lunedì 19 novembre 2018

Repubblica 19.11.18
Oppenheimer poliziotto ebreo nel Terzo Reich
Negli ultimi anni del nazismo, in Germania opera un commissario che riesce a sfuggire all’Olocausto e conduce indagini su spie e criminali. Arriva in Italia il terzo volume della trilogia di cui è protagonista. Parla l’autore, Harald Gilbers
Intervista di Giancarlo De Cataldo


«Raramente incontro qualcuno che si possa definire a prima vista nazista. Ma è difficile leggere nella mente delle persone. I social sono veri pozzi neri per le idee fasciste.
Molti fra quelli che li frequentano si muovono nell’ambito delle loro filter bubble, cioè leggono solo ciò che interessa loro leggere, e così pensano che le loro idee grottesche siano in maggioranza. È noto che il nazismo contemporaneo ha le sue basi nella vecchia Germania Est, in particolare in Sassonia.
Una questione legata all’immigrazione che fece seguito alla caduta del Muro: molti cercavano un lavoro più qualificato e continuano a sentirsi, ancora oggi, ignorati dalla politica. Ma a parte certe grandi città come Lipsia, il fenomeno non mi sembra molto diffuso. E c’è una grande vigilanza fra i liberali e nella sinistra, come dimostrano le reazioni immediate ai recenti disordini di Chemnitz contro i migranti». Preoccupato, come è giusto che sia, ma non allarmato dai nazisti di oggi, lo scrittore Harald Gilbers, bavarese di Monaco, 49 anni, è un vero esperto dei nazisti di una volta.
Gilbers è autore di una trilogia ambientata negli ultimi mesi della caduta del Terzo Reich. In una Germania devastata da carestia e bombardamenti si agita Richard Oppenheimer, un ex commissario della polizia di Berlino, licenziato perché ebreo ma scampato alla deportazione grazie al matrimonio con l’arianissima Lisa. Colto, sensibile ma anche alquanto nevrotico, amante della musica classica, affetto da una colpevole inclinazione per le amfetamine, in Berlino 1944 Oppenheimer è sulle tracce di un feroce serial killer e al servizio di un SS dall’aspetto più o meno umano. Ne I figli di Odino è chiamato a sventare un complotto di nazisti esoterici e, nello stesso tempo, impegnato a salvare dalla forca la sua grande amica Hilde, una delle (poche) oppositrici del regime. In Atto finale (ora uscito in italiano da Emons) l’ex commissario dovrà pensare a come salvare la pelle nei giorni tremendi dell’agonia del Reich, e finirà al centro di una complessa vicenda di criminali e spie, una specie di Terzo Uomo alla berlinese, sullo sfondo della lotta fra russi e americani che si contendono gli avanzi della distrutta Germania. La minuziosa ricostruzione d’ambiente, l’attenzione ai dettagli, la profonda conoscenza dello "spirito" della sua gente e le trame avvincenti rendono decisamente riusciti i thriller storici di Gilbers. E Oppenheimer è un personaggio al quale è istintivo affezionarsi: pur con tutte le sue debolezze umane. O forse proprio grazie ad esse.
Un ebreo libero a Berlino in piena guerra. Non suona inverosimile?
«È un fatto poco conosciuto, ma ancora nel 1943 a Berlino vivevano 27 mila ebrei. Una minoranza, se pensiamo alle vittime dei campi di sterminio, eppure Goebbels si lamentava per non essere riuscito a ripulire la capitale dalla loro presenza.
Molti vennero risparmiati perché lavoravano nell’industria bellica, e altri, come Oppenheimer, perché avevano sposato le cosiddette Mogli Ariane. La verità è che i nazisti non sapevano come comportarsi con loro, e temevano la cattiva propaganda se avessero mandato a morte i membri di una famiglia tedesca. Naturalmente, gli ebrei superstiti dovevano vivere nelle speciali Case degli Ebrei ed erano comunque soggetti a ogni vessazione. In ogni caso, nel 1945 i nazisti decisero di avviare anche loro ai campi. Da qui la necessità per Oppenheimer di passare in clandestinità».
Gilbers, come nasce Oppenheimer?
«Nasce dal mio amore per il cinema. Precisamente da M - il mostro di Düsseldorf, il famoso film di Fritz Lang. Lì compare il personaggio del poliziotto Lohmann, che poi tornerà ne Il testamento del dottor Mabuse, un film che Goebbels censurò perché gli sembrava sovversivo.
Ecco, in Oppenheimer c’è la proiezione di un futuro Lohmann. Il suo fatale scontro coi nazisti. Non c’è trama senza conflitti. E quale conflitto più forte di quello di un poliziotto ebreo costretto a lavorare per i nazisti?».
E così come in "M" la malavita dà una mano a Lohmann nella cattura del pedofilo assassino, Oppenheimer ha un curioso rapporto con il criminale Ede...
«Ede è una delle poche costanti nella vita di Oppenhmeier. Anche qui c’è una base realistica. Ede è un capo della Ringvereine, la "società dell’anello", la malavita organizzata tedesca che imperversava prima del nazismo e che il nazismo non riuscì a debellare. Si chiamavano così perché portavano un anello per riconoscersi, ed erano un po’ come la vostra mafia. Ede e Oppenheimer sono amici? Sì, ma direi di un’amicizia controversa.
D’altronde Oppenhmeier, che parte con la morale di un ufficiale prussiano, col tempo si ammorbidisce, non è più solo legge e ordine, si convince che il suo compito è di evitare il peggio, e cercare, per quanto possibile, non dico di migliorare il mondo, ma almeno di non renderlo un posto peggiore. È questa la vera sfida, e lui decide di accettarla».
Un altro personaggio notevole è Hilde. Scienziata, aristocratica, fervente antinazista. Dunque, i tedeschi non furono tutti nazisti?
«Inizialmente Hitler affascinò molti ma incontrò anche molta resistenza. Ci furono sempre oppositori. Purtroppo erano deboli, sconfitti, e soprattutto divisi fra loro, e non riuscirono mai a unire le forze in una lotta efficace. I tedeschi amano la stabilità e Hitler la garantiva, dal loro punto di vista. Ancora negli anni Cinquanta c’era chi lo rimpiangeva, e considerava l’antisemitismo un peccato veniale. Però mi lasci dire una cosa: per noi il nazismo è una vergogna nazionale, il peccato originale della nostra storia. Ma, nello stesso tempo, siamo orgogliosi di come abbiamo regolato i conti con il nostro passato. Per questo non mi sembra intelligente dare del "nazista" a chi ha idee diverse. Si rischia di banalizzare quella tragedia che fu il nazismo. Un vero problema è il populismo montante, questa pretesa dei leader conservatori di dare risposte elementari a questioni complicate eccitando nello stesso tempo il nazionalismo. Ma questa marea non è nata in Germania. Potremmo anzi dire, ironicamente, che la Germania è diventata una nazione molto più "normale" di un tempo».
C’è un futuro per Oppenheimer?
«Una nuova trilogia, della quale è già uscito il primo volume.
Oppenheimer e la guerra fredda, un argomento davvero stimolante, ai miei occhi. Berlino e la Germania erano una nazione divisa, al centro dello scontro fra i blocchi. E poi sto collaborando a una serie tratta da Berlino 1944. Se per caso qualche rete italiana fosse interessata...».