martedì 13 novembre 2018

Corriere 13.11.18
L’anticipazione. L’autobiografia di Michelle
Esce oggi in tutto il mondo, in Italia per Garzanti
«Barack si accese una sigaretta e pensai: sarà solo il mio stagista»
«Ciò che mi colpì fu la sua sicurezza riguardo alla direzione che
avrebbe preso la sua vita. Era stranamente privo di dubbi»
di Michelle Obama


L’incontro con Obama nello studio legale, i racconti, le risate Ma la futura first lady era sicura: non ci sarebbe mai uscita
I l primo giorno di lavoro Barack Obama è arrivato in ritardo. Io ero seduta nel mio ufficio al quarantaseiesimo piano, e un po’ lo aspettavo e un po’ no. Come molti avvocati al primo anno in uno studio, avevo un sacco di lavoro da sbrigare. Facevo gli straordinari e spesso consumavo sia il pranzo sia la cena seduta alla scrivania mentre combattevo con un flusso continuo di documenti, tutti scritti nella lingua precisa e forbita dei legali. Leggevo promemoria, scrivevo promemoria, rivedevo i promemoria di altre persone (...).
Guardai l’orologio. «Nessun segno di questo tizio?» gridai a Lorraine. Sentii un sospiro. «No, bambina», mi rispose. Era divertita, ci potevo scommettere. Sapeva che i ritardi mi facevano infuriare: li consideravo un inequivocabile segno di arroganza. Barack Obama aveva già creato scompiglio nello studio. Per prima cosa, aveva appena terminato il primo anno di Legge e noi, di norma, per gli stage estivi accettavamo solo studenti del secondo anno. Ma si diceva che fosse eccezionale. Si era sparsa la voce che secondo uno dei suoi professori di Harvard — la figlia di un socio dello studio — fosse lo studente di Legge più dotato che avesse mai conosciuto. Alcune segretarie che lo avevano visto arrivare in studio per il colloquio dicevano che, oltre a essere brillante, era anche carino.
Io ero molto scettica su tutto. Per mia esperienza, basta mettere un completo a un nero di intelligenza media, e i bianchi vanno fuori di testa. Avevo i miei dubbi che valesse tutto quello strombazzamento. Avevo controllato la sua foto nell’edizione estiva del nostro annuario — il ritratto non certo lusinghiero, male illuminato, di un tizio con un grande sorriso e un’ombra di goffaggine — e non mi aveva impressionato. La sua biografia diceva che era originario delle Hawaii, il che, almeno, lo rendeva un imbranato piuttosto esotico. Per il resto, nessun particolare di spicco. L’unica sorpresa era arrivata alcune settimane prima, quando gli avevo fatto la rapida telefonata di prassi per presentarmi. La voce all’altro capo del filo mi aveva fatto piacevolmente trasalire: ricca, baritonale, persino sexy. Non sembrava corrispondere per niente alla sua foto. (...). Lo trovai seduto su un divano, questo Barack Obama in completo scuro e ancora un po’ umido per la pioggia. Sorrise impacciato e si scusò del ritardo mentre mi stringeva la mano. Aveva un sorriso ampio ed era più alto e più magro di quanto avessi immaginato: non doveva essere un mangione, e aveva anche l’aria di non essere abituato a indossare abiti formali. Se sapeva di arrivare con la reputazione del fenomeno, non lo dava a vedere. Mentre lo guidavo lungo i corridoi verso il mio ufficio e intanto lo introducevo alla routine di un grande studio legale — mostrandogli la segreteria e la macchina del caffè, spiegandogli il nostro sistema per tenere il conto delle ore fatturabili — fu silenzioso e deferente. (...)
Più tardi, portai Barack a pranzo nell’elegante ristorante al primo piano del grattacielo in cui si trovava il nostro studio, un posto che trasudava potere, zeppo di banchieri e avvocati disposti a pagare un rapido pranzo quanto una cena. Questo era il vantaggio di avere uno stagista estivo a cui fare da tutor: era una scusa per mangiare fuori, e bene, a spese dello studio. Come tutor, il mio ruolo nei confronti di Barack aveva soprattutto una valenza sociale. Il mio compito era di assicurarmi che fosse felice del suo lavoro, avesse qualcuno a cui rivolgersi nel caso avesse avuto bisogno di consigli e che si sentisse parte della squadra. Era l’inizio di una lunga operazione di corteggiamento, basata sull’ipotesi — che valeva per tutti gli stagisti estivi — che lo studio volesse assumerlo a tempo pieno dopo il conseguimento della laurea in Legge.
Mi resi conto molto in fretta che a Barack di consigli ne sarebbero serviti pochi. Aveva tre anni più di me, visto che stava per compierne ventotto. Diversamente da me, aveva lavorato per alcuni anni dopo aver finito il primo ciclo di studi universitari alla Columbia, prima di entrare alla Law School. Ciò che mi colpì fu la sua sicurezza riguardo alla direzione che avrebbe preso la sua vita. Era stranamente privo di dubbi, sebbene, a prima vista, fosse difficile capire perché. Paragonata alla mia marcia a tappe forzate verso il successo, alla traiettoria diretta della freccia che avevo scagliato io, da Princeton a Harvard fino alla mia scrivania al quarantaseiesimo piano, il percorso di Barack era uno zigzag improvvisato attraverso mondi diversi.
Appresi a pranzo che era un ibrido in tutti i sensi, figlio di un padre nero, keniano, e di una madre bianca originaria del Kansas, che si erano sposati giovanissimi e il cui matrimonio aveva avuto vita breve. Era nato e cresciuto a Honolulu ma aveva trascorso quattro anni della sua infanzia a far volare aquiloni e cacciare grilli in Indonesia. Dopo le superiori si era concesso due anni relativamente rilassati come studente a Los Angeles, all’Occidental College, prima di trasferirsi alla Columbia, dove, a quanto diceva, non si era affatto comportato come uno studente libero di fare quello che voleva nella Manhattan degli anni Ottanta, ma anzi aveva vissuto come un eremita del sedicesimo secolo, leggendo opere di letteratura e filosofia in un sudicio appartamento della Centonovesima Strada, scrivendo brutte poesie e digiunando la domenica.
Ridemmo di tutti questi racconti, ci scambiammo storie sulle nostre origini famigliari e su cosa ci aveva portato a studiare Legge. Barack era serio senza prendersi sul serio. Aveva modi disinvolti ma rivelava un’insolita potenza di pensiero. Era una combinazione strana e stimolante. Fui anche sorpresa della sua buona conoscenza di Chicago. Barack era la prima persona che avevo incontrato da Sidley ad aver trascorso un po’ di tempo nei negozi dei barbieri, nei ristoranti popolari e nelle parrocchie dei predicatori neri nella parte più meridionale del South Side. Prima di frequentare la Law School, aveva lavorato per tre anni a Chicago come coordinatore di comunità, a 12.000 dollari l’anno, per un’organizzazione non profit che riuniva un gruppo di chiese. Il suo compito consisteva nell’aiutare a ricostruire le comunità di quartiere e a creare occupazione. Per come lo descrisse lui, il suo lavoro era per due terzi frustrante e per un terzo gratificante: aveva trascorso settimane a progettare un incontro a cui si erano presentate non più di dieci persone. I suoi sforzi erano derisi dai capi dei sindacati e criticati sia dai bianchi sia dai neri. Eppure, col tempo, aveva ottenuto alcune piccole vittorie, e ciò sembrava incoraggiarlo. Era entrato alla Law School, mi spiegò, perché proprio l’attività organizzativa di base gli aveva mostrato che un cambiamento sociale significativo richiedeva non solo il lavoro sul campo, ma anche politiche mirate e l’azione del governo.
Nonostante la mia resistenza al clamore che l’aveva preceduto, mi trovai ad ammirarlo sia per la sua sicurezza sia per la sua serietà. Era piacevole, anticonvenzionale e a modo suo elegante. Nemmeno una volta, tuttavia, pensai a lui come a uno con cui mi sarebbe piaciuto uscire. Innanzitutto, ero il suo tutor nello studio. In secondo luogo, avevo appena giurato a me stessa che non sarei uscita più con nessuno: ero troppo logorata dal lavoro per dedicare anche uno sforzo minimo a una storia. E, infine, era accaduta una cosa orribile: al termine del pranzo Barack si accese una sigaretta, un gesto che sarebbe stato di per sé sufficiente a smorzare qualsiasi mio interesse, se ne avessi avuto uno. Sarebbe stato un buon pupillo per l’estate, pensai tra me.