «Una richiesta assurda, probabilmente contando sul fatto che fossero tutti già morti», dice Memo.
Comunque sia, lui e Graziella armati di pazienza (ri)partirono da Livorno, (ri)arrivarono a Vivo d’Orcia dove si rintanarono coi genitori e i nonni e si misero alla ricerca di possibili testimoni.
Alla fine ne trovarono ben sei: Edda P., Orlando C., Ottorino R., Ivo B., Mirella V., Adolfo B., tutti ultraottantenni ma loro coetanei e vicini in quei dodici mesi vissuti da fantasmi. «In realtà non fu difficile perché il paese è minuscolo e si sparse subito la voce del nostro arrivo e della nostra richiesta.
Rivedemmo tutti insieme anche la legnaia. Ora è stata sistemata, è uno dei locali di un bellissimo casolare», racconta Memo.
Nella frazione in provincia di Siena, 500 abitanti a quasi mille metri, rammentavano ancora quella famiglia livornese protetta segretamente con la complicità del podestà fascista, il conte Tommaso Cervini. Se ne ricordavano anche perché nei 14 anni successivi alla guerra i M.
tornarono tutte le estati proprio lì, quasi per riconoscenza verso quei luoghi e quelle persone che non li tradirono mai. Quando sempre nel ’44 si seppe che a breve ci sarebbe stato un rastrellamento della "Generallieutenant" delle Waffen SS, il conte avvertì i quattro. «La famiglia allora scappò a Montecatini val di Cecina – si legge in una ulteriore testimonianza allegata alla pratica – col padre che si unì ad un gruppo di partigiani. Quando poteva si riuniva coi familiari fingendosi gobbo e zoppo, appoggiandosi a un bastone».
La famiglia M., che come altre migliaia di "razza ebraica" durante il fascismo perse qualsiasi cosa, molte di queste anche la vita, anni fa ha avuto un risarcimento dalla Germania.
Ma non dall’Italia, che invece ha preferito puntare sullo sfinimento dei ricorrenti a suon di sentenze e ricorsi conditi da banalizzazioni storiche con linguaggio freddo e burocratico. «Non sapevamo nemmeno di aver diritto, insieme ai perseguitati politici di quegli anni, di questo assegno – continua Memo – e ne facemmo richiesta solo quattro anni fa.
Per noi non era e non è una questione di soldi. Ma di riconoscimento di una chiara responsabilità e di una verità storica». Graziella alla fine vinse la sua "sfida con lo Stato", come la chiama oggi il fratello. Lui no. Appunto: avendo nel biennio ’44-’45 pochi mesi, non era in grado di comprendere la propria persecuzione, sempre secondo i magistrati contabili con un pronunciamento del 25 settembre scorso. «Eppure – chiosa Memo – migliaia e migliaia di bambini furono uccisi nei campi di concentramento. Erano troppo piccoli per capire? Se è così anche una persona affetta da una malattia mentale, non essendo pienamente cosciente, può quindi subire una privazione o violenza?».

Repubblica 22.11.18
Le chiamano "The Squad", la Squadra
Appena arrivate nella capitale stanno già rivoluzionando comunicazione e lotta politica Ecco come
La "gang" delle donne Dem pronte a sfidare Washington
di Anna Lombardi


Alexandria, Ilhan, Ayanna, Mikie e le altre democratiche del mucchio. La più giovane eletta al Congresso, la prima rifugiata, la prima nera a vincere il seggio che fu di Jfk e la veterana che fu la prima elicotterista donna al fronte sono approdate a Washington. E anche se la legislatura non è ancora iniziata, le "fantastiche quattro" — Alexandria Ocasio Cortez, Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Mikie Sherrill — che Repubblica ha seguito durante le elezioni di midterm si stanno già facendo notare. Partecipando a proteste contro la leadership del partito, mettendo in discussione le regole del Congresso, usando spregiudicatamente i social. «Di solito i neoeletti fanno quel che dice il Partito. Ma queste donne hanno sconfitto l’establishment alle primarie dimostrando di farcela da sole. Porteranno avanti le loro agende senza chiedere troppi permessi», ci dice Erin O’Brien, politologa dell’università del Massachusetts. Durante il Congressional Progressive Caucus orientation, sorta di corso d’orientamento per matricole della politica, si sono fotografate insieme, postando gli scatti con l’hashatg #TheSquad, la squadra, a indicare che lavoreranno in gruppo. In prima linea, manco a dirlo, Ocasio Cortez, la millennials socialista newyorchese che soffiò la nomination a quel Joseph Crowley che tutti pensavano destinato a sostituire Nancy Pelosi alla guida dei democratici. Nel suo primo giorno a Washington, martedì, si è unita a 200 attivisti che presidiavano l’ufficio della Pelosi — che è a caccia dei voti necessari a farsi nuovamente nominare speaker della Camera — per chiederle impegni concreti sull’ambiente. Per poi spiegare, quella sera stessa, le ragioni del suo atto irriverente in un video su Instagram: «Ti hanno nominata al Congresso... e ora?» — dove parlava di politica riempiendo la lavatrice. Primo di una serie di video che ha usato per rispondere a quei commentatori di destra che su Twitter l’attaccano per gli abiti costosi che indossa: dimostrando che lei li compra, altro che lusso, ai mercatini dell’usato. Nel mirino della destra è finita anche la collega di Minneapolis, Ilhan Omar, che i troll accusano di essere entrata illegalmente in America addirittura sposando il fratello. Ma lei, arrivata negli Usa a 12 anni con la famiglia, non si lascia intimidire. È determinata a portare in aula il velo che indossò all’indomani dell’11 settembre, dopo i linciaggi virtuali ai musulmani d’America, ha già chiesto di modificare un regolamento vecchio di 181 anni, secondo cui nessun deputato può accedere col capo coperto.
Ayanna Pressley, prima donna afroamericana eletta nella pur democraticissima Boston, ha esordito sfidando via Twitter la ministra dell’Istruzione Betsy DeVos che cerca di alleggerire le norme anti stupro nelle università: «Hello Mrs. DeVos, mi permetta di presentarmi. Sono appena arrivata a Washington per onorare la promessa di combattere in nome delle vittime di violenze sessuali. Inchioderò il governo alle sue responsabilità».
Una promessa è una promessa anche per l’ex elicotterista che arriva dal New Jersey, Mikie Sherrill: più centrista rispetto alle colleghe, ha formato con le altre veterane elette un gruppo per il dialogo bipartisan. Sì, le nuove leve dem sono arrivate e sono pronte a distinguersi dal mucchio.

La Stampa 22.11.18
Un network di commesse militari con Israele
di Federico Capurso


Nelle ultime due settimane i rapporti tra Italia e Israele si sono intensificati, soprattutto sul piano degli scambi militari.
Domani sarà a Roma il segretario generale della Difesa israeliano per incontrare il suo omologo italiano Niccolò Falsaperna. Sul tavolo c’è la volontà di accelerare su un progetto rimasto arenato a lungo, che riguarda la costruzione in Italia di un simulatore aereo, dotato di tecnologia proveniente da Gerusalemme, che verrà messo a disposizione dell’aeronautica israeliana. «Non sarà poi passato inosservato il nostro acquisto di droni da Israele e il loro acquisto di jet costruiti da Leonardo», commenta una fonte interna al governo. E si starebbe iniziando a trattare anche per una commessa da circa un miliardo di euro che Israele potrebbe pagare per l’acquisto di elicotteri militari costruiti da Leonardo, in cambio di un nostro acquisto per un sistema di radar trasportati a bordo dei jet militari, gli Airborne warning and control system.
Le trame dei rapporti economici e militari tra i due governi, dunque, si stanno sempre più infittendo. Dagli incontri a Tel Aviv in occasione della conferenza Homeland security & cyber, il 12 novembre scorso, all’evento culturale «Il coraggio della verità» che la settimana prossima si terrà alla Sal Zuccari del Senato, al quale dovrebbe partecipare il ministro per gli Affari strategici israeliano Cilad Erdan. Nelle ore successive all’evento culturale, spiegano fonti del governo italiano, sarebbero già stati organizzati una serie di incontri politici con Erdan e che coinvolgeranno soprattutto membri del governo di sponda leghista. Sia per cementare futuri accordi militari che per preparare la visita in Israele di Matteo Salvini, prevista per l’11 e il 12 dicembre. E sullo sfondo, l’idea accarezzata da Gerusalemme di aiutare il governo italiano ad alleggerirsi del peso del petrolio che viene importa dall’Iran.
La questione siriana
I dossier sono già tra le mani del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Sono stati informati gli Stati Uniti e anche Mosca, che avrebbe già dato il suo placet. Il governo di Vladimir Putin, al di là dei rapporti con Teheran, è interessato sopra ogni cosa alla stabilità di quell’area, dove Israele viene considerato da Mosca come un attore fondamentale per mantenere la pace. La stessa Russia inizia a soffrire l’eccessiva presenza delle truppe iraniane in Siria. Un impegno di Palazzo Chigi per infiacchire economicamente Teheran, al fianco di Israele, potrebbe così aprire un canale diplomatico per far entrare le aziende italiane negli accordi per la ricostruzione. Tutti tasselli che poggiano su scenari diversi, ma che costituiscono il disegno di uno stesso grande mosaico.

La Stampa 22.11.18
Jfk, il complotto del suo vice Johnson
di Francesco Semprini


L’Italia scrive una pagina significativa della vicenda dell’assassinio di Jfk: Aldo Mariotto, medico veneziano e storico appassionato, ha appena pubblicato da Pendragon The Day before Dallas: ideazione, organizzazione e cronaca dell’ultimo viaggio di John Fitzgerald Kennedy. Un omicidio all’ombra di Lyndon Johnson. Un’opera che gli è valsa un primato d’eccezione, come primo e unico italiano invitato al «Jfk Lancer», la Convention che ogni anno si tiene in coincidenza dell’anniversario di quel 22 novembre 1963.
L’autore ha articolato il libro in due parti: «La prima, quella più innovativa, sviluppa la tesi secondo cui l’allora vice presidente Lyndon Johnson ha avuto un ruolo nell’assassinio assieme ad Albert Thomas di Houston, deputato molto importante, capo commissione che regolava la spesa federale e controllava il budget della Nasa per la Camera». Secondo le ricostruzioni, dietro il complotto c’era l’interesse ad assicurare una serie di finanziamenti eccellenti allo Space Center di Houston.
La seconda parte si basa sulla ricostruzione del giorno prima l’assassinio, dal momento in cui Kennedy partì alla volta del Texas. «In questo caso la sfida è stata quella di far emergere la personalità del presidente in un giorno solo della sua vita», spiega Mariotto, «un microcosmo in un macrocosmo in cui mi sembra che siano emerse tutte le sue caratteristiche, come vivere ogni giornata al massimo con intelligenza, humour, determinazione ma anche freddezza».
Il tutto sullo sfondo dell’assassinio, che però è solo sfiorato nella narrazione. «Gli studi sono durati dieci anni», prosegue l’autore. «Ho avuto la fortuna di incontrare molti testimoni dell’epoca, dal segretario McNamara al dottor Ronald Coy Jones, che soccorse Kennedy dopo la sparatoria, dal tecnico che eseguì l’autopsia al musicista che suonò per la “first couple” alla vigilia dell’assassinio».
Una corrispondenza inedita tra il 19 aprile e il 25 maggio 1963 mostra il solo coinvolgimento dell’ufficio di Johnson in quel viaggio di novembre, mentre il vice presidente ha sempre negato ogni ruolo, dicendo che l’organizzazione della visita era stata fatta interamente da Jfk. Il viaggio a Dallas fu annunciato dallo stesso Johnson il 23 aprile di quell’anno durante l’incontro annuale alla Nasa, in un mese in cui trascorse 22 giorni su 30 proprio in Texas. «Potrebbe essere nato lì il progetto omicida», ipotizza Mariotto, il che spiega il suo lavoro investigativo citando Oscar Wilde: «Una domanda non è mai indiscreta, una risposta può esserlo».

Il Fatto 22.11.18
Nell’imbuto umano di Tijuana
Messico - In città i migranti sono 9 mila. Al terzo giorno di arrivi, i locali si riuniscono in chiesa: “Aiutarli? Il denaro serve ai nostri ospedali”
di Mariana Martínez Esténs


Tijuana è una città di cambiamenti, contrasti e grandi movimenti di persone. Così è nata e su quest’onda ha proseguito la sua breve ma convulsa esistenza. Eppure questi ultimi sono stati giorni di prime volte: per la prima volta dopo anni si è svegliata con la garitta di San Ysidro – la torre di controllo più attraversata del mondo – chiusa. Il che ha creato gravi disagi ad almeno 50 mila persone che quotidianamente passano di lì per andare a scuola o al lavoro.
L’esodo di rifugiati centroamericani – erroneamente definito carovana –, è costituito per lo più da cittadini dell’Honduras. Stando ai dati del consolato honduregno, a Tijuana sarebbero arrivati 5 mila connazionali e se ne aspettano altri 9 mila nelle prossime settimane.
Perché scelgono Tijuana? Anche se raggiungerla significa oltre mille chilometri in più, continua a essere quella con più infrastruttura: dagli alloggi ai posti di identificazione, alla quantità di agenti addetti all’immigrazione. Inoltre qui è molto più basso il rischio di rapimenti da parte di bande criminali, se confrontata con la rotta del golfo che passa per gli Stati di Veracruz e Tamaulipas. Questo nonostante Tijuana stia passando uno dei peggiori momenti della sua storia quanto a omicidi, con 7 assassinii giornalieri di media e un sindaco indolente che risponde che gli omicidi “non sono una priorità in agenda” a differenza dell’arrivo dei centroamericani. “Queste persone si presentano qui con atteggiamento aggressivo, cantando, minacciando le autorità, facendo cose a cui gli abitanti di Tijuana non sono abituati”, ha spiegato il sindaco Juan Manuel Gastelum, soprannominato “El Patas” (satana, ndt), “tutto il Messico deve sapere che noi ne abbiamo abbastanza… alcuni di loro sono pigri, drogati… che roba è questa?”. Le sue dichiarazioni gli sono valse la risposta via Twitter di Trump: “Come Tijuana, gli Stati Uniti neanche sono pronti a questa invasione e non la sosterranno. I migranti stanno commettendo crimini e creano gravi problemi in Messico. Devono tornare a casa!”
L’arrivo: l’11 novembre è arrivato a Tijuana un gruppo di 77 membri della comunità Lgbtq, che con l’aiuto di donazioni private ha affittato delle case su Airbnb nella zona residenziale vicina a “la Playa”. I residenti li hanno accolti urlando. “Certo che ho una casa”, risponde Cesar Mejía, attivista honduregno e leader Lgbtq, “ma lei vuole che mi uccidano?”. Il giorno dopo sono arrivati in autobus altri gruppi, scortati dalla polizia federale e da associazioni per i diritti umani: quasi 5 mila persone che si vanno a sommare alle code di 2600 richiedenti asilo provenienti anche da spostamenti interni di persone in fuga dalla violenza in altre regioni del Messico. Circa 100 migranti – per lo più giovani uomini – hanno scelto di dormire in spiaggia per non andare negli accampamenti già stracolmi.
La terza notte gli abitanti della zona residenziale si sono riuniti di fronte alla chiesa. Una piccola delegazione è andata a protestare al commissariato di polizia e alla fine un centinaio di loro, infervorati, è tornato in spiaggia ad affrontare a brutto muso i migranti perché risalissero sugli autobus e se ne andassero. “Siamo una piccola comunità, quasi familiare, molti lavorano a San Diego, in California e i migranti ci stanno creando problemi quando usciamo con i bambini, ci sono persone che si drogano, altre defecano per strada”, dice Jahanna Pérez, una oculista che manifesta. “Non sono arrivati medici, avvocati, ingegneri, ma il peggio di quei Paesi, gente senza istruzione”. Il giorno stesso degli scontri a Playa è stato impedito l’ingresso ad autobus con 800 migranti, che sono stati fatti scendere al mattino presto in mezzo alla strada. “È dura, soprattutto perché ci sono molte donne e bambini”, spiega Narylin Cabrera, che racconta di aver preferito passare la notte sul ciglio della strada e riprendere il cammino il giorno dopo.
Il Comune ha aperto un centro sportivo vicino alla frontiera dove circa 3 mila migranti dormono in prefabbricati o in giacigli improvvisati da loro con coperte e corde. Qualcuno addirittura ha approntato dei veri rifugi con rami secchi. L’accampamento ha un solo bagno e visto che si tratta di distribuire cibo al meno due volte al giorno, non può reggere. Il sindaco e il governatore lamentano di non aver ancora ricevuto denaro dal governo federale. Si prevede che i richiedenti asilo passeranno dai 6 ai 18 mesi in città, mettendo un’enorme pressione allo Stato, al Comune e alla rete dei migranti. Le autorità stanno ricevendo gruppi da 80 o 90 richiedenti asilo al giorno. Di questo passo secondo il monitoraggio del sito Trac, solo tra il 4 e 10% riuscirà ad accedervi. “Sono arrivato in autobus per iscrivermi alla lista di richiedenti asilo”, dice Tomás Torres, salvadoregno arrivato con l’esodo, “ho preso il numero 1300 e mi hanno detto che aspetterò un mese, un mese e mezzo solo per poter presentare domanda”. Hanno organizzato anche una fiera del lavoro e l’ambasciatore di Honduras in Messico promette di aprire un consolato mobile per identificare i cittadini.
Lo scontro. Domenica mattina presto, circa 500 persone si sono date appuntamento nel centro finanziario della città per manifestare fino all’accampamento nel quale si trovano 2300 persone, tra cui 300 bambini. Una volta arrivati al campo i 200 manifestanti hanno provato a entrare con la forza. Tra di loro c’erano anche personaggi noti per la loro radicalizzazione. Questi agitatori di professione fanno leva sullo scontento sociale di persone come Bertha Alicia Rodríguez, infermiera con 21 anni di servizio. “Non vogliamo altri migranti, non ne possiamo più di violenza, se ne vadano pacificamente, auguriamo loro ogni bene, ma nel proprio Paese. Undici milioni di pesos per risolvere i loro bisogni? Perché non li impieghiamo negli ospedali, non abbiamo niente, neanche le garze”, assicura Rodriguez con un cartello che dice: “Basta migranti”.

La Stampa 22.1.18
La Via della Seta in Italia le mani cinesi su Trieste
di Paolo Possamai


Via della Seta. Nome morbido. Ma sostanza molto hard nello schema geopolitico che oppone Cina e Stati Uniti per il dominio del mondo e in specie per l’egemonia commerciale sull’Europa. Perché la Via della Seta punta a entrare nel cuore del Vecchio Continente, usando i varchi di accesso dei porti di Trieste e di Venezia. Lo dicono gli investimenti in atto e in programma.
Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità portuale di Trieste e Monfalcone, ha veicolato tramite Asia Times una tesi molto essenziale: «Il Porto di Trieste necessita di 1,2 miliardi di dollari di investimenti per sostenere il suo sviluppo, particolarmente nelle nuove zone franche. Investitori cinesi stanno trattando per coprire metà dei costi, anche se altri operatori stranieri hanno mostrato interesse da Kazakhstan, Azerbaijan, Turchia, Iran e Malesia».
I capitoli di sviluppo del porto giuliano sono legati ai nomi dei moli e di aree dismesse da decenni. Partita che potrebbe dare un orizzonte di sviluppo formidabile a una città altrimenti in declino. «Stiamo combattendo il declino – dice D’Agostino – e lo dicono numeri che ci proiettano a essere l’undicesimo porto europeo per volumi. Siamo diventati attrattivi e competitivi perché sotto a una sola autorità offriamo un sistema logistico integrato, fatto di banchine, interporti, zone franche, servizi ferroviari».
Il bacino non è l’Italia
La vera intuizione di D’Agostino, che da un paio di settimane è anche vice-presidente di European Ports Organisation, consiste nell’aver riconnesso lo scalo al suo vero bacino, che non è l’Italia ma i mercati europei centro-orientali. Lo sanno bene i cinesi. E ha rimesso in funzione la rete dei binari posati dall’impero asburgico, raddoppiando in un paio d’anni il volume dei treni che portano in Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. Tant’è che Viktor Orban, qualche giorno fa, ha dichiarato che l’Ungheria punta sul rapporto con Trieste e si sfila invece dal co-finanziamento della ferrovia collegata al porto sloveno di Capodistria. Mosse che ai cinesi non sfuggono, naturalmente. Così che non sorprende vedere tanti orientali intenti a studiare le carte portuali triestine. Perché risponde al criterio base degli investitori cinesi, racchiuso nell’acronimo Ppc: port, park (aree industriali), city. Significa che tutto il contesto deve essere attrattivo. Ecco perché guardano al raddoppio del Molo VII, terminal contenitori che richiede 200 milioni di euro di investimento e che per 60 anni è in concessione a una società al 50% di Msc (Aponte) e al 50% della To Delta di Pierluigi Maneschi. Un primario global contractor cinese sta trattando per entrare, con una quota di minoranza, in To Delta.
«In generale – commenta D’Agostino – rifiutiamo investitori solo finanziari. Prediligo chi porta traffici e si assume il rischio di costruire l’infrastruttura. Banche e fondi di investimento alla porta ne abbiamo a iosa». Tesi che va tenuta a mente per definire le regole del gioco. In questione ci sta l’interesse di China Merchants Group (Cmg), ma anche di Dubai Port World (Dpw gestisce 78 terminal in giro per il mondo) per le numerose operazioni in atto: Piattaforma logistica (20 ettari), futuro Molo VIII, area Teseco (ex-raffinerie Aquila, 40 ettari). Senza dire che pure il sito della storica Ferriera di Servola, già Italsider e oggi parte del gruppo Arvedi, è in predicato di essere riconvertita a funzioni logistiche (60 ettari).
Il capitolo più vicino consiste di sicuro nella Piattaforma logistica, cantiere che sarà concluso entro metà 2019 e attualmente in mano a San Servolo Docks controllata da Parisi Group e Icop. In pole position per rilevare la maggioranza ci sta oggi Cmg, che poi potrà candidarsi a costruire e a gestire il colossale Molo VIII (più che doppio rispetto al Molo VII). «Ma vorrei sottolineare – dice ancora D’Agostino – che a parte infrastrutture adeguate a traffici destinati a crescere nei loro piani esponenzialmente, gli investitori cinesi o degli Emirati Arabi vedono in Trieste l’opportunità di zone industriali prospicienti al mare, dotate di zone franche e di snodi logistici efficienti. Insomma un ecosistema armonico e ben regolato ove insediare i loro partner».
Un grande gioco a incastro, con l’intervento di interessi di scala globale, sta partendo nell’area portuale triestina. Al punto che un pezzo di città dove sta la Ferriera potrebbe cambiare destino. «Il piano di espansione portuale, e in particolare la necessità di un’area ove attrezzare treni da 750 metri, ci spinge a trattare per l’area della Ferriera. Ne abbiamo bisogno a prescindere dai cinesi» dice ancora D’Agostino. Toccherà a Giovanni Arvedi decidere, ammesso intenda chiudere l’altoforno, se mantenere il laminatoio o abbandonare del tutto l’impianto. Anche su questo capitolo sono concentrati interessi che hanno il loro quartier generale a Hong Kong.
L’errore del Pireo
Anche i cinesi sbagliano. Così quando China ocean shipping company (Cosco) nel 2008 ha rilevato per 4,3 miliardi di euro la gestione del Porto del Pireo ha sbagliato la porta di ingresso all’Europa. Avevano pensato che il Pireo fosse la via per il mercato più grande e ricco del pianeta, porto di testata della loro Maritime Silk Road Initiative. Ma disgraziatamente le ferrovie e le autostrade nei Balcani sono ancora materia grezza e incerta. E così ecco che divengono fondamentali i porti del Nord Adriatico.

La Stampa 22.11.18
Cambio di rotta su Venezia
Pechino vuole i container
di p. p.


Partiamo da un cambio di rotta dei cinesi su Venezia. China communication construction company (Cccc), quinto general contractor al mondo, con il progetto definitivo consegnato prima dell’estate all’Autorità portuale di Venezia, ha dichiarato che il mega terminal offshore in mezzo all’Adriatico, a 8 miglia da Malamocco, economicamente non regge. Causa effetti legati alle onde e al vento, secondo Cccc le banchine sarebbero impraticabili almeno 90 giorni l’anno.
Gli studi preliminari
I cinesi erano in gioco non solo per progettare, studi pagati con 4 milioni di fondi statali, ma anche per costruire e gestire il terminal d’altura. E però non mollano. Hanno in pari tempo consegnato anche un progetto preliminare per realizzare la cosiddetta «banchina alti fondali» davanti alla bocca di porto di Malamocco. «Sono in corso le verifiche tecniche - dice Pino Musolino, presidente dell’Autorità portuale veneziana - per valutare l’efficacia complessiva, dal punto di vista logistico e economico di questa infrastruttura. E in questo caso, Cccc si candiderà a costruire e gestire l’opera, che richiede 1,3 miliardi di euro di investimenti».
Tutta da valutare la modalità del trasporto delle merci dalle banchine «alti fondali» nelle acque dell’Adriatico fino alle aree logistiche di Porto Marghera affacciate alla laguna. Un andirivieni di chiatte? Un treno per merci ad alta velocità sotto al fondale della laguna stessa? Vedremo cosa immaginerà Cccc. Ma questa è solo una delle partite in cui operatori cinesi stanno guardando allo scalo veneziano. «L’accordo sottoscritto con i cinesi di Cosco - dice ancora Musolino - per me è esemplare. A me interessano i traffici, non che i cinesi finanzino le nostre infrastrutture e caso mai nella gestione li vedo solo in minoranza. Chiamiamola geopolitica, noi veneziani l’abbiamo praticata per secoli controllando i traffici marittimi nell’Adriatico e nel Mediterraneo orientale».
In sostanza, Venezia ha un patto semplice con il Pireo: Cosco garantisce un flusso di navi che, partendo dallo scalo greco, risalgono l’Adriatico per avvicinare le merci alle loro destinazioni finali (evitando camion e improbabili treni). Una sorta di gemellaggio. Naturalmente, le navi di ultima generazione che arrivano al Pireo sono impossibilitate a entrare in laguna: le bocche di porto legate al Mose prevedono un pescaggio di 12 metri e dunque escludono le navi portacontainer più grandi.
Il tema dell’accessibilità nautica e il groviglio di norme e di istituzioni preposte alla salvaguardia dell’ambiente lagunare rappresentano un fattore di limite per le attività portuali a Venezia. Che ha nella disponibilità di aree di grandi dimensioni e logisticamente appetibili il proprio atout. E difatti vari sono i piani che investitori di caratura mondiale stanno coltivando su Venezia (Porto Marghera).
Proprio in queste ore Musolino è a Singapore per definire con la locale Autorità portuale (Psa) le modalità della messa in gara del terminal container gestito oggi da Vecon (emanazione di Psa). E allo stesso modo andrà per il terminal Tiv, gestito dalla ginevrina Msc di Gianluigi Aponte. Perché nel rinnovo delle concessioni saranno inclusi investimenti per centinaia di milioni funzionali all’incremento dei traffici. «Ma la partita più cospicua consiste nel recupero dei 90 ettari dell’area ex Montesindyal - dice Musolino - che può accogliere un’area container, ma anche una piattaforma destinata all’importazione di prodotti cinesi semi-lavorati, che dovrebbero dunque essere compiuti in terra italiana e dare un’occupazione ai nostri giovani. Qui scatta il valore aggiunto di area franca e di una Zes in regime fiscale e doganale agevolato. Ne stiamo parlando con le autorità di governo cinesi e con le loro camere di commercio»

il manifesto 22.11.18
Nel mondo dove la vita non ha valore
Al cinema. Nelle sale il nuovo film di Edoardo De Angelis, «Il vizio della speranza», ambientato nei luoghi della prostituzione campana
di Cristina Piccino


Maria traffica coi corpi altrui, il business del contemporaneo, ragazze dell’est e africane che si prostituiscono lungo la Domiziana. Quando rimangono incinte il bimbo si vende a «brave persone» che aspettano da secoli in lista di attesa di coronare il sogno familiare.
I figli sono delle madri che li vogliono non solo di chi li fa ripete Maria (Pina Turco) alle ragazze, del resto in quel pezzo di mondo vestito di lucine e di degrado, dove i maschi sono stupratori o puttanieri e le donne decidono e comandano solo in apparenza, la vita sembra contare meno di niente e la speranza è diventata un vizio.
LO DICE sin dal titolo del suo nuovo film Edoardo De Angelis, Il vizio della speranza appunto in cui il regista di Indivisibili mette al centro lo stesso paesaggio del film precedente, e ancora di più le figure femminili. Quando la protagonista scopre di essere incinta pure lei la gravidanza e il bambino per cui lotta diventano qualcos’altro. Non tanto fede che sembra impossibile tra i crocifissi spaccati e la chiesa corrotta, forse rivolta, o una via di resistenza, l’inizio di un mondo nuovo come vuole il suo nome, Maria, e quel figlio arrivato chissà da dove e senza un padre.
DE ANGELIS non ha però l’occhio e l’ispirazione per filmare l’invisibile, quella «spiritualità» che è una delle immagini più difficili da restituire. Cosa ci dice il suo mondo chiuso lungo l’acqua, di neon e disperazione? Nulla di più di una cartolina, se è tutto «vero» poco importa, perché ormai è diventato un decor obbligato e rassicurante. Miseria funzionale alla storia, alla riconoscibilità, alle attese. Tutto il resto non è nemmeno fuoricampo, in campo non ci entra affatto. Quel personaggio di ragazza che cambia all’improvviso, una dura con qualche tenerezza è tutta lì, non ha bisogno di nulla, basta il fatto che a un certo punto sia Maria con la sua natività. Ma basta davvero? I detour di quello che dovrebbe essere un viaggio esistenziale si spengono nella programmaticità, la stessa di quel paesaggio senza apocalisse se non quella imposta dalla sceneggiatura, privo di contrasti, di confronto, di interiorità.
Che si sappia tutto non è importante, che lo si sappia rendere cinema – e racconto emozionale – invece sì.

Corriere 22.11.18
Roma
Nella Nuvola di Più libri più liberi in cerca di un altro umanesimo
Dal 5 al 9 dicembre torna la fiera della piccola e media editoria: 650 appuntamenti e oltre 1.200 ospiti
di Laura Martellini


Al passo con il momento, Più libri più liberi sceglie di raccontare l’immigrazione, anzi il nuovo umanesimo . L’uomo al centro della Fiera nazionale della piccola e media editoria , sempre più saldamente sul podio del mercato che rappresenta, pronta a sfidare il numero 17 della prossima edizione con 511 espositori, 650 appuntamenti, oltre 1.200 autori.
Dal 5 al 9 dicembre, la Nuvola dell’Eur sarà occupata in ogni sua parte da stand che sono diventati il marchio più forte, efficace, «pop», della struttura di Massimiliano Fuksas. Ospiterà aziende che, dopo gli anni della forte ripresa, proseguono, con meno picchi, a crescere: in aumento il numero dei piccoli e medi editori (+0,5%), le novità pubblicate (+10,5%), il peso dei titoli sul totale dei libri in commercio (oggi più di un titolo su due), la quota di mercato nelle librerie, online e nella grande distribuzione (al 39%, +3,3% rispetto al 2016).
«Un occhio all’attualità, l’altro sul mondo» dice Annamaria Malato, presidente della fiera, annunciando ospiti internazionali da Abraham Yehoshua a Joe R. Lansdale, dal poeta dissidente Patrice Nganang che pennellerà la sua Africa, alla sociologa turca Pinar Selek, a scrittori come lei coinvolti in vicende che da personali si fanno politiche. Così Monica Tereza Benicio, compagna dell’attivista Marielle Franco assassinata lo scorso marzo a Rio; la giornalista Yasemin Congar compagna di Ahmet Altan, scrittore turco condannato all’ergastolo (ne leggerà i passi Valerio Mastandrea); il britannico David Almond, voce per la tutela dell’ambiente. Fra gli stranieri, anche Michael Dobbs che dopo House of cards torna con una nuova opera di fantapolitica, Il giorno dei Lord, Jarett Kobek autore di Io odio Internet, contro i giganti della Silicon Valley, e Philip Forest.
La carica degli italiani ha un piede nell’oggi, l’altro nel passato, anche se entrambi ben piantati nel terreno fertile dell’ humanitas: Andrea Camilleri sarà alla presentazione de La funesta docilità di Salvatore Silvano Nigro, inchiesta sui Promessi sposi. Paolo Di Paolo curerà L’infinito sulla Nuvola, incontro su Leopardi con contributi di Dacia Maraini e Vittorio Storaro. Poi Paolo Giordano, Emanuele Trevi, Teresa Ciabatti, Luciano Canfora, Fabio Stassi.
Si fa strada, rispecchiando una tendenza, l’editoria delle graphic novel e dei libri illustrati. In fiera il fumettista cult Zerocalcare, cui il Maxxi di Roma sta dedicando una mostra, e Ilaria Cucchi. Anche un albo ora ricorda la vicenda del fratello, Il Buio. La lunga notte di Stefano Cucchi.
Al giornalismo il compito di dibattere di nuovo umanesimo nell’agorà della Nuvola, affrontando differenti declinazioni come la criminalità organizzata (Petra Reski parlerà del suo Palermo connection con Beppe Grillo; Raffaele Cantone ed Ernesto Galli della Loggia presenteranno La mafia. Centosessant’anni di storia di Salvatore Lupo), i conflitti armati nel mondo (ospite la corrispondente del Washington Post Souad Mekhennet), la transessualità, la violenza sulle donne, i nuovi populismi e sovranismi. Enrico Mentana farà conoscere il suo nuovo giornale online, «Open».
Presente per la prima volta con una partnership il «Corriere della Sera». Fra gli appuntamenti, il direttore Luciano Fontana dialogherà con il capo della Polizia Franco Gabrielli sull’Etica della responsabilità (il 5 alle 12,30). Paolo Conti intervisterà il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli e sarà a colloquio con Paolo Mieli, Lampi sulla storia (e sulla letteratura).
Tanto altro, ancora. Una folta sezione ragazzi con Roma Capitale, e con l’Istituzione biblioteche di Roma diretta da Paolo Fallai (la Regione Lazio mette a disposizione buoni da 10 euro da spendere fra gli stand). Un’Arena dedicata all’arte fotografica. Il Business Centre funzionerà da collettore di aziende e pubblico professionale. Riflette Ricardo Franco Levi, presidente degli editori: «Siamo la prima industria culturale del Paese. Non riceviamo e non chiediamo aiuti pubblici. Ma si continui a sostenere i diciottenni nell’acquisto dei libri».

Repubblica 22.11.18
Piccoli editori crescono e tornano in fiera a Roma
di Simona Casalini


Un’agorà prenatalizia, una festa popolare. In nome dei libri, quelli scelti dai piccoli e medi editori, dove spesso, è stato detto, si annidano le idee più coraggiose. Torna a Roma — alla Nuvola dell’Eur che lo scorso anno ha segnato il record di 100mila presenze — Più libri, Più Liberi, 17esima fiera nazionale della piccola e media editoria. Si svolge dal 5 al 9 dicembre e darà spazio e voce a 511 espositori, 1.200 autori e a oltre 650 incontri con scrittori, giornalisti, filosofi, uomini di cultura da ogni dove. Da Abraham Yehoshua a Andrea Camilleri, da Helena Janeczeck a Michael Dobbs, autore di House of Cards con il suo nuovo Il giorno dei Lord, alla scrittrice irachena Inaam Kachachi, dalla tedesca Natascha Wodin, all’autrice e attivista turca in esilio, Pinar Selek. Con loro, altri protagonisti: Mimmo Lucano, sindaco di Riace, Ilaria Cucchi per il graphic novel Il buio. La lunga notte di Stefano Cucchi, Beppe Grillo, che parlerà del libro Palermo Connection di Petra Reski, Ascanio Celestini e Giovanni Albanese, coautori de L’armata dei senzatetto, Marcello Fois e Michela Murgia per il progetto
La via della Terra.
Attesi anche i direttori dei giornali: da Mario Calabresi a Luciano Fontana; Enrico Mentana presenterà qui Open, il suo giornale online.
Voci diverse, unite da un fil rouge "irrinunciabile in questi tempi di arroccamento": il "nuovo umanesimo", meglio, l’humanitas, l’essere umano al centro, così come ha sottolineato la presidente della kermesse, Anna Maria Malato, presentando l’appuntamento insieme a Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione Italiana Editori, il vice sindaco di Roma Luca Bergamo e il vicepresidente della Regione Lazio e Massimiliano Smeriglio che si è soffermato sull’umanesimo che non va certo di moda in tempi in cui «avrebbero respinto anche la figlia del Corsaro nero».
Levi si è appellato al governo perché rifinanzi la 18 app, l’aiuto economico ai ragazzi che compiono 18 anni per acquistare libri, mentre la Regione Lazio ha predisposto per la Fiera un bonus di 10 euro agli studenti da spendere tra i librai espositori. Repubblica e il gruppo Gedi saranno come sempre presenti e ospitano, tra gli altri — oltre al direttore di Repubblica Calabresi, che parlerà di fotografie che hanno cambiato la Storia — il sindaco di Riace Mimmo Lucano intervistato da Francesco Merlo, Ezio Mauro su "Italia bianca e Italia nera" e Michele Serra "ambientalista" alla sala Nuvola. Altri ospiti sono attesi ogni giorno nello spazio Arena Robinson - L’Isola che c’è, con la presenza costante dei ragazzi delle scuole.


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