Repubblica 16.11.18
Le idee
La lunga marcia della cosa nera
di Ezio Mauro
Oltre
il fascismo tradizionale, il segreto di un’ideologia che alza muri,
odia i deboli e discrimina in base alla " razza": è figlia del caos
globale, del mondo senza più un tetto in cui il cittadino, smarrito,
torna a essere solo individuo
Scomparsa la sinistra, rischia di
sparire anche la destra, sostituita da questa "cosa" nera che alza i
muri, nazionalizza i diritti, munisce i confini, seleziona i più deboli
escludendoli, torna a discriminare in nome della razza. Tutto il mondo
sembra consegnarsi a questa nuova espressione politica che fulmina le
precedenti perché cambia alla radice i codici del discorso pubblico,
rovescia il suo linguaggio, trasforma la postura dei protagonisti,
abbatte i limiti del consentito, incoraggia l’istinto a prendere il
microfono contendendolo alla ragione. E in tutto il mondo questa "cosa",
mentre cerca ancora il suo vero e moderno nome, è già con ogni evidenza
la forma più semplice e dunque più accessibile della politica, quindi
la forma della semplificazione e della soddisfazione senza
responsabilità, la più adatta al consenso universale in questi tempi
difficili di giudizi sommari.
È destra, certo, ma è destra al
cubo, con soggetti nuovi, parole d’ordine diverse, alleanze rovesciate:
sicuri che basti la vecchia parola per rendere l’idea del groviglio? Né
si può spiegare ogni cosa precipitando nel pozzo del fascismo
risorgente: i personaggi sono fortunatamente sproporzionati, il regime
non c’è, le garanzie costituzionali restano intatte.
Tuttavia le
tentazioni saltuarie ma metodiche di sfiorare i tabù democratici
esistono, e anche se sono pronte a ritrarsi immediatamente ogni volta
che vengono denunciate, parlano in realtà a quel fascismo sciolto,
disorganico e situazionista che è tornato a manifestarsi qua e là nel
Paese, come culto dell’azione e della violenza senza alcuna teoria,
fuori dalla storia: favorito dalla banalizzazione che negli ultimi anni è
stata fatta dell’antifascismo e della Resistenza come fonte della
legittimità repubblicana e del patriottismo democratico. Così come
esiste la tentazione di sperimentare la formula della "democrazia
illiberale" all’ungherese, rispettando la forma democratica del sistema,
lavorando sulla sostanza, a partire dalla libertà di stampa.
Ciò
che succede oggi è dunque sorprendentemente autonomo e sufficientemente
grave per essere valutato di per sé, nel suo spazio autonomo di
significato, cercando il suo segno politico originale più che la
replica.
Infatti c’è piuttosto un istinto di classe che si fa
Stato e si fa ordine contro il povero, il tagliato fuori, il deviante,
l’escluso e naturalmente il migrante, su cui si rovesciano tutte le
colpe del secolo. Con l’impegno per un uso della forza a senso unico e
con una missione più ideologica che operativa e strumentale.
Non
si garantisce infatti sicurezza nel senso di tranquillità, ma al
contrario una meta-tutela attraverso una mobilitazione permanente che
promette di ripulire, purificare, riconsacrare gli ambienti inquinati
dai "parassiti", dalle "zecche", dagli "zingari", da tutto l’universo
della contaminazione al corpo mistico della nazione. Riproponendo
all’opinione pubblica un riflesso condizionato implicito di selezione e
di discriminazione che le generazioni nate nel dopoguerra non avevano
ancora conosciuto direttamente.
Questa ferocia verbale, questa
disumanità dichiarata e questa brutalità esibita (nei confronti degli
ultimi, naturalmente) sono la cifra scelta per testimoniare la nuova
politica e sintonizzarla sull’onda del nuovo senso comune. Ovviamente,
in tanto parlare di italianità, così facendo si getta a mare proprio la
cultura italiana di accoglienza e di responsabilità, di memoria, tenuta
viva in ogni famiglia fino a pochi anni fa, e collegata in modo naturale
per decenni con gli interessi legittimi del Paese.
Non solo, si
rinnega anche la tradizione cristiana del Paese e si distrugge la
pratica della compassione del buon conservatore occidentale.
In
più, com’è evidente, l’aggressività del linguaggio e la crudeltà dei
modi non servono per nulla ad aumentare la sicurezza delle città e dei
cittadini. Si tratta dunque di una pura esibizione, quasi una recita
istintiva che però è anche istituzionale, dunque capace di creare un
clima e titolata a legittimare un’atmosfera, sdoganando gli impulsi ed
assumendosene una consapevole responsabilità.
Di tutto questo si
nutre la "cosa", crescendo. Di una paura indistinta, inscalfibile,
impermeabile ai numeri e ai fatti, venduta come un pacchetto chiuso, da
non aprire, ma da consumare tutta insieme, indistinta. Se fossimo capaci
di sciogliere il nodo della paura, per guardare finalmente nel buio che
le dà forma, capiremmo che soltanto il pregiudizio può scaricarne tutto
il peso sul migrante, e solo un’operazione politica può sovrapporre
meccanicamente migrazione e sicurezza, mentre in realtà le diverse
inquietudini scomposte nascono dal lavoro che non c’è, dall’insicurezza
del futuro, dalla condizione precaria dei ragazzi, dalla mancata
rappresentanza della politica, dal timore del terrorismo, dallo
spaesamento della mondializzazione.
C’è una formula che riassume
tutto questo: il mondo è senza un tetto, in questo mondo scoperchiato il
cittadino torna individuo, si sente esposto e cerca protezione,
sicurezza, tutela, magari rifugio, anche solo riconoscimento.
È la
risacca della globalizzazione. L’onda è sembrata troppo lunga per
l’uomo comune che si è sentito sbalzato in avanti come tutti dalla
spinta di una rivoluzione tecnologica e finanziaria che ha cambiato ogni
cosa accanto a lui, compreso il costume, annullando la distanza e
prendendo il dominio dello spazio e del tempo. Ma subito, quasi
contemporaneamente, lui si è sentito sopravanzato, e immediatamente dopo
scartato, come i relitti quando l’onda si ritira.
Guardandosi
intorno, ha avvertito il venir meno delle vecchie tutele — partiti,
classi, sindacati — senza che ne emergessero nuove. Anzi tutte le
vecchie dialettiche sono saltate, per prima quella tra il ricco e il
povero, che corrono e camminano ormai in universi divaricati e distinti,
reciprocamente inconsapevoli, senza un orizzonte comune di senso,
nemmeno ostile.
Ecco che nel grande spaesamento, il luogo
ingigantisce e prende la sua grande rivincita sullo spazio, provando a
perimetrare la velocità del tempo. Smarrito il sentimento di
cittadinanza, perduto il senso della rappresentanza, c’è da stupirsi che
l’individuo si ritragga e si rinchiuda? Sentendosi spodestato,
scartato, isolato, si lega alle radici, alla terra, al posto,
all’intreccio di esperienze identitarie che sente confusamente messe in
discussione dal multiculturalismo sulla porta di casa. È il
capovolgimento domestico della globalizzazione, il tentativo di
chiuderla fuori dalla porta. Da solo.
Perché nella grande
sovrabbondanza di contatti del web si è rotto il filo che collega
l’individuale al collettivo, il problema del singolo al sentimento
comune, alla possibilità che diventi una "causa", una questione
generale. Ridotti definitivamente a una serie di questioni particolari, i
problemi del cittadino ritornato individuo diventano così impossibili
da prendere in mano per la politica, irrisolvibili. Ma non per lui, che
si considera ogni giorno più in credito, sventola una sorta di cambiale
inesigibile, in un accumulo crescente di risentimento, di rabbia e di
rancore.
Poi arriva la "cosa", e cerca proprio il rancore. Che c’è
sempre stato. Ma le grandi culture politiche della prima repubblica
facevano da filtro alla rabbia, trattenendo gli impulsi distruttivi,
separandoli dalla spinta al cambiamento che immettevano nel sistema,
depurata. La novità della fase è che la "cosa" va a caccia della rabbia
in quanto tale, fiuta l’odio etnico e sociale mentre lo coltiva,
raccoglie il rancore contro le istituzioni e l’astio verso la democrazia
liberale, e trasporta tutto questo così com’è nell’antipolitica che sta
soppiantando la vecchia politica. Nel farlo, saltano le ultime difese,
gli interdetti democratici che resistevano da decenni, gli anticorpi
residui. Sulla Circumvesuviana si può insultare uno straniero, e si può
per di più firmare l’insulto rivendicando a voce alta, in mezzo ai
passeggeri, di essere razzista, come se nell’Italia di oggi fosse un
merito. Forse bisognava capirlo quando qualcuno si è disegnato sulla
felpa una ruspa per spostare corpi di persone come fossero rifiuti,
togliendo così la parola alla politica nel Paese di Machiavelli e
Guicciardini. Oggi a buon diritto quella ruspa è il simbolo cieco della
"cosa" nera.