Repubblica 17.11.18
Alle radici della crisi attuale
Quando Nietzsche seppellì l’Occidente
Come in biologia ogni civiltà è un organismo che nasce cresce e muore
E il canto del cigno della nostra ha un volto:quello del filosofo tedesco
I primi sintomi di malessere collettivo si ebbero a metà ’800, con le tesi di Feuerbach, Stirner e Marx
Ma fu l’autore della "Gaia scienza" e di "Ecce homo" a fare piazza pulita di fedi, sistemi, tradizioni e istituzioni
di Sossio Giametta
Quest’anno si è celebrato il centenario della fine della Prima guerra mondiale (1914-1918).
Su questo sono fioriti, in aggiunta alla pletora che già c’era, articoli, servizi, saggi e studi di ogni tipo; sono state rinnovate le analisi delle cause lontane e vicine, delle occasioni scatenanti e delle funeste, ramificate conseguenze, coi prodromi, gli appigli e gli agganci alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia nessuno storico è stato in grado di pervenire alla causa originaria delle due guerre e di tutto lo scatafascio che esse hanno comportato. E ciò per la ragione fondamentale che questa causa è metastorica, affonda le radici nella biologia e richiede la partecipazione della filosofia.
L’indagine storica non basta a far capire quello che l’Europa e il mondo hanno fatto e subito in tale periodo: le due più grandi catastrofi della storia.
Un organismo è un’unità in cui il principio vitale – una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile – stringe insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in un’unità superiore. Si immagini il nostro organismo, con le cellule che lo compongono. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e morte. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività) è al suo massimo, come la forza vitale stessa, con cui si identifica. Nella parabola discendente, allenta la sua presa, mentre aumenta la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante cede, e nell’organismo si crea una polarizzazione tra le tendenze opposte, che si compattano agli estremi. È il preludio della fine.
Le civiltà, le religioni sono soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte. I membri di questi grandi soggetti storici sono organizzati in funzione dell’organismo di cui fanno parte allo stesso modo degli organi del corpo umano. Più sono i membri che li compongono e più ampia è l’articolazione e diversificazione della civiltà o della religione.
Dunque il numero dei loro membri (gli individui) è importante. Che le civiltà, le Kulturen, siano organismi, è stato teorizzato da Oswald Spengler ne
Il tramonto dell’Occidente, coevo alla Prima guerra mondiale. In quanto organismi, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna. Cioè pur essendo condizionate dalle circostanze storiche e geografiche, esse non ne sono determinate e si sviluppano in maniera autonoma, come gli uomini stessi, che possono vivere la loro vita negli ambienti più disparati, e in mezzo alle circostanze storiche più svariate, obbedendo soprattutto alla loro legge interna.
Il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è la civiltà occidentale, cioè la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma in seguito integrata dagli Stati laici, figli del Sacro Romano Impero. Le Kulturen hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia. In vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler,
Zivilisationen, detto in italiano, civiltà stramature. Esse brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione. Ma ciò non per colpe e vizi, come si crede, ma per compiutezza e sazietà.
Rispetto alle altre nazioni europee, la Germania, divisa e arretrata, esplose in ritardo.
Nell’alta marea che ne seguì Hegel, con lo spirito assoluto e un sistema che comprendeva tutti i sistemi e dava senso divino (umanizzato) alla storia, diede la carica ai tedeschi, come «parte razionale dell’Europa».
L’Uebermut, un senso titanico di forza e di superiorità, salì alle stelle, grazie anche all’apporto di Fichte e Schelling. Sarebbe cresciuto sempre più, fino al delirio nazista. Hegel era amico e protetto di Goethe, ma ne tradì il messaggio di misura (nella poesia Prometeo, Goethe si vanta di aver sconfitto der Titanen- Uebermut, la superbia dei titani). Per lui «classico è ciò che è sano e romantico ciò che è malato».
Hegel mise il romanticismo al di sopra della classicità. Goethe predicava la natura, di cui l’uomo è piccolissima parte, Hegel lo spirito. Goethe censurò la troppa importanza data all’individuo e disse che senza la morale lui non era niente. Hegel negò la morale per dare risalto all’etica. Ma quando si arriva al vertice, è prossima la caduta. Già negli anni Quaranta dell’Ottocento esplose, nel segno dell’antihegelismo, la più grande avvisaglia della crisi della quasi bimillenaria civiltà europea, con i giovani hegeliani di sinistra: Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, poi Schopenhauer; in Danimarca Kierkegaard. La crisi raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento e fu incarnata soprattutto da Nietzsche.
Contrariamente a quello che credeva di essere: il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, Nietzsche era inconsapevolmente tutto e solo attualità, una creatura della crisi.
Trasferì verso la Grecia arcaica e dionisiaca le correnti selvagge della sua epoca, sicché alla fine la Grecia risulta essere soprattutto un alibi. Nietzsche fece piazza pulita di sistemi e costumi, morali e religioni, tradizioni e istituzioni, per cui gli rimase solo la natura col suo vitalismo selvaggio. In tal modo costruì nell’empireo della filosofia quello che sarebbe diventato il cuore del fascismo-nazismo. Questo fu l’ultimo colpo di coda dell’Occidente prima di perdere il primato alla fine della Seconda guerra mondiale.
Corriere 17.11.18
Perugia
Shalabayeva, rinviati a giudizio Cortese e Improta
L’ex capo della squa-dra mobile di Roma Renato Cortese (ora questore di Palermo) e l’allora responsabile dell’ufficio immigrazione Maurizio Improta sono stati rinviati a giudizio dal gip di Perugia per il presunto rapimento di Alma Shalabayeva. Stesso provvedimento per il giudice di pace Stefania Lavore e per 4 poliziotti. Ai tre funzionari kazaki riconosciuta l’immunità diplo-matica.
Repubblica 17.11.18
La moglie del dissidente kazako
"Shalabayeva fu sequestrata" A processo due superpoliziotti
In sette rinviati a giudizio: tra loro anche i questori di Palermo e Rimini, Cortese e Improta
di Maria Elena Vincenzi
Roma Ci sono il sequestro di persona e vari falsi. Per questo l’attuale questore di Palermo, Renato Cortese, e quello di Rimini, Maurizio Improta, sono stati rinviati a giudizio per il caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, rimpatriata in fretta e furia dall’Italia con la sua bambina Alua nel maggio del 2013.
Per la procura di Perugia, competente perché nell’inchiesta è coinvolto anche un giudice di pace di Roma, quella procedura fu illegittima. E il gup ha dato ragione ai pm disponendo il rinvio a giudizio di Cortese, all’epoca capo della squadra mobile della Capitale, di Improta ( al vertice dell’ufficio immigrazione capitolino), del giudice di pace Stefania Lavore, che firmò la convalida, e di quattro poliziotti: Luca Armeni, Francesco Stampacchia, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. Prosciolti, invece, la loro collega Laura Scipioni e i tre funzionari dell’ambasciata del Kazakistan per i quali il giudice ha riconosciuto l’immunità diplomatica: l’allora ambasciatore Andrian Yelemessov, il primo segretario Nurlan Khassen e l’addetto consolare Yerzhan Yessirkepov.
Il processo inizierà il 24 settembre 2019, ma il legale di Shalabayeva, l’avvocato Astolfo di Amato, ha sottolineato come l’inchiesta non abbia comunque ancora sciolto tutti i dubbi. «Ora ci attendiamo di sapere dal processo — dice — se e chi ha dato l’ordine del sequestro». Nel processo confluiranno con valore di prova le parole di Shalabayeva, che in udienza preliminare è stata sentita con l’incidente probatorio. In quella sede ha parlato di una « illegittima deportazione » : sebbene « più volte » avesse chiesto asilo politico, fu prelevata con la figlia da una villa a Casal Palocco e mandata in Kazakistan contro la sua volontà. Nonostante — secondo la sua versione — avesse rappresentato lo status di rifugiato del marito e il pericolo per la propria incolumità in caso di rimpatrio per «i concreti rischi» di subire violazioni dei diritti umani, come già successo al marito. Nella richiesta di rinvio a giudizio i pm hanno parlato di una serie di omissioni e falsi che avrebbero esposto a rischi Shalabayeva. La donna nel dicembre 2013 è tornata a Roma, mentre il marito, libero, è in Francia.
Il Fatto 17.11.18
Lele Mora, più che “l’Unità” i “Quaderni del carcere”
di Nanni Delbecchi
Sempre più difficile distinguere le battute di spirito dalle cose serie; di solito l’ironia è quella che non viene compresa, quando invece una cosa passa per una battuta è stata detta con la mano sul cuore. Più una notizia pare autentica, più potrebbe rivelarsi un fake e viceversa, ma la certezza non c’è mai. Lele Mora si dichiara pronto a riportare in vita l’Unità e a dirigerla: ha tutta l’aria di un fake, invece è accaduto davvero. Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci deve avere qualcosa di irresistibile (a prenderlo ci avevano già provato Daniela Santanchè e Paola Ferrari) ma, insomma, Mora scherzava o faceva sul serio? Per venirne a capo l’unica è un rigoroso fact checking; dunque proviamoci.
Lele Mora ha mai fatto il giornalista? No. Ha mai fatto il parrucchiere per signora? Sì. Ha mai fatto l’agente dei Vip? Sì. La stampa italiana vive in adorazione dei Vip? Sì. Lele Mora era ed è egli stesso un Vip? Sì. I Vip trattano i giornali come fossero i loro parrucchieri? Sì. Mora è mai stato di sinistra? No. È mai stato fascista? Sempre. Aveva come suoneria del telefonino Faccetta nera? Sì. È stato condannato per bancarotta fraudolenta? Sì. Ha mai fatto sesso con Fabrizio Corona, secondo Fabrizio Corona? No (questo in apparenza non c’entra, ma Fabrizio è pur sempre il figlio di Vittorio, grande giornalista). Non ci sono dubbi: Lele Mora diceva il vero, e questo potrebbe essere solo il primo passo del suo percorso neogramsciano. Ora aspettiamo i Quaderni del carcere.
La Stampa 17.11.18
Il mondo di Groucho
di Mattia Feltri
Ieri di colpo sono successe due cose molto di sinistra. La prima è che il ministro Danilo Toninelli ha festeggiato l’approvazione del suo decreto col pugno destro alzato, saluto dei movimenti operai e antifascisti. La seconda è che Leu (Liberi e uguali) si è scisso. Anche dando per buoni gli intenti neoproletari di Toninelli, come cosa di sinistra vince la scissione di Leu, non c’è partita. E non soltanto perché Leu è durato un anno (novembre ’17-novembre ’18) ma soprattutto per la magia: costituito da tre partiti di sinistra (Mdp, Possibile, Sinistra italiana) si è scisso in cinque. Abracadabra, oltre ai tre costituenti ecco Futura (Laura Boldrini) e Patria e Costituzione (Stefano Fassina). Col Pd, il Psi di Nencini e Potere al popolo, da quella parte sono in otto.
Se siete elettori d’area e nessuno di questi vi convince, nessuna paura: lo straordinario modo con cui ci si riproduce a sinistra, tipo gemmazione o mitosi, offre un’enorme biodiversità progressista fatta di organismi unicellulari o pluricellulari come Rifondazione comunista, Partito comunista, Partito comunista dei lavoratori, Senso comune, Risorgimento socialista, Carc, DemA, Azione civile, L’altra Europa con Tsipras, MeRa25, Alternativa comunista, Sinistra classe rivoluzione, Sinistra anticapitalista, Rete dei comunisti, Lotta comunista, Partito marxista leninista. Siamo a ventiquattro, numero più o meno certificato alle 19,45 di ieri sera, e viene in mente quel tizio che si chiedeva che mondo avremmo avuto se ci fosse stato Groucho Marx al posto di Karl. Beh, un mondo con Toninelli a pugno chiuso.
La Stampa TuttoLibri 17.11.18
Ingoio pillole, dunque sono (tranquillo):
benvenuti nell’era dell’umanità sotto anestesia
di Marco Filoni
Laurent de Sutter, Narcocapitalismo. La vita nell’era dell’anestesia
La ricevuta rilasciata dall’addetto portava il numero 4848. Era una grigia mattina, il 12 novembre 1846: Charles Thomas Jackson e William Gree Morton, di Boston, erano all’ufficio brevetti degli Stati Uniti. I due avevano appena depositato un’invenzione che, recitava la descrizione impressa su quella ricevuta, «riguardava il miglioramento delle operazioni chirurgiche». In definitiva niente di più che etere solforico: una sostanza già conosciuta che, fino ad allora, era usata per alleviare il dolore. Ma il brevetto non riguardava la sostanza, bensì il modo di usarla: loro per primi avevano avuto l’idea di farne inalare i vapori. Ed era un atto medico senza precedenti, poiché si trattava del primo metodo che permetteva al chirurgo di operare il paziente senza che questo avvertisse dolore. Era l’invenzione dell’anestesia. E segnava l’inizio di un’epoca.
Questo il punto di partenza del convincente e affascinante libro del filosofo belga Laurent de Sutter dal titolo Narcocapitalismo. La vita nell’era dell’anestesia. Il quale ci dice che con quel brevetto (e con le molte altre scoperte che sono venute poi) siamo entrati in un’epoca perduta, un’epoca in cui le nostre emozioni, i nostri sentimenti, le nostre eccitazioni sono state messe sotto controllo. Come? Con la chimica: anestetici, sonniferi, antidepressivi, eccitanti, droghe… Il catalogo è ampio, e ormai la nostra esistenza è fatta di un lungo dialogo con il portapillole. Una pillola per dormire, una per svegliarsi; una per fare festa e una per evitarne le conseguenze il mattino successivo; una pillola per fare l’amore, una per non avere paura, una per non fare bambini – e se per caso ce li abbiamo, i bambini, c’è anche la pillola per farli stare un po’ calmi.
De Sutter traccia l’affascinante storia di queste sostanze, della diffusione e del loro uso. Ma il suo interesse è, potremmo dire, «archeologico»: le vicende che racconta sono usate come dispositivi. Ecco allora che la ricostruzione del filosofo serve per mettere in luce una modernità farmacologica, ovvero il confinamento della nostra esistenza all’interno di una camicia di forza chimica. Attenzione però: non si tratta di un’alzata di scudi, conservatrice, al grido: «a morte le sostanze chimiche!» Non è una requisitoria indignata contro la medicina. Da nessuna parte troveremo una sola parola contro i progressi della scienza che hanno migliorato le nostre esistenze (ed è evidente: se qualcuno sta male e soffre di sindrome maniaco-depressiva, deve prendere gli psicofarmaci; se qualcun altro deve esser operato farà ricorso all’anestesia e così via…).
Per l’autore la nostra epoca non ha mai smesso di moltiplicare le tecniche di coercizione fisica e psichica: dagli anestetici allo sviluppo della pillola contraccettiva, dalla scoperta delle proprietà della cocaina sino ai sonniferi, c’è una volontà di domesticazione dell’essere, di domare i soggetti e gli individui spegnendo la loro capacità di eccitarsi, rendendoli calmi e silenziosi. Ecco allora che tutte quelle pillole hanno un significato non soltanto per ciò che sono e che fanno, ma per ciò che possono essere.
Qui de Sutter segue una tradizione feconda della filosofia contemporanea (mette conto ricordare almeno i nomi di Foucault, Rancière e Agamben): il suo libro sembrerebbe politico, ma tutte le questioni che pone si riferiscono a un problema ontologico, che riguarda l’essere. Detto in maniera semplice: se la politica si espleta (anche) in termini di controllo, allora questa deve anche sapere qualcosa sull’essere che vuol controllare – ecco perché la politica per poter funzionare ha bisogno dell’ontologia, secondo una tesi cara già a Deleuze e Guattari.
Allora per de Sutter le invenzioni narcotiche, così come le loro applicazioni politico-medicali nel corso della storia recente, vanno analizzate in termini più generali perché restituiscono una concezione passiva della corporeità umana: ogni essere è considerato come una «massa operabile», alla quale va spenta l’innata eccitazione (il problema ontologico della stabilità o della sussistenza: se l’eccitazione mette l’individuo «fuori di sé», come indica l’etimologia: ex-citare, come mantenere l’essere nei suoi limiti?). Raggiungere cioè il grado zero della vita degli affetti. In queste pagine pieni di stimoli De Sutter ci pone questioni che fanno pensare, che danno da pensare. Ed è esattamente ciò che sanno fare i veri libri di filosofia. Di questi tempi sono sempre meno, ahinoi – ed è il motivo per cui rallegrarsi quando, finalmente, se ne trova uno.
il manifesto 17.11.18
Scuola
Il cambiamento non c’è, 100 mila studenti contro il governo
Studio aperto. Cortei in 70 città contestano gli spot su scuola e università dell'esecutivo Lega-Cinque Stelle. Polemico il ministro dell'Interno Salvini sulle bandiere bruciate. La ministra per il Sud Lezzi: «Hanno ragione a protestare». La carica politica di una nuova generazione antirazzista e femminista a 10 anni dall’Onda
di Roberto Ciccarelli, Giansandro Merli
La sfida lanciata al governo populista dai centomila studenti medi che ieri hanno manifestato da Torino alla Sicilia e in Puglia è sulla natura del cambiamento che Lega e Cinque Stelle pretendono di rappresentare.
«QUESTO NON È il vero cambiamento» diceva lo striscione di apertura dietro al quale hanno sfilato 5mila studenti romani. Non è un cambiamento prospettare misure improvvisate e cosmetiche come la «Sugar tax» da cui il ministro dell’Istruzione Bussetti punta ad ottenere 100 milioni di euro mentre servirebbero almeno 7 miliardi tagliati a scuola e università dieci anni fa dal governo Berlusconi e mai più, da allora, rifinanziati. Invece di promuovere politiche sanitarie, la sensibilizzazione e l’educazione al consumo critico, si prendono misure spot.
NON È UN CAMBIAMENTO spendere 2,5 milioni di euro per l’operazione di marketing securitario anti-spaccio voluta dal ministro dell’Interno Salvini che sostiene di aver circondato le scuole con unità cinofile e telecamere. E non è un cambiamento annunciare una tassa sui petrolieri per due miliardi, come ha fatto il ministro del lavoro e sviluppo Di Maio, e poi constatarne l’assenza nella legge di bilancio.
A DIECI ANNI DALL’ONDA che nel 2008 si oppose alla «riforma Gelmini» di scuola, università e ricerca, la nuova generazione «che non si arrende» ha mostrato una consapevolezza politica radicale del mondo che le elezioni del 4 marzo, e la formazione del governo del 1 giugno, ci hanno consegnato. Il senso comune tra gli studenti è chiaramente antirazzista, ha recepito le critiche del movimento femminista «Non Una di Meno» al Ddl Pillon. Gli studenti vogliono l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro voluta da Renzi e dal Pd.
I CINQUE STELLE avevano promesso di abolirla, insieme alla «Buona Scuola». Bussetti ha invece diminuito le ore nei licei e negli istituti tecnico-professionale e ha sospeso solo per un anno la sua obbligatorietà per accedere alla maturità. L’educazione morale al precariato era, e resta, obbligatoria per tutti. Cambiamento o fallimento?
GLI STUDENTI a Milano hanno raggiunto il consolato degli Stati Uniti manifestando solidarietà alla «carovana migrante» giunta ai confini dal Messico. Chiaro il messaggio lasciato tra i binari del tram in via Turati: un’enorme scritta bianca «No border» contro le politiche di polizia dentro e fuori i confini. «Basta morti in mare» hanno scandito gli studenti. Il corteo si è concluso con l’occupazione del nuovo spazio di Zip (zona indipendente politica) per rispondere agli sgomberi estivi. A Zip si sta svolgendo il «Fuck Government festival», con immagini, fumetti e dibattiti.
MANICHINI raffiguranti il ministro dell’interno sono stati bruciati a Milano e appesi da un ponte sul Tevere. Bandiere leghiste e 5 stelle date alle fiamme nel capoluogo lombardo. Solidarietà a Mimmo Lucano e ai ragazzi di Baobab è stata espressa nei diversi cortei.
LA MATERIALIZZAZIONE di un’opposizione così determinata da lanciare il «No Salvini Day» ha spinto il governo a rispondere alle piazze. È andato in scena un botta e risposta già visto in occasione dei cortei del 12 ottobre scorso, quando Salvini chiese punizioni esemplari per le studentesse di Torino che avevano incendiato la sua immagine, mentre Di Maio disse di voler cancellare un «reato medioevale come il vilipendio». Sui social ieri Salvini ha scritto: «Bruciare bandiere, immagini, simboli, libri non è bello. All’odio e all’ignoranza dei nazisti rossi risponderemo con le idee e il sorriso».
LA MINISTRA PER IL SUD Barbara Lezzi (M5S) si è invece schierata con i manifestanti: «Oggi ci sono ragazzi che manifestano perché le scuole cadono a pezzi e hanno ragione. Dobbiamo riconoscere che ci sono i fondi e sarebbe interessante sapere perché non sono stati spesi». Dovrebbe dirlo lei, ministra.
Repubblica 17.11.18
Le nuove piazze
Studenti e uguaglianza
di Eraldo Affinati
Chi tocca la scuola si brucia: lo sappiamo. Ma perché tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni proprio su questo nodo cruciale hanno fallito pagando salato anche in termini elettorali? Eppure si tratta del tema dei temi: in quale altro luogo noi adulti dovremmo esercitare la responsabilità del futuro? Come scrisse Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo tedesco fatto impiccare da Adolf Hitler pochi giorni prima della fine della Seconda guerra mondiale: «Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene».
Gli studenti che stanno manifestando in tutta Italia per chiedere più finanziamenti al comparto dell’istruzione hanno le idee molto chiare: vogliono realizzare la tanto decantata «uguaglianza delle posizioni di partenza » che, prima ancora di essere il fiore all’occhiello del nostro dettato costituzionale, rappresenta a ben pensare la mina vagante della cultura novecentesca: dare a ogni bambino, a qualsiasi ragazzo, le medesime possibilità di affermazione. Fare in modo che tutti possano accedere alle fonti del sapere.
Crediamo che sia così? No, perché la famiglia di provenienza, ad esempio, conta ancora troppo e può determinare, da sola, il destino dei giovani. Se i tuoi genitori sono ricchi, puoi frequentare i corsi migliori, andare all’estero, imparare le lingue, altrimenti ti devi arrangiare.
Il mese scorso sono stato in due scuole: una storica paritaria al centro di Roma, il " Villa Flaminia", l’altra un liceo scientifico statale di Napoli, il " Renato Caccioppoli", che accoglie iscrizioni da Scampia, Secondigliano e dalle città limitrofe di Arzano, Melito, Afragola e Casoria. Il primo istituto, che ovviamente chiede alle famiglie il pagamento di una retta abbastanza significativa, assomigliava a un college americano con campi di calcio, laboratori, auditorium, biblioteche, bar e quant’altro. Intendiamoci: i ragazzi erano straordinari, assolutamente consapevoli del loro privilegio, così come gli insegnanti e i responsabili, animati da vera passione pedagogica. Tuttavia, come non vedere la differenza rispetto alla scuola partenopea? Lì ho parlato a un centinaio di studenti accalcati nell’atrio accanto all’ingresso, senza microfono perché non funzionava. Poi li ho accompagnati nel parcheggio, tra le lamiere delle automobili, l’unico spazio dove potevano fare ricreazione. Ancora una volta ho ripensato a Don Milani: non è cambiato niente! Pierino, il bambino avvantaggiato, parte ancora venti metri prima di Gianni, quello che non ha nulla.
E la mitica professoressa, quando mette i voti, se invece di premiare il movimento registrato dai suoi studenti, verifica soltanto il traguardo da loro raggiunto, continua a rischiare di fare le parti uguali fra diseguali. Anche perché non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti: vale anche il contrario. In aula sì, ma pure nella vita.
Ieri i manifestanti hanno reclamato interventi sull’edilizia scolastica: è una vecchia questione che si ripropone ogni autunno, quasi anticipando le occupazioni studentesche. Chi si limiti a liquidarla come un refrain generazionale, sbaglia di grosso. Al contrario, si tratta della madre di tutti i problemi legati all’istruzione.
E non illudiamoci che riguardi unicamente le aree cosiddette a rischio. Molti famosi licei del Belpaese cadono a pezzi. Urgono piani strutturali anche per rinnovare lo spazio didattico e renderlo idoneo ad affrontare la rivoluzione digitale che ha cambiato la testa dei nostri ragazzi e quindi anche il modo di leggere, scrivere, apprendere. Non possiamo continuare a propinare loro il vecchio schema cripto-ottocentesco con il docente impegnato a spiegare il programma.
Se l’Italia non riparte, forse dipende anche dalla mancanza di ruote: cos’altro dovrebbero essere le scuole, se non questo? Tutti pensano allo spread che sale, alla crisi economica, ai problemi finanziari, alle manovrette politiche. Io sono più preoccupato dello sguardo triste e rabbioso di certi nostri adolescenti abbandonati a se stessi, quelli che non leggono i giornali, non guardano la televisione. Se non portiamo in salvo loro, ci perderemo tutti.
Corriere 17.11.18
Studenti in piazza contro il governo
Bruciate bandiere di Lega e 5 stelle
Da Milano a Napoli, il leader del Carroccio il più bersagliato. «Rispondo con le idee»
di Claudia Voltattorni
Roma Il più bersagliato è stato Matteo Salvini. A Roma, un manichino con le sue sembianze è stato appeso a Ponte Sublicio. A Milano era stato lanciato proprio un «No Salvini Day» e il manichino con la foto del vicepremier è stato bruciato con le bandiere di Lega e Cinque Stelle. E il nome del ministro dell’Interno ieri è risuonato un po’ in tutte le città d’Italia dove oltre centomila studenti sono scesi in piazza. Roma e Milano, ma anche Firenze, Verona, Trento, Perugia, Napoli, Bari, Campobasso, Crotone e Messina, e oggi toccherà a Bologna, Taranto e Siracusa. I cortei di liceali e universitari, promossi da Rete della Conoscenza, Unione degli studenti e Link Coordinamento Universitario, hanno attraversato le strade al grido di «giù la maschera, non è questo il cambiamento». La protesta è contro «la scuola che crolla», «lo sfruttamento nell’alternanza scuola-lavoro», i «tagli all’istruzione». Ma bersaglio dei manifestanti sono anche il decreto sicurezza («spazi liberi senza confini, no al decreto Salvini») e la politica sull’immigrazione del governo («disobbedire a leggi ingiuste»; «meno Salvini, più bangladini»). E l’altro vicepremier Luigi Di Maio diventa «Giggino La Frottola».
Ci sono stati però anche fumogeni, petardi e perfino una bomba carta che hanno creato momenti di tensione tra studenti e forze dell’ordine. A Milano soprattutto, dove, dopo le bandiere bruciate in piazza Duomo, il corteo ha tentato di sfondare il cordone di polizia per raggiungere il consolato Usa. Il corteo di Roma ha raggiunto il ministero dell’Istruzione dove un flash mob con cenere e carbone ha risposto alle parole del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti al Corriere: «Scaldiamoci con la legna che abbiamo».
E a fine giornata, il ministro ha voluto ricordare che «manifestare è un atto che rientra nella nostra democrazia, ma farlo in questo modo è incivile, maleducato, e non in linea con l’obiettivo di fare sentire certi bisogni: sono contrario a questo tipo di manifestazioni, soprattutto fatte nei confronti di chi si sta impegnando per il cambiamento del Paese». Non si è offeso invece Salvini che però con un tweet ha stigmatizzato le modalità della protesta: «Bruciare bandiere, immagini, simboli, libri... Non è bello. Noi all’odio e all’ignoranza risponderemo comunque sempre con le idee e con il sorriso».
Il Fatto 17.11.18
Studenti contro il governo, cortei in settanta piazze
di Rob. Rot.
Guidati dalle associazioni di sinistra, in particolare dalla Rete degli studenti medi, l’Unione degli studenti (Uds) e l’Unione degli universitari (Udu), gli studenti hanno manifestato in 70 piazze. Anche questa volta hanno contestato il governo: a Milano sono state bruciate le bandiere del Movimento 5 Stelle e della Lega. Nonostante l’incontro con Di Maio, il giudizio delle associazioni verso la legge di Stabilità è molto critico perché non contiene l’aumento del fondo universitario e delle borse di studio e l’estensione della fascia esentata dalle rette. “Abbiamo ricordato questi impegni al ministro Bussetti – racconta Giammarco Manfreda della Rete studenti medi – e ha detto che chiediamo la luna”. Critiche anche sull’ipotesi di riforma dell’alternanza scuola-lavoro: il governo ridurrà il monte ore soprattutto nei licei, dove l’idea è sostituire gli stage con l’orientamento universitario. Una proposta che le associazioni giudicano “classista”. Per Giulia Biazzo, coordinatrice dell’Uds, si tratta di un falso superamento dell’alternanza, che significa solo risparmi per il Miur (la riduzione delle ore porta con sé dei tagli, ndr)”.
La Stampa 17.11.18
Studenti in corteoin 70 città
“Servono più fondi per l’istruzione”
Per chiedere più fondi per l’istruzione e l’edilizia scolastica, protestare contro «i tagli e le promesse» del governo, contestare il piano «scuole sicure» e l’alternanza scuola-lavoro, gli studenti ieri e oggi sono in piazza in 70 città italiane. Oltre 100 mila ragazzi hanno sfilato al grido di: «Giù la maschera. Non è questo il cambiamento».
A Milano si è celebrato il «No Salvini day» con bandiere bruciate della Lega e del Movimento 5 Stelle, uova e petardi lanciati contro gli agenti della polizia.
La Stampa 17.11.18
Chi gioca a spaccare i 5 stelle
di Federico Geremicca
Conclusa la «campagna di mare», condotta a colpi di porti chiusi, navi sequestrate e respingimenti nel Canale di Sicilia, Salvini sembra aver avviato la sua «campagna di terra» - fatta di ruspe e grandi opere - aprendo un nuovo e inatteso fronte: quello dello smaltimento dei rifiuti. Lo ha fatto non a caso da Napoli (la conquista del Sud è un obiettivo strategico di questa nuova fase) e su un tema che si è subito mostrato capace di mandare in fibrillazione la cosiddetta «ala sinistra» del M5S. La novità di questa possibile seconda fase è proprio questa: l’obiettivo - più ancora che il consolidamento dei consensi conquistati con la «campagna di mare» - sembra infatti esser quello di acuire le tensioni interne al Movimento.
In modo da accentuare le distanze tra Di Maio e Fico, leader di un’ala ortodossa in evidente sofferenza.
Del resto, proporre la costruzione di un nuovo inceneritore in Campania - dove il Movimento Cinquestelle è nato e cresciuto proprio sulla proposta di un nuovo ciclo per lo smaltimento dei rifiuti - costituisce una provocazione che non arriva certo per caso.
L’affondo del leader leghista, naturalmente, non è affatto piaciuto a Di Maio che però, col passar delle ore, ha modificato i toni della sua reazione, passando da un intransigente «gli inceneritori non c’entrano una ceppa» ad un più prudente e preoccupato «così si creano tensioni nel governo». E l’irruzione del titolare del Viminale su un terreno nient’affatto suo, ha indispettito anche Sergio Costa, ministro dell’Ambiente, che - memore di quanto accaduto in materia di immigrazione, tema trasformato da Salvini in «emergenza» per catturare nuovi consensi - ha messo subito le cose in chiaro, spiegando che «in Campania non c’è alcuna emergenza rifiuti».
Ma è difficile immaginare che il leader leghista fermi la sua nuova campagna. A Matteo Salvini, infatti, vengono attribuiti una preoccupazione ed una tentazione. La preoccupazione è che certe posizioni grilline (soprattutto in materia di infrastrutture e giustizia) possano finire per creare problemi all’intero governo (come ha ben dimostrato la «protesta civica» di Torino); la tentazione è quella di premere il pedale sull’acceleratore - come ha fatto partendo all’attacco sugli inceneritori - per acuire le tensioni interne al Movimento fino a portarlo alle soglie di una spaccatura. È per questo che da qualche tempo gli obiettivi polemici più cari ai leghisti sono diventati proprio i ministri Toninelli e Bonafede: accusati di «pauperismo» il primo (per il suo no alle grandi opere già in cantiere) e di giustizialismo il secondo (per le posizioni in materia di prescrizione e lotta ad evasione fiscale e corruzione).
Un Movimento privo dell’ala cosiddetta ortodossa e dunque pronto a qualche compromesso (pratica che Di Maio non disdegna) potrebbe esser considerato dalla Lega un alleato meno transitorio di quello attuale. Del resto, messa quasi definitivamente nel cassetto l’ipotesi di una riedizione della coalizione di centrodestra, anche per la Lega si pone un problema di alleanze future. È vero, salvo crisi oggi imprevedibili, il tema non è ancora all’ordine del giorno: ma ci arriverà. E farsi trovare preparato in vista di un futuro imperscrutabile sta diventando una delle preoccupazioni principali del super-attivo ministro dell’Interno.
il manifesto 17.11.18
Il mutevole confine del capitalismo
Tempi presenti. Oggi, a Bookcity di Milano, un incontro con l'economista Mariana Mazzucato che ha appena pubblicato per Laterza «Il valore di tutto»
di Benedetto Vecchi
Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è la forma attraverso la quale la produzione di valore viene «realizzata» nelle forme dominanti della ricchezza sociale (denaro e profitto). È in questo passaggio che la finanza ha svolto e continuerà a svolgere un ruolo essenziale nel definire gerarchie sociali e priorità nel regime di accumulazione capitalistico.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione «parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi, bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme, incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei rapporti sociali capitalistici.
SONO QUESTE LE PREMESSE di un libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo.
In questo libro, invece, pubblicato da Laterza con il titolo Il valore di tutto (pp. 364, euro 20), l’economista si spinge molto più in là, alza cioè l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa che ne fanno un libro di agile lettura.
Il volume ha infatti molte chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo estrattivo e cosa quello di piattaforma.
Un libro, infine, da mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen, autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine come problema e non come soluzione politica).
UN LESSICO e un frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico (sono note le sue simpatie liberal che l’hanno però portata anche a dichiarazioni e collaborazioni con il Labour Party di Jeremy Corbyn).
Dunque distinzione tra produzione di valore e sua realizzazione. Al primo polo, c’è l’organizzazione produttiva, la successione di determinazioni che assume il capitale e il lavoro. Varia nel tempo e nello spazio. Ha bisogno di innovazione, di coordinamento, di uno Stato nazionale (la nazione è la forma dominante assunta dal capitalismo nella modernità) che definisca regole e produca le necessarie infrastrutture affinché l’economia funzioni.
MAZZUCATO NE OFFRE un affresco vivido, dai primi atelier sorti dopo l’accumulazione originaria di capitale fino ai campus-fabbriche ipertecnologici della Silicon Valley. Anche la finanza svolge qui la sua necessaria parte, come credito, recupero sociale dei capitali necessari per progetti imprenditoriali rischiosi, a partire dai fondi pensione, ai risparmi del ceto medio, al capitale in «eccesso» di imprese e singoli capitalisti. Il venture capital non è perciò coniglio tirato fuori in California: c’è sempre stato.
Importante è la sottolineatura dell’autrice che riguarda i capitalisti di ventura: fanno di tutto meno che rischiare. Intervengono sempre quando i maggiori rischi li ha corsi chi vuol intraprendere una temeraria attività produttiva e chi (lo Stato) ha per anni inondato di denaro università e centri di ricerca pubblici e privati. I venture capital favoriscono a posteriori il decollo di una start up, avendo come contropartita una quota esagerata di futuri profitti e salvaguardandosi comunque da possibili fallimenti. Insomma, i capitalisti di ventura cadono sempre in piedi.
C’è un però, nello schema delle tesi elaborate, che l’autrice non sempre riesce a padroneggiare. Il peso enorme assunto dalla finanza. Una spiegazione sta nel fatto che senza questa superfetazione finanziaria il capitalismo esploderebbe nelle sue contraddizioni. Ha un ruolo di stabilizzazione politica, per la gestione delle contraddizioni e disuguaglianze sociali: non per risolverle ma per renderle compatibili con la società del capitale. Echeggiano, tuttavia sempre sullo sfondo, le analisi sulla privatizzazione dei diritti sociali di cittadinanza attraverso la finanza (acquisti sul mercato pensione, assistenza sanitaria, formazione, mentre il credito al consumo assicura che la costante riduzione dei salari non si traduca in stagnazione).
PIÙ RILEVANZA hanno le tendenze all’oligopolio, presentate a ragione non come una «degenerazione» ma un fattore essenziale per imprese che hanno il pianeta come orizzonte di mercato e produttivo – le big five della Rete testimoniano tutto ciò – e di un numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato. Le diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica senza crescita di occupazione. Anche l’elusione fiscale rientra in questo carnet de doléance.
La finanza organizza infine i flussi di denaro – ormai quasi puro segno, cioè convenzione socialmente necessaria scandita da una successione astratta, automatizzata di bit e byte dentro e fuori la Rete.
Qui si addensano non pochi problemi. Non è tuttavia scontato che la «cattura» del valore sia da analizzare alla stessa stregua dell’estrazione di un minerale o dell’appropriazione violenta da parte di spregiudicati imprenditori della ricchezza sociale. Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è espressione di rapporti sociali incardinati su plusvalore relativo e assoluto (ne scrive così anche Mazzucato). Ignorare questo elemento significa condannare la critica a un posticcio costrutto etico, una romanticheria che salva tutt’al più l’anima. L’autrice non si vuol certo salvare l’anima, ma si ferma sull’uscio degli atelier della produzione. Preferisce cioè constatare gli elementi di disequilibrio, di instabilità del capitalismo, che va salvato, ripete più volte, da se stesso. Identico procedimento per il capitalismo delle piattaforme, il quale è sì intermediazione tra produzione e realizzazione del valore, ma anche fattore pienamente produttivo.
In altri termini, il focus si dovrebbe spostare sul lavoro vivo, sulla sua eterogeneità, nella sua organizzazione su base planetaria e locale. E sulla sua violenta ripartizione gerarchica in base alle competenze, la razza, il sesso, uno statuto mutevole e definito arbitrariamente della cittadinanza. L’assenza di un’analisi dei bacini del lavoro vivo dentro e fuori il capitalismo delle piattaforme conduce l’analisi a una generica richiesta di riequilibrio keynesiano nella redistribuzione della ricchezza, elemento che Mazzucato fa suo in più pagine. Ma il suo è un libro, non un programma politico. E ha molte frecce nel suo arco. La lettura non può che constatare che alcune di esse sono schioccate con efficacia.
SCHEDA
Mariana Mazzucato sicuramente ne parlerà durante le presentazione del suo ultimo lavoro «Il valore di tutto» (Laterza). Dopo aver ricevuto il niet alla sua richiesta di cittadinanza inglese per un errore di battitura, lo scenario aperto dalle reazioni negative di ministri e del partito conservatore alla bozza di accordo sulla Brexit tra Londra e l’Unione europea, sarà motivo di discussione. Un tema che ha molto a che fare con il background mondiale del testo dell’economista italiana. Tra oggi e martedì Mazzucato sarà in tre città: oggi a Bookcity (Milano, ore 19, Museo del Risorgimento, con Ferruccio de Bortoli e Marco Onado). Lunedì sarà a Bologna (ore 17.30, Archiginnasio con Romano Prodi e Massimo Giannini). Il 20 infine a Roma (ore 11, lectio magistralis all’Accademia dei Licei).
Il Fatto 17.11.18
Un’iniezione di potassio, così Marisa ha ucciso i figli
Infermiera 48enne, sposata, smonta dal turno e seda Nissen (7 anni) e Vivien (9) prima di suicidarsi: “Non ce la faccio più”
Un’iniezione di potassio, così Marisa ha ucciso i figli
di Christian Diemoz
Scendi dalla macchina ad Aymavilles, lungo la strada che poi s’inerpica nella valle di Cogne, e la prima a venirti incontro è la temperatura invernale. Tre gradi che mordono la pelle, dopo un lungo periodo di pioggia. Non c’è ancora la neve, ma in questo lembo di Valle d’Aosta, che qui chiamano envers (“rovescio” in dialetto, perché è il versante non esposto), il sole arriva tardi. I serramenti in legno scuro chiusi non lasciano comunque entrare i raggi nelle finestre dell’alloggio in cui la 48enne Marisa Charrère ha ucciso giovedì notte i figlioletti Nissen (7 anni) e Vivien (9), per poi togliersi la vita.
Il dramma si è consumato verso la mezzanotte, in una palazzina di pochi piani nella frazione Crétaz Saint-Martin di Aymavilles, 2.100 anime. Qui, sospira in preda allo sgomento il sindaco Loredana Petey, “tutti si conoscono, i bambini vanno a scuola insieme” ed è “impossibile accettare l’accaduto”.
Nello stabile, oltre alla famiglia quasi cancellata da tre iniezioni letali praticate dalla donna (infermiera all’ospedale di Aosta), vivono la sua anziana madre e un altro nucleo. È proprio la vicina, Rita, a raccontare di aver sentito “rumore di sedie, poi delle urla, quindi il silenzio. Pensavo giocassero – aggiunge – chi avrebbe mai immaginato quello che stava succedendo”. A squarciare il velo della quiete apparente è il marito di Marisa, Osvaldo Empereur, agente del Corpo forestale della Valle d’Aosta, in servizio alla stazione di Arvier. Rincasa e trova i bambini esanimi, ancora vestiti, adagiati su un divano letto nello studio. Il corpo della moglie è invece riverso a terra, in soggiorno. “È entrato in casa, ha visto la scena e poi è uscito”, prosegue il racconto la vicina, che si è ritrovata l’uomo davanti proprio in quel momento. “Mi ha detto: ‘Marisa, Marisa ha ammazzato i figli e si è ammazzata lei!’”.
Scatta l’allarme. Gli agenti della Squadra mobile, diretti dal commissario capo Eleonora Cognigni, sul posto assieme al pm Carlo Introvigne, trovano due lettere in casa. Quasi identiche, scritte a mano. “Non ce la faccio più”. Parole che, in paese, dove gli Empereur-Charrère sono molto conosciuti, riportano alla mente i due lutti importanti che la 48enne aveva dovuto affrontare. Quello del padre (avvenuto quando lei era ancora piccola) e del fratello Paolo (morto in un incidente stradale, nel 2000, a soli 20 anni). Niente che possa spiegare fino in fondo l’unico omicidio-suicidio degli ultimi dieci anni in questa valle.
I colleghi del reparto di Cardiologia hanno visto Marisa in turno ancora nella notte tra mercoledì e giovedì: aveva “lavorato da ‘ottima infermiera’” e “parlato dei suoi figli da ‘ottima mamma’”.
L’ipotesi degli inquirenti è che, proprio dal nosocomio aostano, Charrère abbia portato a casa il potassio usato per sedare e uccidere prima i bimbi, poi se stessa. La stessa sostanza usata per le iniezioni letali negli Stati Uniti. La conferma è attesa dall’autopsia e dagli esami tossicologici disposti dalla Procura sui tre cadaveri.
Se la triste sequenza sembra lasciare pochi dubbi, nulla, per le persone nei cento metri tra la casa e le scuole primarie frequentate da Nissen e Vivien, faceva anche solo sospettare un “male di vivere” pronto a esplodere. “Li avevo visti, Marisa e i bimbi, sabato scorso, per l’insediamento del nuovo Parroco – si tormenta il sindaco Petey – e sembrava assolutamente tutto in ordine”.
Nemmeno l’altro vicino, Simone Reitano, ha mai “notato avvisaglie”, né ha “mai sentito litigare la coppia”. “Una famiglia affiatatissima”, sottolinea a voce bassa. Ricorda come spesso andassero “a fare passeggiate in montagna”, i piccoli “che ancora ieri giocavano qui in bici”. “Una famiglia normale, che partecipava alla vita del paese attraverso il volontariato”, gli fa eco il vicesindaco Fedele Belley.
Fino a una notte di novembre (lo stesso mese in cui, diciotto anni fa, il fratello di Marisa rimase ucciso alla guida di uno spartineve), in cui qualcosa si è rotto. Per sempre.
La Stampa 17.11.18
Uccisi a 7 e 9 anni dalla mamma
Lettera al marito: “Ora soffri tu”
L’infermiera si è suicidata: aveva preso i farmaci in ospedale e preparato l’iniezione I vicini di casa: “Non salutava più. Ora anche Osvaldo rischia di fare una pazzia”
Una donna di 48 anni, Marisa Charrère (sopra) ha ucciso i figli e poi si è tolta la vita. È accaduto in un’abitazione nel centro di Aymavilles, paese a pochi chilometri da Aosta
di Lodovico Poletto
Dicono che Marisa non abbia mai detto una parola a nessuno delle sue pene. E dicono anche che il piano lo abbia studiato per settimane, ostaggio di quella disperazione che si portava dentro. Marisa ha preso i farmaci in ospedale e ha preparato il veleno. Marisa ha ucciso i suoi bambini con una puntura. Poi ha scritto al marito: «Mi hai spento il sorriso». Mi hai fatto soffrire: «Adesso soffrirai tu». Poi ha afferrato l’ultima siringa, se l’è piantata nel braccio e si è lasciata andare tra il frigo e il tavolo da cucina.
Marisa Charrère era un’infermiera del reparto di Cardiologia dell’Ospedale di Aosta. Vivien e Nissen avevano 9 e 7 anni ed erano bellissimi come lo sono tutti i bimbi a quell’età. E a guardarla adesso, ventiquattr’ore dopo che l’orrore è stato scoperto, viene da pensare che questa non è soltanto la storia di un omicidio-suicidio. Questa è una vendetta. «Dì a tutti che i bimbi sono morti per colpa del gas» ha scritto Marisa su quei fogli. Come se potesse salvare almeno la faccia davanti alla gente di Aymavilles, tremila anime, le montagne che fanno da sipario in questa Valle d’Aosta che sembra custodire troppe storie malate di mamme assassine.
La cronaca di questa vicenda pazzesca, e non ancora del tutto chiarita, racconta che verso la mezzanotte di giovedì Osvaldo Empereur, il marito di Marisa, è rientrato a casa. E che quando ha scoperto che il suo mondo non c’era più, si sia messo a gridare così forte che mezzo paese lo ha sentito. Ed è corso in piazza, davanti alla chiesa, dove ci sono il lavatoio e la scala che porta alla casa di questa tragedia assurda. Lui era lì, sugli scalini, piegato sulle ginocchia, che piangeva e gridava. E Simone Reitano, un ragazzone che abita lì vicino, cercava di calmarlo, facendogli le carezze sulla testa, come si fa con gli animali feriti.
Dodici ore più tardi la casa di Marisa e Osvaldo ha le porte e le finestre sbarrate da scuri di legno massiccio. Lui è in ospedale, gli hanno dato dei sedativi. Chi lo ha incrociato l’altra notte, invece, racconta che, come una nenia, ripeteva i nomi di Vivien e di Nissen. Su di lei, su Marisa, neanche una parola. Come se non esistesse più, o addirittura non fosse mai esistita. Come se avesse compreso il perché di questa vendetta, di questa strage che gli ha tolto tutto. Carlo Introvigne il magistrato che deve far luce su questa storia dice: «Addosso a quella donna gravava il peso insopportabile delle avversità di tutta una vita». Che vuol dire tutto e niente. Dentro cui puoi farci stare il dolore per la morte di un fratello, qualche anno fa, e una spiegazione qualunque a quella frase che nella lettera suona più o meno: «Adesso tocca a te soffrire». Come se uccidere i figli fosse la strada più atroce pensata per fargli espiare una colpa «enorme». Di cui, però, in paese nessuno riesce - o vuole - immaginare la natura.
E allora qual era il segreto di Marisa e di Osvaldo? Che cosa c’era dietro i silenzi di lei professionista integerrima all’ospedale. Al bar da «Quota 8000» , alle quattro del pomeriggio, oste e cliente s’indignano per le voci. «Io sono stato con loro a cena in trattoria. Dovevate vedere com’era paziente». E lui? «Eh, se non gli stanno vicino quello adesso è capace che fa una pazzia».
Se si vuole capire com’era lui bisogna però andare a bussare a due metri da questa casa sprangata. Antonio, il pizzaiolo calabrese, sa tutto, o quasi. Osvaldo? «Un tipo curioso, brillante simpatico» Marisa? «La conosco poco, la vedevo raramente». Facevano vite separate? «Non credo, ma da me veniva soltanto lui, e a volte Vivien. Il bimbo l’ho visto l’ultima volta a inizio novembre».
E Marisa? L’ultimo ricordo è della mamma di un alunno che frequenta le elementari del paese. Era il giorno in cui gli insegnanti incontrano i genitori. «Eravamo sedute vicino. Le ho domandato se aveva una penna per prendere due appunti. Neanche mi ha guardata: mi ha trattata come se fossi trasparente». Che è un po’ quel che dicono tutti da queste parti: non salutava quasi più nessuno. Marisa già pensava alla sua vendetta. Tre siringhe e un po’ di farmaci per uccidere. Due fogli e una penna per scrivere - seppur con altre parole- «Ti odio» a chi l’aveva fatta soffrire.
Repubblica 17.11.18
Aosta
Marisa, i figli uccisi e la lettera al marito "Mi hai reso infelice"
I due bambini di 7 e 9 anni avvelenati con un’iniezione di potassio La mamma, infermiera, lo aveva preso in ospedale. Poi si è suicidata
di Sarah Martinenghi,
Dalla nostra inviata
Aymavilles «Mi hai tolto il sorriso e ora io lo tolgo a te » . C’è tutta la disperazione e la sofferenza di una vita infelice diventata « insopportabile » dietro il gesto più terribile che Marisa Charrère potesse compiere, uccidendo i suoi due figli di sette e nove anni e togliendo la vita anche a se stessa. Giovedì sera, nella piccola Aymavilles, poco più di 2000 abitanti a pochi chilometri da Aosta, la decisione di un’assurda vendetta verso quel piccolo mondo che non sopportava più e anche verso il padre dei suoi bambini, Osvaldo Empereur, guardia forestale, ha preso il sopravvento, aggiungendosi al dolore per un matrimonio in cui non si riconosceva più. Marisa, 48 anni, ha sedato i suoi figli, prendendo dei farmaci dall’ospedale Parini di Aosta in cui lavorava come infermiera nel reparto di cardiologia e li ha uccisi con un’iniezione letale di potassio. A trovare i corpi è stato il marito, rientrato a casa verso mezzanotte. La moglie era riversa a terra, lui si è precipitato a cercare Nissen e Vivien. I suoi figli erano al piano di sotto su un divano letto nello studio. « Marisa, Marisa ha ammazzato i figli e si è ammazzata lei»: le sue urla strazianti hanno svegliato i vicini, subito accorsi, ma ormai non c’era più niente da fare.
Non ha lasciato parole di scuse, ma ha messo nero su bianco « il peso diventato insopportabile » della sua vita. « Mi hai tolto la felicità? E ora io la tolgo a te per sempre», sarebbero le accuse lanciate al marito. Con due lettere scritte con lucida disperazione spiega così, infatti, la decisione di sgretolare tutto il suo mondo, privando però nello stesso tempo sia il marito, sia la madre Maria, a cui la vita aveva già riservato due tragedie familiari, dell’affetto e della presenza di Nissen e Vivien. Nel 2000 la madre Maria aveva perso l’altro figlio, Paolo, rimasto vittima di un incidente stradale mentre spalava la neve, mentre alcuni anni prima era mancato anche il marito. Per questo la donna viveva per la figlia e i suoi due nipoti: la sua casa è proprio sotto la loro, al piano terra di una piccola villetta bifamiliare in pieno centro nel paese. Era la nonna ad occuparsi dei bambini mentre i genitori erano fuori al lavoro. Uno shock troppo grande da sopportare, quello che è successo, tanto che sia lei che Osvaldo hanno accusato un malore e hanno avuto bisogno di cure. La donna è rimasta chiusa in casa con i parenti, lui è stato portato con l’ambulanza in ospedale e ricoverato in psichiatria. Disperato, ha chiesto di poter vedere i suoi figli un’ultima volta ancora. Il pm Carlo Introvigne ha disposto l’autopsia per accertare le modalità con cui i bambini sono stati uccisi.
Nessuno ad Aymavilles si era accorto della sofferenza di Marisa. Tutti in paese la descrivono come una persona sorridente e gentile, una famiglia perbene. « Mai grida fra di loro, o forti litigi — racconta Simone Reitano, un ragazzone, cuoco di professione, che abita proprio nel piccolo appartamento sotto alla coppia, di fianco alla madre di Marisa — anche d’estate avevano sempre le finestre aperte e non mi sono mai accorto di problemi tra di loro. I due bambini erano sempre qui a giocare con il pallone o a girare in bicicletta ».
Agli occhi di tutti quella sembrava una coppia serena. « Avevo visto lei sabato, quando è arrivato il nuovo parroco, e tutto sembrava a posto» racconta la sindaca Loredana Petey. Anche a scuola, dove ieri sono arrivati gli psicologi per spiegare ai bambini che non avrebbero più visto i loro compagni, la donna viene descritta come una « madre sorridente e presente, sempre collaborativa così come il padre. Sembravano una famiglia unita».
Nemmeno alle colleghe del lavoro la donna aveva confidato un malessere così insopportabile. Tanto che le infermiere hanno deciso di scrivere una lettera in cui ricordano quanto amasse i suoi figli, « nei momenti di pausa sia al lavoro sia fuori ha sempre manifestato l’indole di una mamma attenta ai bisogni dei figli, dedicata alla famiglia con un amore che solo le mamme sanno comprendere — scrivono — era rammaricata di averli avuti da grande ma questo era un motivo per accompagnarli sempre, anche nelle attività sportive ». E per quanto la donna avesse preventivato la decisione di farla finita, sottraendo i farmaci dal suo reparto, nella sua macchina parcheggiata nel piccolo cortile davanti a casa ha lasciato i segni delle sue attenzioni per la vita familiare. La scorta di carta igienica per l’inverno sul sedile davanti, fatture e bollette, un bagagliaio pieno di giochi dei bambini. Il pallone da calcio.
Era però soprattutto il papà, che fa parte del gruppo sportivo del corpo forestale della Valle d’Aosta, a seguire i piccoli nello sci club, a fare con loro camminate in montagna. Viveva per loro, e ora ha perso tutto. « Venivano sempre alle gare, il nonno, la mamma e il papà, si fermavano a pranzo e tutto sembrava andare bene», raccontano allo sci club di Aymavilles.
Lo sgomento del paese si percepisce nei volti tirati dei suoi abitanti, che temono telecamere e giornalisti ricordando il caso di Cogne, 23 chilometri più in su: la strada che porta al paese in cui viveva Annamaria Franzoni è la stessa.
Il fratellino più piccolo Nissen, 7 anni, era il minore dei due figli di Marisa Charrère, l’infermiera che ha ucciso i suoi due bambini con una iniezione di potassio, preso all’ospedale Parini di Aosta dove lavorava
Repubblica 17.11.18
La tragedia di Aosta
Le parole non dette
di Michela Marzano
«Non ce la faccio più». È così che Marisa Charrère ha scritto in una lettera indirizzata al marito poco prima di iniettare ai suoi due bambini una dose letale di potassio, sistemare i corpi dei piccoli sul divano-letto del soggiorno, e uccidersi anche lei. Una tragedia silenziosa, inimmaginabile. Visto dall’esterno, per quest’infermiera di Aymavilles di 48 anni, tutto sembrava andasse bene: nessun litigio apparente col marito, nessun problema economico, nessuna inimicizia in paese, nessuna avvisaglia di malessere. Certo, Marisa in gioventù aveva sofferto molto per la morte precoce del padre e del fratello, entrambi vittime di incidenti stradali. Ma erano dolori antichi, no? Perché non ce la faceva più? Di cosa poteva mai soffrire questa donna che tutti descrivono come gentile, serena e affabile con chiunque?
« Il dolore è ancor più dolore se tace » recita un verso di una poesia di Pascoli, forse una delle più belle, in cui il poeta cerca di spiegare non solo come a forza di essere taciuto il dolore si trasformi in una prigione, ma anche come l’unico modo per cercare di attraversarlo sia, appunto, provare a nominarlo. Trovare le parole per dirlo, quindi. E individuare la maniera giusta per comunicarlo anche agli altri. Nonostante sia proprio di fronte ai dolori più grandi che le parole vengano meno e che, in una società che fa delle "urla", delle "grida" e delle "lamentele" una modalità esistenziale, il silenzio appaia come l’unico strumento a nostra disposizione per preservarci dalla " spettacolarizzazione della sofferenza". Come si fa d’altronde a spiegare che, nonostante tutto sembri andare per il meglio, c’è una sofferenza che ci abita, un vuoto che ci inghiotte, una fatica estrema anche solo per alzarsi la mattina e fare una dopo l’altra tutte le cose che ci si aspetta da noi? Come si fa a trovare le parole giuste per condividere la sensazione di non farcela più, la voglia di mollare tutto, la disperazione di fronte a un futuro che sembra non dare alcuna alternativa? Certe cose, dall’esterno, non si riescono né a vedere né a capire. Certe cose, dall’esterno, sembrano brillare anche laddove sono circondate dalle tenebre. Lungi da me cercare una spiegazione o una giustificazione per il terribile gesto commesso da Marisa. Ammazzare i propri figli e ammazzarsi resta un gesto disperato, irreparabile, e le uniche domande che sembrerebbe legittimo porsi riguardano il perché questa donna non abbia né chiesto aiuto né parlato con qualcuno di quello che stava vivendo e delle ombre che forse velavano il suo rapporto col marito. Subito prima di chiedersi anche cosa sapessero realmente di Marisa tutti coloro che oggi affermano che non c’era assolutamente alcuna avvisaglia e che tutto, nella sua famiglia, sembrava andasse bene. Perché poi, in fondo, è questo il vero dramma della nostra società: l’apparenza. Le cose appaiono in un certo modo, e non si fa mai lo sforzo di andare al di là dell’apparire per vedere e ascoltare e capire ciò che forse non appare ma che c’è, e che distrugge dall’interno la vita di tante persone.
La Stampa 17.11.18
Arrestato l’adescatore seriale con 8 mila video pedopornografici
Hanno trovato anche dei video dove si vedono ragazzine che vengono torturate brutalmente, tra gli ottomila file (soprattutto foto) sequestrati nell’abitazione di un operaio edile residente in Valbisagno, a Genova.
L’uomo aveva catalogato le immagini e i filmati in un hard disk, con descrizioni della tipologia di violenze e l’età delle protagoniste; lasciando senza parole, per la sua meticolosità, perfino gli agenti della polizia postale che lo hanno arrestato e portato in carcere.
Era da due mesi che gli uomini del vicequestore aggiunto Tiziana Pagnozzi stavano dietro al quarantenne, da quando era stato trovato in possesso di materiale informatico illegale; quelli della postale hanno faticato un bel po’ a scoprire chi si nascondesse dietro l’indirizzo Ip (l’etichetta numerica che identifica univocamente un pc) dal quale partivano richieste a sfondo sessuale alle utenti con meno di 18 anni dei social network più frequentati.
Sulle tracce dell’orco
La persona che si celava con una serie di sotterfugi telematici piuttosto complessi, dopo aver chiesto l’amicizia e conquistata la fiducia, dalle minori voleva soprattutto fotografie senza veli.
Ma non c’era solo un’attività, per così dire, alla luce del sole: l’orco si muoveva in quello che in gergo viene chiamato deep web, ovvero la rete sommersa. Lì l’uomo condivideva e acquisiva video e filmati di bambine abusate e donne seviziate. Così gli 007 in divisa lo hanno attirato in una trappola e lo hanno identificato, scoprendo che era un soggetto pericoloso, dato che in passato era stato condannato a quattro anni per tentata rapina e violenza di alcune prostitute (di cui una minorenne).
Anche in quel caso era stato Internet il suo grimaldello: abbordava le escort sui social network e dava loro appuntamento per raggiungere insieme le colline genovesi. Poi mostrava la sua vera identità: violenza, rapina e fuga. Insomma, una personalità socialmente pericolosa: un «accumulatore compulsivo» di materiale pedopornografico e insieme un «violentatore seriale»: per questo il vicequestore Pagnozzi e il commissario Danilo Bisio hanno parlato con il sostituto procuratore Gabriella Dotto; e il pm ha chiesto il provvedimento cautelare al gip Paola Faggioni.
La polizia postale, con il mandato di perquisizione in mano, si è presentata alla porta dell’indagato e una volta nel suo appartamento si è messa alla ricerca dei file che aveva scaricato grazie alla rete sommersa o carpendo la fiducia delle utenti dei social cadute nelle sue grinfie.
Neppure gli agenti però credevano di trovare così tanto materiale, tra fotografie e filmati erano ottomila documenti. Dopo aver fatto scattare le manette gli inquirenti stanno visionando tutto. Ci vorrà del tempo e soprattutto stomaco, dato che alcuni file sono davvero strazianti.
il manifesto 17.11.18
Israele, perché un falco si dimette?
Tel Aviv verso nuove elezioni. Da ministro, Lieberman ha dovuto attenuare i toni, dovendo guidare quei militari che in base ai canoni politici locali appaiono paradossalmente come la parte più «moderata» del paese. L’élite dominante non ha alcuna intenzione di arrivare a reali trattative di pace con i palestinesi. Ora è Naftali Bennett, sostenuto dai coloni, a candidarsi alla Difesa
Dimissionario, Avigdor Lieberman ha lasciato la guida del ministero della Difesa
di Zvi Schuldiner
GERUSALEMME Le dimissioni del ministro della difesa di Israele, Avigdor Lieberman, hanno provocato interpretazioni e reazioni contrastanti: da quelle molto moderate o soddisfatte in Israele, a quelle festose nella striscia di Gaza. Un trionfo dei «moderati»?
Lieberman aveva promesso che se fosse diventato ministro della difesa, avrebbe liquidato in 48 ore Ismail Haniyeh, il leader di Hamas. Il falco che prometteva un ricorso alla violenza sempre maggiore, che chiedeva misure sempre più drastiche e aggressive, aveva attenuato i toni una volta nominato a una carica ambita da molti. Di colpo si era trovato a guidare una forza militare che con il metro di misura israeliano può essere considerata attualmente la parte più moderata del paese.
L’esercito e gli altri organismi dell’apparato di sicurezza hanno mantenuto una certa capacità di affrontare la congiuntura che Israele attraversa. In seno all’esercito e agli organismi di sicurezza ha prevalso negli ultimi anni la necessità di mantenere contatti positivi con l’Autorità palestinese; e quanto a Gaza, l’esercito ha continuato a mostrarsi favorevole a un miglioramento della situazione interna, in riferimento alle necessità della popolazione civile. Allo stesso tempo gli organismi di sicurezza erano ben coscienti che Hamas è una realtà, è la forza dominante a Gaza.
Il governo israeliano, l’élite dominante non hanno alcuna intenzione di arrivare a reali trattative di pace. Nel 2005, quando Sharon decise che Israele si sarebbe ritirata da Gaza, la destra radicale si oppose. Ma se la destra si oppone a qualunque ritiro dalle terre occupate nel 1967, per me era altrettanto chiaro che il piano era quello che alcuni collaboratori di Sharon spiegavano così: rinunciamo a Gaza unilateralmente per assicurarci l’annessione della Cisgiordania. Il governo di Sharon non parlò nemmeno con Abu Mazen e contribuì alla vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Da lì a poco si verificò il sanguinoso golpe di Hamas contro l’Olp a Gaza e la separazione fra Gaza e Cisgiordania si fece sempre più acuta e reale.
Non ci sarà pace senza unità palestinese; per Netanyahu e la leadership israeliana la separazione fra Gaza e Cisgiordania è un obiettivo importante; sanno che quest’ostacolo alla pace gioca un ruolo decisivo. Dopo anni di occupazione, parlare con l’Olp era un crimine, esibire la sua bandiera era un tradimento, eccetera. Dopo Oslo, parlare con Hamas è un crimine, un tabù, nemmeno i moderati osano sostenere l’idea di un dialogo con Hamas.
E improvvisamente, quando la situazione a Gaza arriva ai suoi estremi più inumani e brutali, la problematica arena mediorientale si muove in modo sempre più complicato: si potrebbe arrivare a «regolarla» in due o tre anni, dicono gli egiziani a Israele. Netanyahu, l’alleato più entusiasta di Trump, tesse rapporti con Mohammed bin Salman in Arabia saudita, con l’Oman, con al-Sisi. Il presidente egiziano, che ha diversi strumenti a disposizione per far pressione su Hamas e sugli abitanti di Gaza, è diventato il mediatore più attivo fra Hamas e gli israeliani. Netanyahu, che non ha alcuna intenzione di portare il paese ad una vera pace, sa che un’altra guerra sarebbe forse più disastrosa per gli israeliani di quella precedente.
L’esercito e gli organismi di sicurezza favorivano chiaramente una distensione della situazione e hanno più volte avvertito che un disastro umanitario a Gaza avrebbe ripercussioni negative anche in Israele. Il «moderato» primo ministro, appoggiato dall’establishment della sicurezza e spinto dai paesi arabi e forse anche da alcune esortazioni di Trump, aveva capito che il cosiddetto «aggiustamento» era la soluzione migliore, avrebbe ridotto la pericolosità della situazione a Gaza, avrebbe migliorato i rapporti con i paesi arabi e cementato la divisione fra Gaza e Cisgiordania.
Dal canto suo, Abu Mazen ha condotto una politica criminale nei confronti di Gaza; l’obiettivo era il nemico Hamas, ma era chiaro che la popolazione pagava un prezzo terribile per l’accerchiamento da parte israeliana e i passi problematici da parte di Abu Mazen. Quando il Qatar si è offerto di pagare il petrolio necessario alla fornitura di elettricità e anche una parte dei salari ai dipendenti di Hamas, lo stesso Abu Mazen ha dovuto moderare la propria opposizione e il circo si è arricchito con l’arrivo in Israele di un inviato del Qatar con una cassaforte di 15 milioni di dollari che è andato a distribuire a Gaza.
Negli ultimi mesi Liberman ha più volte dichiarato pubblicamente e in modo aperto la sua opposizione all’«aggiustamento». Il ministro dell’educazione Bennett, ancora più estremista di Liberman, ha attaccato ripetutamente il ministro della difesa e l’idea dell’«aggiustamento» – ma senza attaccarne il vero architetto, il premier.
Quando, all’inizio della settimana, un’azione supersegreta di una segretissima unità israeliana ha provocato sette morti palestinesi nei bombardamenti, questi ultimi hanno reagito con una pioggia di missili che ha costretto decine di migliaia di israeliani a correre nei rifugi. Il pericolo di un’altra guerra è diventato evidente; l’intervento degli egiziani e di altri ha portato a un cessate il fuoco che per la maggioranza degli israeliani significa «una resa ad Hamas». Poche ore dopo il cessate il fuoco, molti israeliani della zona di frontiera hanno manifestato contro Netanyahu con un messaggio chiaro: arrenderci al terrore significa che Hamas può farci impazzire di nuovo quando vuole. Secondo un recentissimo sondaggio, il 74% degli israeliani non approva la linea adottata dal premier.
Lieberman si dimette e il partito di Bennett lancia un ultimatum a Netanyahu: o Bennett diventa ministro della difesa oppure abbandoniamo la coalizione e si va a votare. Nelle ultime ore tutti gli esiti appaiono possibili. Bennett sarebbe ancor peggio di Lieberman e favorirebbe prima di tutto la propria base elettorale negli insediamenti dei territori occupati. Netanyahu lo sa e può essere che questo lo porti a prendere una decisione che non avrebbe altrimenti assunto: andare a elezioni decise da altri. Nella coalizione c’è chi già parla di elezioni ed è difficile in queste ore prevedere quale sarà l’esito delle dimissioni di Liberman.
il manifesto 17.11.18
Genocidio cambogiano
Cambogia. 40 anni dopo l’esperienza della Kampuchea Democratica di Pol Pot, gli ultimi due capi dei khmer rossi sono stati condannati per lo sterminio della minoranza musulmana e vietnamita
di Emanuele Giordana
La Corte straordinaria della Cambogia, un organismo giuridico misto creato dall’Onu, ha condannato ieri a Phnom Penh per genocidio Nuon Chea e Khieu Samphan, gli ultimi due capi khmer rossi al vertice della Kampuchea Democratica di Pol Pot, artefice di uno dei maggiori stermini di massa della seconda metà del secolo scorso.
I DUE VECCHI sono già stati condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità ma la rilevanza della notizia sta nell’uso di quella parola: «genocidio».
Che, finora, non era mai stata usata ufficialmente e legalmente nelle sentenze di una corte che non prevede la pena capitale e che dunque non ha potuto che reiterare la condanna già in essere alla catena perpetua. Vittoria del diritto? La parola fine a uno degli episodi più bui del secolo breve? O, come qualcuno dice, una beffa che arriva a quarant’anni – e con milioni di dollari spesi – dalla fine del breve regime del terrore istituito da Pol Pot e dai suoi sodali in Cambogia tra il 1975 e il 1979?
Per dirla tutta la condanna di genocidio non riguarda effettivamente quell’oltre milione e mezzo di cambogiani (le stime variano tra 1,5 e 2 milioni) che perirono per fame e stenti o che finirono nella macchina delle epurazioni che aveva nella prigione di Tuol Sleng, ora museo dell’orrore, la sua icona nella quale si entrava vivi e si usciva solo da morti.
La condanna riguarda quanto i khmer rossi fecero alla minoranza musulmana dei Cham (un’antica popolazione migrata a Nord dall’Indonesia in epoca remota) e a quella vietnamita in onore a una frase di Pol Pot che voleva anche l’«ultimo seme» di quella comunità spazzato via dalla sua nuova Cambogia che aveva ricominciato dall’anno zero. Per quel milione e mezzo di cambogiani uccisi, la parola genocidio non è stata formulata dalle legge internazionale che dal 1997 è rappresentata dalla corte straordinaria (Eccc) concordata dall’Onu con l’allora reame cambogiano.
PER QUEI CRIMINI, sia Nuon Chea sia Khieu Samphan sono già stati condannati alla prigione a vita quattro anni fa; eppure le loro vittime, dicono i critici del concetto di genocidio che regola l’azione delle nazioni Unite, furono l’oggetto di un’azione genocidaria seppur i carnefici appartenessero alla loro stessa comunità.
Infine non si può nemmeno dire che la partita khmer rossi sia definitivamente chiusa. Ci sono almeno altri quattro responsabili già individuati e che meriterebbero di essere giudicati dalla corte speciale. Ma chi si oppone è Hun Sen, premier d’acciaio e dittatore tollerato: ex khmer rosso poi passato al Vietnam, fu tra coloro che guidarono l’invasione vietnamita e che da Hanoi fu posto a comandare la nuova Cambogia filovietnamita.
HUN SEN VUOLE CHIUDERE la partita che dunque lascia solo alla Storia un giudizio non solo sui criminali di guerra ma sugli attori esterni – da Pechino a Washington, da Londra ad Hanoi – che, più o meno direttamente, appoggiarono i khmer rossi oppure li combatterono in un «Grande Gioco» asiatico dove la Cambogia fece la fine dell’Afghanistan e dove i khmer rossi furono assassini ma anche eroi, burattini i cui fili venivano tirati fuori dal Paese. Una brutta vicenda che in tribunale non è mai entrata.
Nuon Chea, 92 anni, la pelle incartapecorita e slavata, era il «fratello numero due», l’ideologo che con Pol Pot, al secolo Saloth Sar, ideò la Cambogia pura dell’anno zero. Khieu Samphan, 87 anni, era invece l’ex capo di Stato. Entrambi ebbero la condanna del carcere a vita nel 2014. Non da soli. Kaing Guek Eav, meglio noto come «Duch», l’uomo che reggeva le sorti di Tuol Sleng – l’ex liceo della capitale conosciuto anche come S-21 – ha lui pure avuto l’ergastolo: condannato a trent’anni del 2010 si è visto commutare la pena nel carcere a vita due anni dopo.
MA HA SCAMPATO L’ACCUSA di genocidio proprio perché S-21 era la galera dedicata ai cambogiani ribelli. Lui però in prigione non c’è: la malattia lo ha fatto ricoverare in un ospedale a Phnom Penh dove deve aver visto il processo in tv. È andata bene anche al «fratello numero tre», al secolo Ieng Sary, che l’ergastolo lo aveva già avuto nel 2007: membro del Comitato centrale e ministro degli Esteri, è morto nel 2013 scampando così al processo per genocidio. A sua moglie Ieng Thirith, ministro e sorella della prima moglie di Pol Pot, è andata ancora meglio. È deceduta nel 2015 senza mai esser giudicata: ormai arteriosclerotica non era in grado, si disse, di affrontare il processo.
SCAMPARONO IL PROCESSO anche Ta Mok, il «macellaio», morto in carcere nel 2006 e Son Sen, il capo dell’esercito cambogiano, morto nel 1997. Ma l’imputato per eccellenza, che non ha mai visto né un giudice né un carceriere e che è morto nel suo letto di guerrigliero nelle montagne del Nord, è il «fratello numero uno», Pol Pot, passato a miglior vita nel 1998.
La morte di Pol Pot, primo ministro della Cambogia dal 25 ottobre 1976 al 7 gennaio 1979 (i suoi vice erano Ieng Sary, Son Sen e Vorn Vet, ucciso a S-21 nel 1978) è un piccolo giallo. Le cronache dicono che sia morto di un attacco di cuore mentre aspettava la macchina che avrebbe dovuto consegnarlo alle autorità cambogiane secondo un piano concordato da alcuni del vertici khmer rosso, tra cui Ta Mok.
Ma secondo il giornalista Nate Thaye, che lavorava per la Far Eastern Economic Review, si sarebbe ucciso con una dose eccessiva di Valium e clorochina. Proprio per sfuggire l’onta di un processo. Per genocidio o altro, probabilmente per lui non avrebbe fatto differenza.
Corriere 17.11.18
Khmer Rossi in Cambogia, finalmente condannati anche per genocidio
di Marco Del Corona
Che avessero contribuito a concepire e attuare uno dei maggiori massacri di un già molto insanguinato Novecento era verità acquisita, e infatti Nuon Chea e Khieu Samphan erano stati condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità e per altri capi d’accusa dal tribunale misto (cambogiano e internazionale) istituito nel 2006 per giudicare i capi dei Khmer rossi. Nuon e Khieu, 92 e 87 anni, sono tutto ciò che rimane della leadership del movimento rivoluzionario ultramaoista e ultranazionalista guidato da Pol Pot (1925-1998) che fra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 eliminò circa un milione 700 mila persone. Ieri la corte di Phnom Penh li ha giudicati colpevoli di genocidio, per aver deliberatamente spazzato via dalla Cambogia due gruppi etnici: i vietnamiti, deportati e massacrati, e di questo sono colpevoli entrambi; e la minoranza dei musulmani cham (almeno 100 mila vittime), di questo colpevole solo Nuon Chea, «fratello numero due» dopo Pol Pot. La purezza della razza, la ricerca di una cambogianità perfetta in un Paese da riportare alla grandezza dell’impero di Angkor erano elementi costitutivi della rivoluzione, ma mancava la sanzione giuridica: aver provocato la morte del proprio popolo con uccisioni sistematiche, superlavoro, fame e malattie configurava piuttosto quello che alcuni studiosi indicano come «democidio», mentre finora non si era arrivati a circoscrivere con nettezza anche il genocidio. Nella sostanza non cambia molto: massacro era, massacro resta, e ai sopravvissuti rimane il conforto almeno di un simulacro di giustizia. Ma il processo, costato 300 milioni di dollari e ora sostanzialmente in esaurimento, serve anche a rammentare che la storia è costituita da fatti, e verificati i fatti è possibile dare un nome alle cose. Ed è chiamando le cose con il loro nome che possiamo guardare al passato come a una mappa per il mondo e per l’anima.
La Stampa TuttoLibri 17.11.18
Se il dio Eros ti squarcia il petto può uscirne qualcosa di buono
Elena e Menelao, ma anche Pericle e Atene, Socrate e i discepoli ovvero seduttori e sedotti Un viaggio nell’antica Grecia alla ricerca della forza che porta a non avere paura di niente
di Angelo Guglielmi
L’abisso di Eros è lo straordinario viaggio di Matteo Nucci nell’Atene del V secolo a.c.(il momento più alto della cultura della Grecia antica). Domandandogli un giornalista che cosa direbbe Pericle oggi sul timore dei migranti Nucci ha risposto: li inviterebbe a non avere paura, portando come luminoso esempio Mimmo Lucano sindaco di Riace non soltanto per l’accoglienza praticata ma per avere capito che Riace poteva rinascere con persone che avevano voglia di futuro. In breve Mimmo Lucano, immaginandolo cittadino della felice Atene, avrebbe aperto la sua mente all’irruzione del dio Eros che, invitato dall’apertura scavata da Afrodite dea del desiderio, entrando, avrebbe squarciato la sua anima non a favore degli istinti (degli appetiti) che risiedono nella sua parte più bassa ma della consapevolezza e intelligenza che ha sede nella sua parte più alta.
Ho fatto ricorso al caso Riace in cerca di aiuto per consentirmi la possibilità di accendere appena un lampo di luce sulla grandiosità del pensiero, i costumi e i comportamenti che animavano la cultura di Atene del V secolo a.c. sulla quale Matteo Nucci con questo suo saggio-romanzo esercita uno scandaglio così potente e dettagliato di cui non si può riferire su un giornale che in versione assolutamente frettolosa. Quel secolo (quella età) era il secolo certamente di Pericle e di Lisia ma soprattutto di Platone e di Socrate , di Tucidide e di Saffo, di Euripide e di Aristofane. Era il secolo in cui Eros, che Esiodo qualche secolo prima aveva posto a l’ origine del mondo, si manifesta con una tale forza costituente, dilagando come un liquido nei meandri più reconditi e nella pratica quotidiana della società di allora. Eros, scrive Matteo Nucci, è la divinità che dà inizio alla generazione. La divinità che fa tremare le gambe, sottomette il raziocinio, spinge all’accoppiamento e alla riproduzione. E lo confermano due straordinari autori che nel V secolo a.c. - dunque almeno tre secoli dopo Esiodo - ne leggevano le opere (i versi: Esiodo si esprimeva in poesia). I due pensatori che ancora oggi noi conosciamo come due vette indiscusse della filosofia occidentale, Platone e Aristotele, non lasciano spazio al dubbio. Eros è la potenza che governa il cosmo. E’ la potenza divina capace di avere la meglio su qualsiasi altra mente divina. Dunque un principio che manifesta la sua estraneità e la sua superiorità rispetto a tutto ciò che segue.
E a noi, cittadini di oggi, non è consentita alcuna possibilità di distrazione né di identificazione e solo meravigliarci che qualche tratto (tutt’altro che marginale) della nostra modalità di essere era presente (con tutt’altro intendimento e estensione) nel miracolo di quella antica cultura. «Ingannare per dire il vero», è il convincimento massimo di Platone. «Impossibile riprodurre la realtà se si vuole mostrare il vero». E Socrate non è «l’uomo che aveva fatto dell’ignoranza e della continua tensione verso il sapere la sua ragione di vita»? Che «il sedotto è anche il seduttore»? Che «non esiste letteratura senza menzogna (che il potere del racconto non sta nel suo realismo ma in ciò che libera nell’anima di chi lo legge)»?
Questi, e molti altri ribaltamenti di significato (che sono anche i nostri - di oggi) Nucci ci dice essere presenti nella antica Grecia ma in loro per la ricchezza della loro cultura, noi per sfuggire all’impoverimento della nostra.
La Stampa TuttoLibri 17.11.18
“Noi inglesi siamo un popolo di brocchi
per questo abbiamo scelto la Brexit”
“Noi inglesi, siamo un popolo di brocchi”
Coe ritorna ai suoi protagonisti per raccontare la “Middle England” di oggi: sfigata, tribale, priva di leader “Siamo divisi su tutto, ci insultiamo sui social: ci tengono insieme solo la nostalgia e lo sport”
di Caterina Soffici
Dopo una serie di libri un po’ loffi, Jonathan Coe torna agli antichi splendori con Middle England, un romanzo decisamente brillante sullo stato della nazione dopo la Brexit. E’ il Coe che i lettori italiani conoscono e amano, quello che ti racconta l’Inghilterra con leggerezza e con quell’umorismo tipicamente british, che centra il cuore delle cose senza annoiare.
A pubblicarlo è sempre Feltrinelli e la narrazione di Coe è così connessa alla realtà politica da riportarci indietro ai due romanzi che lo hanno reso famoso: La famiglia Winshaw (1995) e La banda dei brocchi (2002), entrambi adattati in miniserie tv dalla Bbc, dove la trama si intrecciava agli eventi storici degli anni Ottanta thatcheriani e alle bombe dell’Ira nei Settanta.
Qui si torna alla Banda dei brocchi, il protagonista è di nuovo Benjamin Trotter, non più adolescente ma sempre timido, impacciato e un po’ sfigato («è vero, è per certi versi il mio alter ego» ammette Coe). Ci sono anche i suoi amici, con una manciata di nuovi interessanti inserimenti, come la ribelle Coriander, figlia del giornalista progressista Doug Anderton, che vive in una casa da sei milioni di sterline a Chelsea ma partecipa ai disordini che hanno incendiato Londra nell’estate del 2011, piange per la morte di Amy Winehouse e poi diventa attivista e fervente paladina del leader laburista Jeremy Corbyn, il vetero comunista che ha spazzato via il blairismo e fa innamorare i più giovani. Un personaggio molto riuscito, che c’è da scommetterci, avrà buone gambe per portare avanti la saga in un nuovo libro.
Middle England è il ritratto di una nazione divisa su tutto, che non tollera più il politicamente corretto, che si insulta sui social media, senza una guida politica, «tribale e polarizzata» dice Coe. Qualcosa di brutale e totalmente diverso dalla nazione tollerante e moderata dello stereotipo.
Ci incontriamo in un caffè, vicino alla casa dove vive con la moglie e le due figlie (alle quali è dedicato il libro). Ordiniamo entrambi una cosa molto poco inglese - cioccolata calda - e la prima domanda la fa lui: «Come è cambiata la vita per voi italiani qui a Londra dopo Brexit?». «Chi può, fa le pratiche per chiedere il passaporto inglese. Non si sa mai» rispondo. «Ho litigato su Brexit con un settantenne inglese, ma ora stiamo lentamente facendo pace. Però qualcosa è cambiato. Da una parte ci sono gli inglesi e dall’altra gli stranieri. Noi e loro, loro e noi». «Ah», dice Coe pensieroso. Non che gli abbia rivelato chissà quale verità; tutto il libro parla di come siamo arrivati a questo punto.
Come andrà a finire?
«Non sono il migliore a fare previsioni. Non ne ho mai azzeccata una. Sul referendum avevo previsto il 52/48, ma nell’altro senso, cioè che vinceva il Remain. Bastava che ascoltassi gli amici di Birmingham invece di quelli di Londra, per ribaltare la previsione».
Perché hai scritto un romanzo così inserito nella realtà? L’ultimo capitolo è datato addirittura settembre 2018.
«In verità quello l’ho scritto ad aprile 2018. Ma la sfida è proprio questa. Cercare di cogliere l’attimo, catturare lo scorrere degli eventi nella maniera più vicina possibile, quasi mentre stanno avvenendo. Probabilmente Brexit ha acuito la nostra mente di scrittori».
Quando hai deciso di scriverlo?
«Per un narratore politico come me era un’occasione troppo ghiotta. Ma è capitato per caso, come succede sempre con i romanzi. La mia editor mi aveva chiesto perché non parlavo di Brexit. Gli risposi che non potevo perché non avevo una storia e anzi avevo in mente di continuare la saga dei brocchi. Poi c’è stato un episodio che mi ha fatto capire che i due libri erano in verità la stessa cosa».
Quale l’episodio?
«Luglio 2016, ero in vacanza in Francia, in macchina con la famiglia. Mia figlia guardava le news sul telefonino e mi ha dato la notizia di Boris Johnson nominato ministro degli Esteri. E’ stato fulminante».
Non sei l’unico a scrivere di attualità. Forse perché troppe cose accadono tutte insieme, quando si pensava che la storia fosse finita. E’ un fiorire di romanzi dove le realtà irrompe nella fiction. I quatto volumi sulle stagioni di Ali Smith. «Crudo» di Olivia Laing. Sembra quasi un nuovo filone.
«C’è anche Perfida Albione di Sam Byers. Forse è un fatto catartico. Volevo capire cosa ci ha portato qui. Infatti Middle England non parla propriamente di Brexit, ma soprattutto del periodo che la precede. La mia è la storia di un paese che non si è adattato al futuro così velocemente come avrebbe dovuto. La Gran Bretagna è più a suo agio con il suo passato che con il suo futuro».
Ci sono due tipi di scrittori. Quelli che definirei tolstojani, che non rincorrono l’attualità. E quelli alla Tom Wolfe, per cui bisogna raccontare la società contemporanea. Perché hai scelto questa categoria?
«Non sei tu a scegliere che tipo di scrittore sei. La mia natura è questa. In un certo senso per me è rassicurante stare attaccato a una realtà che scorre da sola. Starà ai posteri il giudizio. Se tra 10, 20 o 30 anni un libro così sarà ancora letto, sarà utile anche per capire quale era la visione di gente come noi, ora, nel 2018».
In una scena molto bella individui la vera Inghilterra profonda nel silenzio di un campo da golf nella campagna delle Midlands.
«E’ vero, è lì il suo cuore, nei Centri di giardinaggio e nei Golf Club. Sono cresciuto a Birmingham, fa parte del mio Dna. Poi è vero, sono andato a Cambridge a 19 anni e da 32 vivo a Londra. Ma appartengo a entrambe queste realtà».
Un’altra scena commovente è quando il vecchio padre di Ben vuole andare a vedere la fabbrica di auto dove ha lavorato per una vita, e non può credere che adesso ci sia un grande magazzino Mark & Spencer.
«Davvero è commovente? Anche io ho pianto mentre la scrivevo. Avevo messo su una musica tristissima, The Lark Ascending. E’ una scena accaduta nella realtà. Dove costruiscono adesso le auto? chiede il padre. E’ la storia della nostra deindustrializzazione. Da lì sono nati tanti dei problemi che nessuno si è preso la briga di risolvere. Stipendi bloccati. Scomparsa di lavori sicuri, piani pensioni e welfare. Rabbia contro la finanza. Rabbia contro il politicamente corretto. Disuguaglianze. Paura degli immigrati che ti portano via il lavoro».
Il libro si apre con il funerale della madre, poi se ne va anche il padre. E’ il simbolo della fine di un’epoca?
«Più che il simbolo, la presa d’atto di un dato anagrafico. A metà di gennaio del 2019 la popolazione giovane supererà quella degli anziani che hanno dato la maggioranza a Brexit».
Quanto c’è di te in Benjamin Trotter?
«Lui è molto più indeciso. Non ha grandi convinzioni politiche ma lo faccio votare Remain. Lui distrugge il 90 per cento del suo romanzo, io non ho cestinato neppure una pagina. Però il suo libro viene selezionato per il Man Booker Prize, quindi sono stato molto generoso. A me non è mai successo».
Però c’è qualcuno che ha pagato per essere un personaggio del libro. Durante un’asta a favore della charity Freedom from Torture, Emily Shamma fece un’offerta perché tu mettessi un personaggio con il suo nome. Ne hai fatto un transessuale. Reazioni?
«Ho firmato un contratto per cui ero libero di scrivere quello che volevo. Ma non l’ho mai incontrata né ci ho mai parlato. Le ho mandato il libro con dedica e spero che le sia piaciuto».
Lionel Hamshire, lo scrittore trombone che ha vinto un premio con il romanzo “Il tramonto delle lontre” è una caricatura perfetta. A chi si ispira? Sarà mica Martin Amis?
«E’ un misto di tre scrittori di quella generazione. Ma anche loro sono in via di estinzione. Anche l’era del grande scrittore maschio bianco sta tramontando con la vecchia Inghilterra. Le nuove leve sono di vari colori, razze e provenienze».
Dovessi definire la Gran Bretagna oggi in tre parole?
«Nostalgia. Sport. Musica. Sono le uniche cose che ci tengono ancora insieme».
La Stampa Tuttolibri 17.11.17
Michelangelo scopre la “Pietà”
ma rischia di finire sul rogo degli eretici
Il genio rinascimentale protagonista del nuovo thriller di Strukul: braccato dall’Inquisizione deve salvarsi nella Roma corrotta e assassina
di Sergio Pent
Tra narrativa e Storia, finzione creativa e realtà documentata, ipotesi fantastiche e accadimenti esaltati dalle suggestioni letterarie, molti personaggi celebri hanno assunto ormai un loro ruolo di eroi postumi a cui ogni scrittore attribuisce imprese, meriti, interventi essenziali nel percorso dei grandi eventi, con lo scopo primario di un intrattenimento che in certi casi funziona, diverte, vende. Dopo la fortunata saga dei Medici Matteo Strukul si cimenta con l’immenso Michelangelo, figura ancora poco frequentata dalla narrativa del «reperto storico». La passione di Strukul per quel periodo si riflette anche in un elegante volume illustrato edito da Mondadori Electa, Rinascimento. Il genio e il potere dai Medici ai Borgia, in cui compie una ricca escursione «guidata» tra i grandi nomi dell’epoca, da Donatello a Leonardo, fino al sacco di Roma e alla fuga – nel maggio del 1527 - di papa Clemente VII e con lui di tutti i più grandi artisti, momento che segna la fine del Rinascimento.
Con il romanzo michelangiolesco Strukul ci conduce invece in un periodo di poco successivo, tra il 1542 e il 1547. Seppur svelto e convincente nelle sue incursioni fantastoriche, mettersi in gioco con il pittore del Giudizio Universale e lo scultore di monumenti eterni come il Mosè e la Pietà poteva rivelarsi un tranello, dal quale il nostro narratore ha saputo sfuggire, ricreando soprattutto un mondo – quello ecclesiastico di metà Cinquecento, con i conflitti tra cattolici e protestanti a ridosso del Concilio di Trento – in cui Michelangelo, ormai prossimo ai settanta, si muove come una pedina essenziale nel dirimere contrasti, lotte e vendette. Preso in mezzo suo malgrado in questioni perfidamente politico-religiose, tra il monumento funebre per la tomba di papa Giulio II, al quale lavora controvoglia da anni, e l’amicizia con Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, che lo avvicina al movimento protestante tramite il cardinale inglese Reginald Pole, il sommo artista, peraltro venerato da tutti i potenti, si trova a gestire una situazione nella quale anche la sua arte rischia di diventare merce di scambio per scelte epocali.
Lungi dall’agire come un Indiana Jones della Roma papalina, Michelangelo deve comunque districarsi in trappole altolocate, laddove le sue mosse vengono seguite da una splendida fanciulla del popolo – dal soprannome emblematico di Malasorte – indirizzata sulle sue tracce dal cardinal Carafa, a capo della Santa – si fa per dire – Inquisizione.
Il versante artistico è comunque ben presente, tra i ritocchi faticosi, fisicamente devastanti del Giudizio Universale e la conclusione della mitica statua di Mosè, per la quale l’autore non poteva esimersi dall’inevitabile «perché non parli?». Ma a prevalere è soprattutto l’azione, in un gioco sapiente e mai gratuito di intrighi dai quali emergono tentazioni di cambiamento all’interno di una eternizzazione dei poteri forti della Chiesa, in un momento storico convulso e inquieto dove non era affatto sorprendente sentire parlare del figlio di un papa. I contrasti provocano vittime e storture, i cattivi non sono sempre quelli che vogliono smuovere qualcosa, e la stessa Malasorte, divenuta amica – non sveleremo come – di Michelangelo, è uno di quei personaggi veri e convincenti che arricchiscono una narrazione comunque disinvolta e coraggiosa. Il personaggio del grande artista spicca attraverso una scrittura snella che non esalta ma neanche ammicca, caratterizzando nella fantasia il possibile ritratto dell’uomo in bilico sull’orlo di un possibile cambiamento epocale, in cui anche la sua somma arte diventa oggetto di scambio del potere. Addii strazianti, domande irrisolte: guardando Roma dall’alto, il vecchio Buonarroti progetta un altro lembo di futuro e – a quanto si capisce – Matteo Strukul un altro episodio di questa saga azzardata ma godibile e onestamente rispettosa.
La Stampa TuttoLibri 17.11.18
La bambina cresciuta nei campi nazisti
vuole ritrovare l’albero genealogico sfortunato
di Luigi Forte
Precipitare nel buco nero delle proprie origini è stato per Natascha Wodin un viaggio ai confini della realtà, alla ricerca di volti e figure in perenne dissolvenza. A cominciare da sua madre il cui destino ha pesato senza sosta sulla sua vita. Era nata in Ucraina nel 1920, nel bel mezzo della guerra civile, del terrore, delle persecuzioni e della fame. Proveniva da una famiglia di nobili origini, un crimine a quel tempo, causa di costante instabilità psicologica e sociale. Poi la guerra e la deportazione col marito in Germania in un campo di lavoro forzato. E infine il suicidio a trentasei anni. Una delle tante drammatiche biografie avvolte dal buio di un secolo sanguinario, che la figlia Natascha cerca di portare alla luce, fra interrogativi e risposte, ipotesi e testimonianze nel suo intenso e composito romanzo Veniva da Mariupol proposto dall’ editore L’ Orma nella bella traduzione di Mario Federici Solari e Anna Ruchat.
La tragica storia di un destino si trasforma in un viaggio a ritroso verso l’Ucraina e la città multienica di Mariupol sul Mar d’Azov, dove convivevano ebrei e russi, polacchi e turchi, italiani e tedeschi. Senza esitazioni o timori, con l’acribia di un detective, la Wodin ripercorre, nel desolato paesaggio di decenni disperati, le sue stesse drammatiche esperienze alla ricerca, anche attraverso internet, di una fitta trama familiare. Lei stessa, nata come la sorella più giovane in un campo di lavoro bavarese, ebbe un’infanzia difficile a contatto con genitori distrutti dalla fatica e dalla fame: il padre spesso ubriaco e la madre affetta da disturbi psichici e da una profonda nostalgia di casa. Tuttavia, più tardi, Natascha trovò la sua strada: divenne interprete, poi traduttrice letteraria e dal 1980 iniziò a scrivere romanzi stabilendosi infine a Berlino. Era inevitabile che dalle sue pagine affiorasse la sensazione di sradicamento e il bisogno costante di ritrovare una patria, anche linguistica. Con i suoi parlava russo, ma insisteva a imparare il tedesco che le pareva «una corda sicura e resistente a cui aggrapparsi per saltare dall’altra parte». E ora, a distanza di anni, quel mondo di sofferenza che voleva lasciarsi alle spalle, riemerge irrisolto e assillante.
Veniva da Mariupol stempera il trauma della piccola Natascha in bilico sull’abisso della vita con i volti e i destini di una folla di parenti dispersi fra Ucraina e Russia, Germania e Italia che la matura scrittrice Wodin trasforma in curiosi e tragici attori di una pièce del terrore: un nonno socialista mandato in esilio per vent’anni dallo zar, la zia Lidija arrestata per aver definito il Partito nemico dei lavoratori di cui offre testimonianza nel suo diario, e la povera zia Olga, moglie del filosofo Čelpanov, che all’inizio degli anni Trenta si buttò dalla finestra.
E poi i genitori costretti a lavorare in una fabbrica d’armi di Lipsia, più tardi fuggiti in Baviera in condizioni disperate. A guerra finita rischiarono l’estradizione in Russia, dove Stalin li avrebbe segregati in qualche gulag come fece con molti di loro definiti traditori della patria.
La foto di famiglia include originali personaggi come lo zio Sergej, cantante lirico, o la bisnonna italiana Teresa, sposa bambina sempre in compagnia delle sue bambole e la zia Valentina fondatrice di un liceo per ragazzi indigenti. Per non parlare del bisnonno ucraino, Epifan Ivaščenko, proprietario di navi, e di Matilda, la nonna materna figlia di un commerciante italiano di carbone, convolata a nozze con Jakov, rampollo dell’armatore. A forza di cliccare e scartabellare, con un pizzico di fantasia la Wodin ricostruisce un albero genealogico che affonda le radici in mezza Europa. Un percorso piuttosto complesso anche per il lettore, fra esistenze pencolanti fra opposte realtà in un mondo scompaginato che ricorda altresì il dramma passato sotto silenzio di milioni di individui: l’internamento nazista dei lavoratori slavi. Mentre Natascha insegue il fantasma di quella madre segnata dal delirio collettivo e la ricorda, in pagine bellissime, nella camera mortuaria del cimitero. Una bambina undicenne che guarda con apprensione quel corpo ripescato dal fiume, e una scrittrice anziana che dà voce al dolore e al disperato vuoto di tutta una vita
Corriere 17.11.18
Il seme fragile della memoria
Testimonianze Il messaggio ai ragazzi (Piemme) della senatrice a vita ebrea che fu deportata ad Auschwitz nel 1944
Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah: «Sono stata clandestina e respinta»
di Gian Antonio Stella
«Vedemmo i nostri assassini buttare via le divise, mandare via i cani, quei cani delle SS, lupi, dobermann, che ancora mi spaventano. I cani cercavano di tornare indietro, perché erano abituati a stare attaccati alla gamba del loro padrone, e loro li cacciavano via, poiché erano l’emblema del loro potere su di noi fino a un minuto prima. Io li guardavo questi soldati, buttare via divise, armi, e scappare, tornare alle loro case...»
Tra quei carcerieri in rotta disordinata per salvare la propria vita infame dopo aver tolto sprezzanti migliaia di vite altrui, Liliana Segre riconobbe il Male: «Passò accanto a me il comandante del campo. Non ho mai saputo il suo nome, non mi interessavo dei nomi delle persone. Per me lui era il Male, e basta. Il nazista si spogliava vicino a me, si era messo addirittura in mutande, perché faceva caldo. E io lo guardavo, incredula. Lo guardavo mentre gettava la divisa lontano e indossava i suoi vestiti civili, dopo essere stato un carnefice. Buttò via anche la pistola. La lanciò non distante da me, in terra. Per un momento ho provato una tentazione fortissima, come non mi sarebbe mai più capitato nella vita. Avrei voluto raccogliere quella pistola e sparargli. Potevo farlo. È stato un attimo, ma poi ho capito. Io non ero come lui. Non ero come il mio assassino».
È bellissimo il libro Scolpitelo nel vostro cuore (Piemme), nel quale la senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz racconta la sua storia. Quella che da tanti anni racconta nelle scuole di tutto il Paese per incoraggiare i ragazzi ad affrontare i problemi («Non dite mai che non ce la potete fare, non è vero. Io ho sperimentato sulla mia pelle quanto l’uomo sia capace di lottare per rimanere attaccato alla vita») e piantare un seme che possa essere coltivato e crescere.
L’importanza di pesare le parole, ad esempio: «Ho provato sulla mia pelle cosa significa essere una clandestina. Con i documenti falsi. Oggi, quando sento parlare di clandestinità, quante cose mi tornano in mente. Io lo sono stata, con mio padre, avevamo documenti falsi perché cercavamo di fuggire alla persecuzione. E sono stata una richiedente asilo. So cosa significa essere respinta quando pensi di essere salva. Dopo la fuga sulle montagne dietro la Svizzera, nel pieno dell’inverno del 1943, arrivammo a destinazione. La meravigliosa Svizzera. Che però non ci volle dare asilo. Anzi, ci rimandò dagli aguzzini».
Fu un passacarte qualunque, allora, a determinare il destino suo e del papà Alberto. Ebrei? No, clandestini! «Con grande disprezzo e totale mancanza di umanità ci rimandò indietro». Oltre il confine superato all’alba: «Dall’altra parte della rete avevamo i fucili puntati dei soldati italiani. Che ci catturarono. La nostra fuga era finita. Io so che significa essere respinti. Perdere in un attimo tutta la speranza».
«Racconterò una storia tragica, ma che finisce bene. E questo è importante, perché anche le storie tragiche possono finire bene». Cominciano così, il libro e le mille conferenze della senatrice. Come fosse uno dei racconti che un tempo si facevano intorno ai filò. La nascita a Milano in una famiglia di religione ebraica («ma i miei erano assolutamente agnostici. Non frequentavano la sinagoga, non frequentavano gli ambienti ebraici…»), l’infanzia «allegra e gioiosa» nonostante la morte della madre quand’era piccola, la casa borghese in via Magenta, il groppo in gola del papà la sera in cui fu costretto a spiegare alla figlioletta che non avrebbe potuto fare la terza elementare nella stessa scuola perché era stata espulsa. Espulsa! «C’era questa domanda che mi martellava in testa: “Perché? Perché? Perché?”».
Poi la scuola privata, il senso di colpa provato «senza capire per cosa», le perquisizioni di poliziotti «dall’aria truce, cattiva» che rifiutavano sgarbati la torta offerta dalla nonna, i primi bombardamenti, l’indifferenza di quanti non vollero capire, l’allontanamento di tanti amici che amici non erano più, il nonno Pippo che tremava tutto per il Parkinson e che sarebbe finito con nonna Olga nel camino di Auschwitz, il rifugio a casa di due famiglie generose e giuste a Inverigo, la tentata fuga in Svizzera, la galera a San Vittore: «Eravamo diventati cittadini di serie B, fino a diventare cittadini di serie Z, e poi non bastò l’alfabeto».
Quella cella 202 nel carcere milanese fu l’«ultima casina» divisa col papà: «Spesso gli uomini venivano portati via per gli interrogatori. Era la Gestapo a interrogarli, li torturavano per ore. Io restavo sola, in quella cella che dividevo con lui, lo aspettavo. E diventavo vecchia. Lui tornava, pallido e terrorizzato, e io non ero più la sua bambina, ero la sua mamma. Ero sua sorella. (…) Mi diceva: “Liliana, ti chiedo scusa di averti messa al mondo”».
Furono caricati verso l’ignoto sullo stesso treno, dal binario 21, il «ventre nero, sotterraneo» della Stazione Centrale. Erano in 605, sarebbero tornati in venti: «Nel vagone c’era un secchio per i bisogni, un po’ di paglia per terra, niente luce e niente acqua. Il viaggio durò una settimana…» Nessuno sapeva la destinazione: «E il treno andava, andava, andava». Arrivarono ad Auschwitz il 7 febbraio 1944: «Faceva un freddo terribile. Divisero gli uomini dalle donne. Io fui incolonnata con le donne di quel trasporto. Mi sentii strappare dalla mano di mio padre». Non l’avrebbe visto più.
Come fece a sopravvivere quella tredicenne, fragile, sola, condannata a fare l’«operaia-schiava» in una fabbrica di munizioni e a dormire di notte sotto una coperta lacerata tappandosi le orecchie con le dita per non sentire i rumori del lager, le famiglie «che venivano divise, i bambini che piangevano» e «le grida di chi veniva portato subito al gas»? La risposta è nel racconto del giorno in cui incontrò Josef Mengele: «Terrorizzata, dentro di me continuavo a ripetermi: “Voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere”». Scambiarono due parole. La lasciò andare: «L’assassino mi lasciava ancora in vita».
Riuscì a sopravvivere all’inferno di Auschwitz, alla «marcia della morte» di settecento chilometri a piedi nella neve fino al campo tedesco di Malchow, alla fame, all’infezione di un bruttissimo ascesso, a un viaggio di ritorno durato mesi e mesi, al dispiacere di non essere riconosciuta neanche da Antonio, il custode di casa sua, ad anni di incubi. Finché ritrovò la pace. E la voglia di raccontare. Senza mai odio. Né il rimpianto, quella volta, di non aver sparato al Male in fuga.
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