Repubblica 16.11.18
Tripoli
Così l’Italia rispedisce i migranti nell’inferno dei centri libici
di Francesca Mannocchi
TRIPOLI
«Eravamo in mare da ore, quando abbiamo capito di essere in difficoltà
abbiamo chiamato il numero di emergenza dal gommone. Sono passate sei
navi vicino a noi e nessuna ci ha recuperato. Poi finalmente è arrivata
una nave mercantile, e l’equipaggio ci ha fatto salire a bordo. Vi
portiamo in Italia, state tranquilli, hanno detto. E invece è arrivata
la guardia costiera libica. Un incubo». Dittur ha 19 anni, viene dal Sud
Sudan, parla con Repubblica al telefono, ancora all’interno di quel
cargo, dopo otto giorni. Dalla notte del 7 novembre Dittur si trova
sulla nave Nivin, battente bandiera panamense partita da Imperia con un
carico di automobili destinate al mercato nordafricano. La notte del
recupero, la Guardia Costiera libica ha raggiunto il cargo e provato a
trasferire i 95 migranti sui propri mezzi. Quando i migranti hanno
capito che non si sarebbero diretti in Europa, ma che sarebbero tornati
indietro, in Libia, ci sono stati momenti di forte tensione.
«Non
scendiamo, nelle prigioni non ci torniamo», dice Mohammed, un ragazzo di
origine somala ancora a bordo. La chiamata di richiesta soccorso è
partita dal gommone, diretta all’Alarm Phone, che ha contattato MRCC
Roma (il centro di coordinamento per il soccorso marino). Repubblica ha
visionato le successive comunicazioni tra la Nivin e MRCC Roma. MRCC dà
indicazioni alla nave Nivin, alle 19,34, scrive: «A nome della Guardia
costiera libica per la salvezza delle vite in mare, per favore, cambiate
rotta e dirigetevi a massima velocità alla latitudine indicata».
Segue un numero di telefono.
Italiano.
MRCC Roma ha dunque fatto da ponte, attraverso un numero italiano,
gestendo l’intervento della Guardia Costiera di Tripoli. Due ore dopo,
alle 21,34 la Marina libica invia una mail al comando della Nivin, con
in copia la marina Maltese, Eunavformed e la Marina italiana. «Come
autorità libica vi ordino di recuperare il gommone e provvederemo a dare
istruzioni di disimbarco».
L’operazione, pur con qualche contorno
fumoso, non è illegale da quando è stata istituita la Zona di ricerca e
soccorso (Sar ) libica. Ma "Operazione Mediterranea" (la missione
organizata da un collettivo di Ong e onlus) chiede l’evacuazione dei
profughi. «Le autorità italiane — scrivono in un comunicato — hanno
documentata responsabilità di aver ordinato a Nivin di fare esclusivo
riferimento alla Guardia Costiera Libica, configurando così nei fatti un
illegittimo respingimento verso un paese non sicuro». Quella notte
anche la Mare Jonio aveva chiesto informazioni e provato a chiamare
Tripoli, senza esito.
A bordo del gommone al momento del recupero
erano in 95: bengalesi, pachistani, etiopi, eritrei, somali. 28 di loro
sono minori. Una donna somala era sola, con un bambino di tre mesi.
Sono
rimasti per sette giorni in nave con poco cibo e poca acqua a
disposizione. La donna e il neonato sono scesi dalla nave insieme ad
altri 12 solo due sere fa.
Lo staff di Medici Senza Frontiere
(MSF), presente al porto di Misurata, ha negoziato portando a bordo cibo
e medicine. «Sono disperati — dice Julien Raickmann, capo missione di
MSF — un paziente in gravi condizioni ha rifiutato di essere portato in
una struttura medica in Libia. Ha detto che preferirebbe morire sulla
nave». Per i 70 migranti ancora a bordo non ci sono bagni, usano le
bottiglie di plastica per urinare.
Alla base marina di Tripoli il
comandante Anwar El Sharif, infastidito dalle domande sulle sorti della
Nivin taglia corto: «Sono dei pirati, criminali, non li consideriamo
migranti e questa non è più un’operazione di soccorso. Hanno dato fuoco
al carico della nave e tentato di uccidere l’equipaggio. Li tratteremo
come meritano, cioè come terroristi. Saranno le forze speciali a
evacuare la nave». La versione del comandante El Sharif non trova però
alcun riscontro.
Nessuna auto è stata data alle fiamme, nessun
tentato omicidio a bordo. Dall’interno del cargo Dittur invia a
Repubblica le fotografie che mostrano le ferite, le ustioni provocate
dal carburante sul gommone. E le cicatrici che raccontano un’altra
storia, quella dei centri di detenzione da cui sono fuggiti e in cui non
vogliono più tornare.
Dittur è scappato dal Sud Sudan, ha
attraversato il deserto ed è stato arrestato la prima volta che ha
provato ad imbarcarsi. È stato imprigionato sette mesi a Beni Walid. A
quel tentativo ne è seguito un altro e un altro ancora.
«Ogni
volta torture peggiori, e più soldi da chiedere alla mia famiglia per
lasciarmi andare. Quando mi hanno chiuso di nuovo in una prigione ho
chiesto di poter dare i miei documenti alle organizzazioni umanitarie,
ci hanno detto che ci avrebbero aiutato a uscire, ad andare via di lì.
Ma
passavano mesi, nessuno si faceva vivo». Nel Mediterraneo non ci sono
più navi delle Ong, tranne la Mare Jonio e la vicenda della Nivin
solleva anche dubbi sulla condotta delle navi mercantili che in assenza
di Ong si piegano alle ingiunzioni della guardia costiera libica.