venerdì 16 novembre 2018

Repubblica 16.11.18
Le idee
La lunga marcia della cosa nera
di Ezio Mauro


Oltre il fascismo tradizionale, il segreto di un’ideologia che alza muri, odia i deboli e discrimina in base alla " razza": è figlia del caos globale, del mondo senza più un tetto in cui il cittadino, smarrito, torna a essere solo individuo
Scomparsa la sinistra, rischia di sparire anche la destra, sostituita da questa "cosa" nera che alza i muri, nazionalizza i diritti, munisce i confini, seleziona i più deboli escludendoli, torna a discriminare in nome della razza. Tutto il mondo sembra consegnarsi a questa nuova espressione politica che fulmina le precedenti perché cambia alla radice i codici del discorso pubblico, rovescia il suo linguaggio, trasforma la postura dei protagonisti, abbatte i limiti del consentito, incoraggia l’istinto a prendere il microfono contendendolo alla ragione. E in tutto il mondo questa "cosa", mentre cerca ancora il suo vero e moderno nome, è già con ogni evidenza la forma più semplice e dunque più accessibile della politica, quindi la forma della semplificazione e della soddisfazione senza responsabilità, la più adatta al consenso universale in questi tempi difficili di giudizi sommari.
È destra, certo, ma è destra al cubo, con soggetti nuovi, parole d’ordine diverse, alleanze rovesciate: sicuri che basti la vecchia parola per rendere l’idea del groviglio? Né si può spiegare ogni cosa precipitando nel pozzo del fascismo risorgente: i personaggi sono fortunatamente sproporzionati, il regime non c’è, le garanzie costituzionali restano intatte.
Tuttavia le tentazioni saltuarie ma metodiche di sfiorare i tabù democratici esistono, e anche se sono pronte a ritrarsi immediatamente ogni volta che vengono denunciate, parlano in realtà a quel fascismo sciolto, disorganico e situazionista che è tornato a manifestarsi qua e là nel Paese, come culto dell’azione e della violenza senza alcuna teoria, fuori dalla storia: favorito dalla banalizzazione che negli ultimi anni è stata fatta dell’antifascismo e della Resistenza come fonte della legittimità repubblicana e del patriottismo democratico. Così come esiste la tentazione di sperimentare la formula della "democrazia illiberale" all’ungherese, rispettando la forma democratica del sistema, lavorando sulla sostanza, a partire dalla libertà di stampa.
Ciò che succede oggi è dunque sorprendentemente autonomo e sufficientemente grave per essere valutato di per sé, nel suo spazio autonomo di significato, cercando il suo segno politico originale più che la replica.
Infatti c’è piuttosto un istinto di classe che si fa Stato e si fa ordine contro il povero, il tagliato fuori, il deviante, l’escluso e naturalmente il migrante, su cui si rovesciano tutte le colpe del secolo. Con l’impegno per un uso della forza a senso unico e con una missione più ideologica che operativa e strumentale.
Non si garantisce infatti sicurezza nel senso di tranquillità, ma al contrario una meta-tutela attraverso una mobilitazione permanente che promette di ripulire, purificare, riconsacrare gli ambienti inquinati dai "parassiti", dalle "zecche", dagli "zingari", da tutto l’universo della contaminazione al corpo mistico della nazione. Riproponendo all’opinione pubblica un riflesso condizionato implicito di selezione e di discriminazione che le generazioni nate nel dopoguerra non avevano ancora conosciuto direttamente.
Questa ferocia verbale, questa disumanità dichiarata e questa brutalità esibita (nei confronti degli ultimi, naturalmente) sono la cifra scelta per testimoniare la nuova politica e sintonizzarla sull’onda del nuovo senso comune. Ovviamente, in tanto parlare di italianità, così facendo si getta a mare proprio la cultura italiana di accoglienza e di responsabilità, di memoria, tenuta viva in ogni famiglia fino a pochi anni fa, e collegata in modo naturale per decenni con gli interessi legittimi del Paese.
Non solo, si rinnega anche la tradizione cristiana del Paese e si distrugge la pratica della compassione del buon conservatore occidentale.
In più, com’è evidente, l’aggressività del linguaggio e la crudeltà dei modi non servono per nulla ad aumentare la sicurezza delle città e dei cittadini. Si tratta dunque di una pura esibizione, quasi una recita istintiva che però è anche istituzionale, dunque capace di creare un clima e titolata a legittimare un’atmosfera, sdoganando gli impulsi ed assumendosene una consapevole responsabilità.
Di tutto questo si nutre la "cosa", crescendo. Di una paura indistinta, inscalfibile, impermeabile ai numeri e ai fatti, venduta come un pacchetto chiuso, da non aprire, ma da consumare tutta insieme, indistinta. Se fossimo capaci di sciogliere il nodo della paura, per guardare finalmente nel buio che le dà forma, capiremmo che soltanto il pregiudizio può scaricarne tutto il peso sul migrante, e solo un’operazione politica può sovrapporre meccanicamente migrazione e sicurezza, mentre in realtà le diverse inquietudini scomposte nascono dal lavoro che non c’è, dall’insicurezza del futuro, dalla condizione precaria dei ragazzi, dalla mancata rappresentanza della politica, dal timore del terrorismo, dallo spaesamento della mondializzazione.
C’è una formula che riassume tutto questo: il mondo è senza un tetto, in questo mondo scoperchiato il cittadino torna individuo, si sente esposto e cerca protezione, sicurezza, tutela, magari rifugio, anche solo riconoscimento.
È la risacca della globalizzazione. L’onda è sembrata troppo lunga per l’uomo comune che si è sentito sbalzato in avanti come tutti dalla spinta di una rivoluzione tecnologica e finanziaria che ha cambiato ogni cosa accanto a lui, compreso il costume, annullando la distanza e prendendo il dominio dello spazio e del tempo. Ma subito, quasi contemporaneamente, lui si è sentito sopravanzato, e immediatamente dopo scartato, come i relitti quando l’onda si ritira.
Guardandosi intorno, ha avvertito il venir meno delle vecchie tutele — partiti, classi, sindacati — senza che ne emergessero nuove. Anzi tutte le vecchie dialettiche sono saltate, per prima quella tra il ricco e il povero, che corrono e camminano ormai in universi divaricati e distinti, reciprocamente inconsapevoli, senza un orizzonte comune di senso, nemmeno ostile.
Ecco che nel grande spaesamento, il luogo ingigantisce e prende la sua grande rivincita sullo spazio, provando a perimetrare la velocità del tempo. Smarrito il sentimento di cittadinanza, perduto il senso della rappresentanza, c’è da stupirsi che l’individuo si ritragga e si rinchiuda? Sentendosi spodestato, scartato, isolato, si lega alle radici, alla terra, al posto, all’intreccio di esperienze identitarie che sente confusamente messe in discussione dal multiculturalismo sulla porta di casa. È il capovolgimento domestico della globalizzazione, il tentativo di chiuderla fuori dalla porta. Da solo.
Perché nella grande sovrabbondanza di contatti del web si è rotto il filo che collega l’individuale al collettivo, il problema del singolo al sentimento comune, alla possibilità che diventi una "causa", una questione generale. Ridotti definitivamente a una serie di questioni particolari, i problemi del cittadino ritornato individuo diventano così impossibili da prendere in mano per la politica, irrisolvibili. Ma non per lui, che si considera ogni giorno più in credito, sventola una sorta di cambiale inesigibile, in un accumulo crescente di risentimento, di rabbia e di rancore.
Poi arriva la "cosa", e cerca proprio il rancore. Che c’è sempre stato. Ma le grandi culture politiche della prima repubblica facevano da filtro alla rabbia, trattenendo gli impulsi distruttivi, separandoli dalla spinta al cambiamento che immettevano nel sistema, depurata. La novità della fase è che la "cosa" va a caccia della rabbia in quanto tale, fiuta l’odio etnico e sociale mentre lo coltiva, raccoglie il rancore contro le istituzioni e l’astio verso la democrazia liberale, e trasporta tutto questo così com’è nell’antipolitica che sta soppiantando la vecchia politica. Nel farlo, saltano le ultime difese, gli interdetti democratici che resistevano da decenni, gli anticorpi residui. Sulla Circumvesuviana si può insultare uno straniero, e si può per di più firmare l’insulto rivendicando a voce alta, in mezzo ai passeggeri, di essere razzista, come se nell’Italia di oggi fosse un merito. Forse bisognava capirlo quando qualcuno si è disegnato sulla felpa una ruspa per spostare corpi di persone come fossero rifiuti, togliendo così la parola alla politica nel Paese di Machiavelli e Guicciardini. Oggi a buon diritto quella ruspa è il simbolo cieco della "cosa" nera.

Repubblica 16.11.18
Tripoli
Così l’Italia rispedisce i migranti nell’inferno dei centri libici
di Francesca Mannocchi


TRIPOLI «Eravamo in mare da ore, quando abbiamo capito di essere in difficoltà abbiamo chiamato il numero di emergenza dal gommone. Sono passate sei navi vicino a noi e nessuna ci ha recuperato. Poi finalmente è arrivata una nave mercantile, e l’equipaggio ci ha fatto salire a bordo. Vi portiamo in Italia, state tranquilli, hanno detto. E invece è arrivata la guardia costiera libica. Un incubo». Dittur ha 19 anni, viene dal Sud Sudan, parla con Repubblica al telefono, ancora all’interno di quel cargo, dopo otto giorni. Dalla notte del 7 novembre Dittur si trova sulla nave Nivin, battente bandiera panamense partita da Imperia con un carico di automobili destinate al mercato nordafricano. La notte del recupero, la Guardia Costiera libica ha raggiunto il cargo e provato a trasferire i 95 migranti sui propri mezzi. Quando i migranti hanno capito che non si sarebbero diretti in Europa, ma che sarebbero tornati indietro, in Libia, ci sono stati momenti di forte tensione.
«Non scendiamo, nelle prigioni non ci torniamo», dice Mohammed, un ragazzo di origine somala ancora a bordo. La chiamata di richiesta soccorso è partita dal gommone, diretta all’Alarm Phone, che ha contattato MRCC Roma (il centro di coordinamento per il soccorso marino). Repubblica ha visionato le successive comunicazioni tra la Nivin e MRCC Roma. MRCC dà indicazioni alla nave Nivin, alle 19,34, scrive: «A nome della Guardia costiera libica per la salvezza delle vite in mare, per favore, cambiate rotta e dirigetevi a massima velocità alla latitudine indicata».
Segue un numero di telefono.
Italiano. MRCC Roma ha dunque fatto da ponte, attraverso un numero italiano, gestendo l’intervento della Guardia Costiera di Tripoli. Due ore dopo, alle 21,34 la Marina libica invia una mail al comando della Nivin, con in copia la marina Maltese, Eunavformed e la Marina italiana. «Come autorità libica vi ordino di recuperare il gommone e provvederemo a dare istruzioni di disimbarco».
L’operazione, pur con qualche contorno fumoso, non è illegale da quando è stata istituita la Zona di ricerca e soccorso (Sar ) libica. Ma "Operazione Mediterranea" (la missione organizata da un collettivo di Ong e onlus) chiede l’evacuazione dei profughi. «Le autorità italiane — scrivono in un comunicato — hanno documentata responsabilità di aver ordinato a Nivin di fare esclusivo riferimento alla Guardia Costiera Libica, configurando così nei fatti un illegittimo respingimento verso un paese non sicuro». Quella notte anche la Mare Jonio aveva chiesto informazioni e provato a chiamare Tripoli, senza esito.
A bordo del gommone al momento del recupero erano in 95: bengalesi, pachistani, etiopi, eritrei, somali. 28 di loro sono minori. Una donna somala era sola, con un bambino di tre mesi.
Sono rimasti per sette giorni in nave con poco cibo e poca acqua a disposizione. La donna e il neonato sono scesi dalla nave insieme ad altri 12 solo due sere fa.
Lo staff di Medici Senza Frontiere (MSF), presente al porto di Misurata, ha negoziato portando a bordo cibo e medicine. «Sono disperati — dice Julien Raickmann, capo missione di MSF — un paziente in gravi condizioni ha rifiutato di essere portato in una struttura medica in Libia. Ha detto che preferirebbe morire sulla nave». Per i 70 migranti ancora a bordo non ci sono bagni, usano le bottiglie di plastica per urinare.
Alla base marina di Tripoli il comandante Anwar El Sharif, infastidito dalle domande sulle sorti della Nivin taglia corto: «Sono dei pirati, criminali, non li consideriamo migranti e questa non è più un’operazione di soccorso. Hanno dato fuoco al carico della nave e tentato di uccidere l’equipaggio. Li tratteremo come meritano, cioè come terroristi. Saranno le forze speciali a evacuare la nave». La versione del comandante El Sharif non trova però alcun riscontro.
Nessuna auto è stata data alle fiamme, nessun tentato omicidio a bordo. Dall’interno del cargo Dittur invia a Repubblica le fotografie che mostrano le ferite, le ustioni provocate dal carburante sul gommone. E le cicatrici che raccontano un’altra storia, quella dei centri di detenzione da cui sono fuggiti e in cui non vogliono più tornare.
Dittur è scappato dal Sud Sudan, ha attraversato il deserto ed è stato arrestato la prima volta che ha provato ad imbarcarsi. È stato imprigionato sette mesi a Beni Walid. A quel tentativo ne è seguito un altro e un altro ancora.
«Ogni volta torture peggiori, e più soldi da chiedere alla mia famiglia per lasciarmi andare. Quando mi hanno chiuso di nuovo in una prigione ho chiesto di poter dare i miei documenti alle organizzazioni umanitarie, ci hanno detto che ci avrebbero aiutato a uscire, ad andare via di lì.
Ma passavano mesi, nessuno si faceva vivo». Nel Mediterraneo non ci sono più navi delle Ong, tranne la Mare Jonio e la vicenda della Nivin solleva anche dubbi sulla condotta delle navi mercantili che in assenza di Ong si piegano alle ingiunzioni della guardia costiera libica.

Corriere 16.11.18
Il rapporto Save The Children presenta l’Atlante dell’infanzia a rischio. Focus sulle periferie, l’emergenza educativa nasce qui
Ricucire l’innocenza, un milione e 200 mila bambini vivono in povertà assoluta
di Marta Ghezzi


Un solo isolato. Nelle grandi città, poche centinaia di metri possono fare la differenza nella vita di un bambino. Incidere in modo indelebile sul suo percorso di crescita. Perché nel nostro paese, quartieri anche contigui possono essere completamente diversi, mondi confinanti che scorrono su binari non paralleli. In Italia un milione e duecentomila bambini e adolescenti vivono in condizioni di povertà assoluta. Statistiche e sociologia dimostrano che il futuro di questi minori è determinato non solo dalle condizioni economiche familiari, ma anche dall’ambiente dove nascono e crescono. Così, anche la breve distanza da un rione all’altro diventa fondamentale: da una parte hai tutte le opportunità per il riscatto sociale, dall’altra non c’è (quasi) via d’uscita dalla povertà. Il presidente della Camera Roberto Fico ha parlato di «un quadro inaccettabile» alla presentazione del IX Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children «Le periferie dei bambini», pubblicato da Treccani, a fine mese nelle librerie. È il tradizionale rapporto dell’organizzazione internazionale, schierata dal 1919 a fianco dell’infanzia, che compie per la prima volta un viaggio nelle periferie delle grandi città.
Nelle aree più disagiate e vulnerabili, indicate come periferie educative per la totale mancanza di risorse. «L’Atlante le racconta dal di dentro e indica la strada: rigenerare questi territori per garantire a ogni bambino il diritto di crescere in un ambiente ricco di opportunità educative», dice Raffaela Milano, Direttrice Programmi Italia-Europa di Save the Children. Cultura, sport, trasporti, ambiente e abitare: Milano sottolinea il bisogno di intervenire su più fronti, con un investimento forte su strutture e servizi.
«Ci auguriamo che il Fondo Periferie riparta senza esitazioni — aggiunge —, la politica territoriale va ridisegnata. Senza dimenticare che la vera infrastruttura che manca al paese è quella educativa. Solo il 6% di bambini con genitori non istruiti raggiunge la laurea, il 94% resta bloccato al nastro di partenza. Stiamo negando un futuro dignitoso a intere generazioni».
Raffaella Milano
La politica territoriale
va ridisegnata. E il fondo per le periferie deve ripartire senza esitazioni
Il rapporto fa luce sulle disparità territoriali. A partire proprio dal tasso di scolarità. I dati sono sorprendenti: se al Vomero, quartiere bene di Napoli, le persone prive di diploma di scuola secondaria di primo grado (le vecchie medie) sono solo il 2%, la percentuale sale al 20 a Scampia. Numeri uguali a Palermo: Malaspina si attesta al 2%, Palazzo Reale raggiunge il 23%. Ancora più forte la forbice sull’istruzione universitaria: i laureati dei quartieri benestanti a nord di Roma sono quattro volte quelli della zona prossima al GRA, sette volte a Milano (51,2% nelle zone Pagano-Magenta contro il 7,6% di Quarto Oggiaro). Differenze marcate anche sui numeri dei Neet (quelli che non studiano nè lavorano) e sui risultati dei test Invalsi. E allargando lo sguardo, un altro dato preoccupante: il 77,1% dei minori che vivono nelle aree metropolitane più a rischio del Mezzogiorno, non pratica alcuna attività ricreativa, culturale o sportiva.
Una realtà che Save the Children conosce bene. L’organizzazione, che lavora in rete con una serie di partner locali, è presente nelle periferie più svantaggiate di una ventina di città italiane con 23 Punti Luce, spazi di aggregazione per bambini della fascia d’età 6-16 anni. «Costruiamo delle piccole comunità educanti, che offrono un’alternativa all’isolamento sociale e culturale», sottolinea ancora Milano. «Nei Punti Luce accompagniamo allo studio e alla lettura, avviciniamo alle nuove tecnologie, proponiamo laboratori artistici e musicali, gioco e sport. Nel solo 2018 siamo riusciti a coinvolgere 8130 minori».
Roberto Fico
Tutte le Istituzioni sono chiamate in causa affin-ché i diritti dell’infanzia siano rispettati in Italia
La disuguaglianza educativa si combatte, però, anche frenando la fuga dalla scuola. Save the Children è da tempo in prima linea anche contro il fenomeno della dispersione scolastica: nel 2011 l’organizzazione ha avviato a Torino, Milano e Bari il programma Fuoriclasse, che spinge l’acceleratore sulla motivazione allo studio e incoraggia il protagonismo nelle classi. Dallo scorso anno il programma è stato ampliato a tutta Italia e oggi sono più di 170 le scuole partecipanti, per un totale di ventimila studenti, duemila docenti e mille genitori raggiunti.

il manifesto 16.11.18
Sul nazifascismo ecco la memoria alla vicentina
di Angelo d'Orsi


Ecco un altro Signor Nessuno giunto ai disonori della cronaca, stavolta a Vicenza, comune in mano ad una Giunta di destra (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e liste civiche). Il cui vice-sindaco, Matteo Tosetto (professione immobiliarista), ha avuto il becco di raccontare in una conferenza stampa le motivazioni con cui l’Amministrazione della città ha deciso di cambiare una lapide commemorativa di uno dei peggiori eccidi nazisti in Italia.
Ebbene, a leggerle c’è davvero da rimanere di stucco, davanti a tanta ignoranza, tanta protervia e tanta stupida insolenza. Dunque lo zelante amministratore, ha spiegato che l’intervento lapideo relativo ai fatti del 9 novembre 1944, è stata fatto in nome della «memoria condivisa». Si è trattato di una semplice «correzione» del testo della lapide, dove sono scomparse due parole significative: «nazifascisti», ossia gli autori della strage (sostituiti da un pudico «truppe di occupazione»!), e «Resistenza», eliminata come parola eretica ed evitanda, sostituita con quella che è apparsa più tollerabile (a mala pena, ritengo) di «Costituzione». Ma avremmo oggi l’una, la Carta costituzionale, senza ciò che chiamiamo «Resistenza», ossia l’azione di uomini e donne tra il ’43 e il 45, si batterono contro i nazifascisti?
Il sindaco, Vincenzo Rucco, confermando le parole del suo vice, ha aggiunto che l’operazione è stata compiuta «nel rispetto di tutte le vittime», anche quelle dell’altra parte, insomma. Non ha spiegato però quali siano state le vittime dell’altra parte, e non avrebbe potuto in quanto non vi furono. Quel 9 novembre un’azione partigiana aveva fatto saltare un ponte sulla ferrovia che serviva al trasporto di truppe germaniche: un attentato utile alla causa della Resistenza, che non produsse vittima alcuna, tra tedeschi e repubblichini, ma ne scatenò la vendetta: dieci giovani e giovinetti, partigiani o sospetti partigiani, detenuti nel carcere padovano, furono fucilati per rappresaglia.
Atteggiandosi a filosofo liberale, il succitato vice-sindaco, venditore di case, ha sentenziato: «Non ci accapigliamo su chi abbia più titolo per parlare di libertà, che invece ha un valore assoluto». Dimenticando che la libertà ce l’hanno data proprio quei dieci ragazzi, e le centinaia di migliaia di italiani che come loro hanno gettato le loro vite su di un piatto della bilancia della storia, coscienti dei rischi che correvano, mentre sull’altro c’era appunto il valore della libertà. Che evidentemente a quegli «sconsiderati» doveva apparire un bene più importante delle stesse loro vite. E dall’altra parte, accanto alle «truppe di occupazione» operavano, sovente coprendosi il volto onde evitare che i compaesani li riconoscessero, gli adepti della Rsi, fascisti italiani che agivano di concerto con i tedeschi nazisti.
Oggi, Vicenza, il cui territorio molto ha dato alla lotta di Liberazione, con un gesto maramaldesco, ad opera della maggioranza che guida il Comune, dà un colpo di spugna sui fatti, sulle vittime, sui carnefici, tutto annegando nella ineffabile memoria condivisa. I guasti prodotti dal revisionismo storiografico, precipitato via via dai De Felice ai Pansa, in un processo inquietante, si stanno manifestando giorno dopo giorno, ovunque. Abbiamo commentato su queste pagine, solo pochi giorni fa, la proposta di sostituire al 25 Aprile (e al 2 Giugno), il 4 Novembre, una ricorrenza «nazionale» che sarebbe appunto da considerare «condivisa», mentre quelle date che hanno segnato le tappe della storia della Nuova Italia, sarebbero «divisive».
I segnali in questa stessa direzione sono innumerevoli. Oltre all’Anpi (da cui è arrivata una immediata reazione in sede locale: attendiamo quella nazionale), il mondo intellettuale, in particolare la comunità degli storici, non ha nulla da obiettare? Non siamo forse giunti ai segnali di una inaccettabile «riscrittura» della storia?

Corriere 16.11.18
1938-2018 Un libro dello storico Enzo Collotti. Qui una sintesi della prefazione
Quando il razzismo divenne legge
La svolta antisemita di Mussolini
di Donatella Di Cesare


Non vi furono pressioni naziste per l’adozione di misure contro gli ebrei
Colpire persone del tutto innocenti fu una scelta consapevole del regime
Che cosa può significare per un adolescente andare a scuola, come ogni giorno, ed essere rifiutato? «No, per te la scuola è chiusa — non solo oggi, ma per sempre». Così, senza alcun motivo plausibile; né per un provvedimento disciplinare, né tanto meno per aver commesso un reato. Semplicemente perché «sei ebrea!», «sei ebreo!». È capitato, nell’autunno del 1938, agli ebrei italiani che improvvisamente furono cacciati dai banchi di scuola, espulsi dalle aule universitarie. Coloro che passarono indenni per le successive sciagure, descrissero quell’evento come un trauma violento e inesplicabile. Primo Levi parlò di «fulmine», un termine frequente in altre testimonianze. Il che rende bene la drammaticità, ma anche la sorpresa e lo sconcerto.
Ciò avveniva nell’Italia fascista di Mussolini che, attraverso un decreto del 5 settembre 1938, firmato dal ministro Bottai, conquistò una triste e ignobile supremazia: fu la prima nazione a espellere le «persone di razza ebraica» dalle scuole di ogni ordine e grado, nonché dalle università e dalle accademie. Il decreto valeva per gli studenti come per gli insegnanti. Pur avendo emanato nel 1935 le leggi razziste di Norimberga, la Germania nazista introdusse solo un paio di mesi dopo l’Italia un’analoga misura.
Già questo deve far riflettere su quella singolare narrazione che ha dominato per decenni e si è radicata profondamente nell’immaginario collettivo italiano. Le cosiddette «leggi razziali» del 1938 sarebbero state l’esito di una imposizione della Germania che intimava di perseguitare gli ebrei italiani. Mussolini, invece, non avrebbe voluto altro che «discriminare non perseguitare», come proclamava uno slogan allora famoso. Se negli studi più recenti questa subdola narrazione è stata criticata e del tutto sconfessata, il mito degli Italiani «brava gente» è pur sempre duro a morire. Non è difficile intuire perché. Oltre a lavare con un colpo di spugna la coscienza della nazione, contrabbandando l’apparenza innocua di un fascismo tutt’al più «servile», questo mito ha avuto il vantaggio di rimuovere la «questione ebraica» in Italia. Come se non fossero mai esistiti né antisemitismo né antiebraismo.
Oltre a ripercorrere con chiarezza la storia delle leggi promulgate dal fascismo italiano per discriminare e perseguitare gli ebrei, il libro di Enzo Collotti Il fascismo e gli ebrei, in edicola domani con il «Corriere», richiama la nazione alla sua storia e alle sue responsabilità, delineando il contesto in cui quei provvedimenti furono emanati. Pur pubblicato per la prima volta nel 2003, questo lavoro resta un punto di riferimento imprescindibile in un filone di studi che si è andato estendendo. E mette l’accento proprio sull’intento di costruire anzitutto una «scuola fascista», la cui rilevanza era strategica per trasformare la cultura del Paese.
Gli ebrei erano cittadini italiani. In tal senso le leggi contro di loro furono una ferita inferta alla cittadinanza, un precedente grave e allarmante; sebbene non tutti i diritti fossero stati revocati, gli ebrei vennero di fatto espulsi dalla nazione. Molti di loro furono tanto più sorpresi, perché si sentivano profondamente italiani. Basti pensare al ghetto di Roma, sede della comunità ebraica più antica della diaspora, cuore della città. Proprio gli ebrei romani avevano più di altri salutato con gioia l’unità nazionale per le libertà di cui avrebbero goduto. La costruzione, tra il 1901 e il 1904, del Tempio Maggiore, quasi al centro del ghetto, fu il suggello di un’assimilazione compiuta. Ma lo era davvero?
Il criterio
L’essenza ebraica fu identificata nel sangue al quale si attribuirono tratti immutabili
Nel contesto italiano, come in quello di altri Paesi europei, restava aperta la «questione ebraica». Si doveva considerare l’ebraismo una religione? Come lo è il cristianesimo? Quest’idea aveva promosso l’emancipazione: gli ebrei avrebbero potuto essere cittadini — italiani, tedeschi, francesi, ecc. — nella sfera pubblica, esercitando il proprio culto in privato. Si sarebbe trattato allora solo di un’uguaglianza di diritti. Sennonché gli ebrei erano anche un popolo con una lunga storia. Da qui nasceva, nella modernità, il topos dello «Stato nello Stato». La questione non era solo religiosa, ma anche politica. Se appartenevano a un popolo altro, gli ebrei erano allora «nemici» all’interno della nazione, tanto più temibili e pericolosi perché si spacciavano per quello che non erano, si facevano passare per tedeschi o per italiani, mentre erano «stranieri».
Questi logori cliché tornarono, anzi, ad accendersi, allorché si coniugarono con l’antisemitismo di stampo più prettamente politico. La Germania anticipò i tempi e dette, per così dire, l’esempio, mostrando che era possibile legiferare contro una parte dei propri cittadini che non avevano commesso alcun reato. Ma fu appunto solo un esempio e, tutt’al più, uno stimolo. Non esistono prove e documenti che testimonino un intervento tedesco nelle scelte della politica fascista.
Per emanare le leggi antiebraiche occorreva, però, definire l’«ebreo». Tale definizione si sarebbe rivelata non solo ardua e problematica, ma alla fin fine impossibile. Chi si era convertito al cristianesimo non avrebbe forse dovuto essere considerato cristiano? E che dire poi dei figli di coloro che erano battezzati da una o più generazioni? Malgrado tutto l’acqua del battesimo non sembrava, però, sufficiente a lavare il sangue.
Questa era stata la lezione delle prime leggi razziste, promulgate a Toledo il 5 giugno 1449. Grazie alla «purezza del sangue», più importante di quella della fede, vennero prese misure contro i marrani, ebrei convertiti più o meno forzatamente al cristianesimo, distinti così dai cristiani di «pura origine». Già allora si andarono chiudendo le porte della fratellanza universale, mentre cominciò l’ossessione per la genealogia. L’essenza ebraica fu identificata nel sangue, fluido così vitale e corporeo, così occulto e ineffabile, nel quale si credette di scorgere gli immutabili tratti ebraici, impossibili da emendare. Nessuna conversione avrebbe mai potuto guarire quel «male incurabile», dal cui contagio era necessario preservarsi. La teologia ricorreva alla politica e, viceversa, la politica alla teologia.

L’esordio
Il primo provvedimento fu espellere studenti e insegnanti da scuole e università pubbliche
Questa singolare metafisica del sangue restò anche in seguito alla base delle leggi razziste. Come se davvero il sangue fosse criterio di purezza. Si comprende perciò l’imbarazzo della Chiesa di fronte alle leggi del 1938, che in Italia vietavano i «matrimoni misti», un imbarazzo messo tuttavia a tacere. Ma si comprende anche la difficoltà di definire l’«ebreo», che non ebbe altro esito se non una raccapricciante aritmetica che contava il quarto, il settimo, il decimo di sangue impuro. Lo scopo fu dapprima quello di discriminare e separare, quindi di espellere e, alla fin fine, eliminare. Il diritto, che avrebbe dovuto garantire la protezione dei cittadini, fu piegato a quell’impresa violenta di potere.

Corriere 16.11.18
Arte e politica
Xi oscura anche Deng
Due quadri riscrivono il suo ruolo nella storia
di Guido Santevecchi


Quarant’anni dopo la Grande Apertura del 1978
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO Quarant’anni fa Deng Xiaoping tracciò la rotta verso la grande apertura della Cina all’economia di mercato e al mondo, sostituendo alla lotta di classe lo sforzo per la modernizzazione del sistema produttivo. Ai cinesi piacciono gli anniversari, soprattutto quelli a «cifra tonda» e il logo «40» compare da mesi su giornali e tg che presentano la crescita cinese come modello per le economie emergenti.
Era il dicembre 1978 quando nel Terzo Plenum dell’XI Comitato centrale del Partito comunista Deng lanciò il «socialismo con caratteristiche cinesi», vale a dire più mercato e un po’ meno marxismo. La Cina sottosviluppata e dilaniata dalla Rivoluzione culturale maoista cominciò a correre e ad arricchirsi. Ma c’è una stranezza, uno strappo storico: oggi, più che celebrare il Piccolo timoniere Deng, la propaganda parla della Nuova era ispirata dal Pensiero di Xi Jinping.
L’operazione revisionista è parsa evidente nella mostra sul quarantennale allestita in estate al Museo nazionale delle arti di Pechino. Al centro un quadro a olio di Xi tra la folla adorante e solo sullo sfondo, quasi indistinguibile, una statua di Deng. Molto spazio anche per Xi Zhongxun, padre dell’attuale presidente: ritratto mentre illustra su una mappa a Deng le linee dello sviluppo di Shenzhen, che nel 1980 fu designata come prima zona economica speciale. Il titolo del quadro è evocativo: «Inizio di primavera»; ma Xi Zhongxun era segretario di Partito nel Guangdong e l’idea che abbia fatto lezione al leader Deng non regge. Oltretutto Xi Zhongxun fu in seguito emarginato per volere di Deng. Nella mostra Xi padre compare ancora: con i pantaloni rimboccati insegna ai contadini come uscire dalle pastoie della collettivizzazione, un altro elemento chiave delle riforme di Deng. E poco distante ecco il segretario generale, rieletto a marzo presidente senza limiti temporali di mandato, con i pantaloni rimboccati fino alle caviglie mentre ispeziona un cantiere.
L’economia rallenta. Meglio allora rivendicare per la famiglia Xi un ruolo decisivo nelle grandi riforme partite quarant’anni fa. E gli eredi di Deng? Deng Pufang, figlio di Deng Xiaoping, ha rotto il silenzio per invocare che la Cina «mantenga sobrietà» nell’affrontare i problemi interni e «preservi il suo posto» nelle relazioni internazionali, quasi un controcanto alle ambizioni di Xi per la supremazia geopolitica e militare nei confronti degli Stati Uniti. Discorso di settembre: la stampa di Pechino l’ha trascurato.
Deng Pufang ragiona come il padre che insegnò ai compagni della direzione collegiale costituita dopo la morte di Mao: «Celare la nostra forza e guadagnare tempo». Nel discorso ha ricordato i dieci anni bruciati nel terrore della Rivoluzione culturale, tra il 1966 e il 1976. Un evento che lo accomuna a Xi. Il figlio di Deng fu picchiato dalle Guardie rosse, è su una sedia a rotelle; Xi Jinping trascorse quel tempo a spalare in campagna. I due sono «principi rossi», figli dei primi eroi della rivoluzione comunista. Ma ora Xi Jinping promuove il padre e sminuisce Deng Xiaoping. Anche una sfida tra famiglie.

https://spogli.blogspot.com/2018/11/repubblica-16.html