martedì 13 novembre 2018

Repubblica 13.11.18
"Becoming - La mia storia"
L’autobiografia di Michelle Obama
"Il potere è dare speranza Ma io non mi candiderò ho visto troppe cattiverie"
di Michelle Obama


Barack e io abbiamo lasciato per l’ultima volta la Casa Bianca il 20 gennaio 2017 per accompagnare Donald e Melania Trump alla cerimonia di insediamento. Quel giorno provavo tante sensazioni contemporaneamente: stanchezza, orgoglio, turbamento, impazienza.
Soprattutto, però, cercavo di mantenere la calma, consapevole che le telecamere seguivano ogni nostro movimento. Mio marito e io eravamo determinati a completare il passaggio di consegne con grazia e dignità, a finire gli otto anni con i nostri ideali e la nostra compostezza intatti. Eravamo arrivati all’ultima ora. Quella mattina, Barack era andato per l’ultima volta nello Studio ovale e aveva lasciato una nota manoscritta per il suo successore. Ci eravamo radunati al piano di Stato per salutare il personale permanente della Casa Bianca, i maggiordomi, gli uscieri, gli chef, i domestici, i fiorai e tutti coloro che si erano presi cura di noi con amicizia e professionalità, e ora avrebbero usato la stessa cortesia con la famiglia che si sarebbe trasferita lì nel corso della giornata. Gli addii furono particolarmente difficili per Sasha e Malia, perché molte di quelle persone le avevano viste quasi tutti i giorni per metà della loro vita. Io li avevo abbracciati uno per uno e avevo cercato di non piangere quando ci avevano consegnato come dono di commiato due bandiere americane: quella del primo giorno della presidenza di Barack e quella che sventolava l’ultimo giorno del suo mandato, due simboli che aprivano e chiudevano l’esperienza della nostra famiglia in quel luogo.
Seduta per la terza volta sul palco dell’insediamento, di fronte al Campidoglio, cercavo di contenere le emozioni. La vibrante varietà di culture ed espressioni delle due cerimonie precedenti non c’era più, sostituita da un’uniformità scoraggiante, una scena occupata quasi solo da maschi bianchi, come tante in cui mi ero spesso imbattuta nella mia vita, specialmente nei luoghi più privilegiati, nei vari corridoi del potere in cui mi ero infilata da quando avevo lasciato la casa della mia infanzia in Euclid Avenue. La mia esperienza professionale — dal reclutamento di nuovi avvocati per Sidley & Austin alle assunzioni alla Casa Bianca — mi aveva insegnato che l’omogeneità alimenta ulteriore omogeneità, fino a quando non si fa uno sforzo meditato per correggerla. Osservando le circa trecento persone sedute sul palco, gli illustri ospiti del nuovo presidente, mi sembrava evidente che, nella sua Casa Bianca, un simile sforzo sarebbe stato improbabile. Qualcuno dell’amministrazione di Barack avrebbe potuto dire che era un problema di percezione negativa, che l’immagine che vedeva il pubblico non rifletteva la realtà o gli ideali della presidenza. Ma, in questo caso, forse sì. Mentre me ne rendevo conto, smisi anche di cercare di sorridere. Una transizione è esattamente questo: il passaggio a qualcosa di nuovo. Una mano si posa sulla Bibbia; si ripete un giuramento. I mobili di un presidente vengono trasportati fuori mentre entrano quelli di un altro. Si svuotano e si riempiono cassetti. Nuove teste riposano su nuovi guanciali: nuovi temperamenti, nuovi sogni. E quando il tuo mandato è finito, quando, l’ultimo giorno, lasci la Casa Bianca, sotto molti aspetti devi recuperare te stesso. Mi trovo adesso a un nuovo punto d’inizio, in una nuova fase della mia vita. Per la prima volta in molti anni sono svincolata dai doveri della moglie di un politico, sono libera dalle aspettative degli altri. Ho due figlie ormai quasi adulte che hanno meno bisogno di me rispetto a un tempo. Un marito che non porta più sulle spalle il peso della nazione. Le responsabilità che sentivo — nei confronti di Sasha e di Malia, di Barack, della mia carriera e del mio Paese — sono così cambiate da permettermi di pensare in modo diverso a quello che verrà.
Ho avuto più tempo per riflettere, per essere semplicemente me stessa. A cinquantaquattro anni non ho finito di crescere e spero di non finire mai. Per me, diventare qualcuno non significa soltanto raggiungere una certa destinazione o conseguire un certo fine. Lo considero piuttosto un perpetuo movimento in avanti, un mezzo per evolvere, un modo per cercare costantemente di migliorarsi. Il viaggio non finisce. Sono diventata una madre, ma ho ancora molto da imparare dalle mie figlie e da dare loro. Sono diventata una moglie, ma sto ancora cercando di capire, conscia dei miei limiti, ciò che significa amare veramente un’altra persona e costruire una vita insieme. Sono diventata, fino a un certo punto, una persona di potere, eppure ci sono ancora momenti in cui mi sento insicura o inascoltata. Fa tutto parte dello stesso processo, sono passi lungo un percorso.
Diventare richiede pazienza e rigore in parti uguali. Diventare significa non rinunciare mai all’idea che bisogna ancora crescere.
Siccome me lo chiedono spesso, lo dirò qui, senza mezzi termini: non ho intenzione di candidarmi a una carica politica, non lo farò mai. Non sono mai stata un’appassionata di questo mondo e la mia esperienza negli ultimi dieci anni non ha fatto molto per cambiare il mio atteggiamento. Continuo a essere sconcertata dalle cattiverie, dalla segregazione tribale di rossi e blu, quest’idea che si debba scegliere un partito e seguirlo ciecamente, senza ascoltare gli altri né scendere a compromessi o, a volte, persino senza comportarsi da persone civili. Io credo che la politica, nella sua accezione migliore, possa essere uno strumento di cambiamento positivo, ma questa arena non fa per me.
Questo non vuol dire che non mi stia profondamente a cuore il futuro del nostro Paese. Da quando Barack non è più in carica ho letto notizie che mi fanno rivoltare lo stomaco. Sono rimasta a letto sveglia la notte, fumante di rabbia. È stato doloroso vedere come il comportamento e l’agenda politica dell’attuale presidente abbiano indotto molti americani a dubitare di sé stessi e a dubitare degli altri e temerli.
Non è stato facile stare a guardare mentre provvedimenti approntati con cura e attenti ai bisogni delle persone venivano cancellati, mentre ci alienavamo la simpatia di alcuni dei nostri più stretti alleati e abbandonavamo i membri più vulnerabili della nostra società lasciandoli senza difese fino a disumanizzarli. A volte mi chiedo quando mai arriveremo a toccare il fondo. Quello che non voglio permettermi, però, è di diventare cinica. Nei momenti in cui sono più preoccupata, mi fermo, respiro a fondo e ricordo a me stessa la dignità e la correttezza di molte persone che ho incontrato nel corso della mia vita, i molti ostacoli che sono già stati superati. Spero che altri facciano lo stesso. Tutti noi abbiamo un ruolo in questa democrazia. Dobbiamo ricordare il potere di ogni singolo voto. Io resto sempre legata a una forza che è più grande e più potente di qualsiasi elezione o leader o notizia di cronaca: l’ottimismo. Per me, è una forma di fede, un antidoto alla paura. L’ottimismo regnava nel piccolo appartamento della mia famiglia in Euclid Avenue.
Lo riconoscevo in mio padre, nel modo in cui si muoveva come se niente fosse, come se la malattia che un giorno l’avrebbe portato via non esistesse. Lo riconoscevo
La ex first lady si racconta, a due anni dall’elezione che ha insediato Trump alla Casa Bianca. Il difficile addio di Malia e Sasha al personale che le ha viste crescere in 8 anni, le bandiere donate, la delusione per il successore, la nuova vita