martedì 13 novembre 2018

Repubblica 13.11.18
Massimo Cacciari replica a Pier Luigi Cervellati
"La città non è utopia ha bisogno dei turisti"
Intervista di Raffaella De Santis


Bisogna partire da una visione realistica non dalle utopie». Massimo Cacciari risponde a Pier Luigi Cervellati, intervistato ieri su Repubblica da Francesco Erbani sulla questione dello svuotamento dei centri storici ridotti a grandi shopping center, quasi con stupore: «Ma di cosa stiamo parlando? Come si può solo pensare di eliminare i turisti dai centri storici e riportarci i residenti? Sono ragionamenti da anime belle». Per il filosofo abituato a riflettere sulla razionalità moderna e sulle trasformazioni della polis, e che è stato per anni sindaco di Venezia, la denuncia di Cervellati pecca di astrazione.
Perché le sembra irrealistico immaginare di ripopolare la città storica risanando le abitazioni?
«Sarebbe un’idea strepitosa se fosse fattibile, ma non lo è. Tutte le persone ricche e straricche che abitavano sul Canal Grande quando ero ragazzo hanno scelto di andarsene perché i costi di manutenzione di una residenza storica sono incompatibili con le tasche di chicchessia».
Cervellati propone soluzioni per non lasciare il centro cittadino solo ai supermercati o ai grandi negozi di abbigliamento.
«Sono discorsi destinati a cadere nel vuoto perché ignorano il contesto storico, economico, sociale in cui ci troviamo. Sono proposte assolutamente irrealizzabili, sia nei centri storici italiani sia in quelli di Parigi, Vienna o Londra. A Manhattan come a Trafalgar Square. Il fenomeno che viviamo in Italia è analogo a quello di tutti i centri storici delle maggiori città del mondo, dove funzioni più redditizie di quelle residenziali diventano competitive».
Sta parlando dei soldi portati dal turismo?
«Sa qual è la verità? Che molti importanti edifici del centro di Venezia e di Firenze sono stati salvati dall’attività ricettiva. Senza la possibilità di trasformarli in strutture turistiche, molti edifici importanti sarebbero crollati».
Dunque dovremmo ribaltare tutto e arrivare a dire che sono i turisti a salvare le città?
«Il turismo dà da vivere, direttamente o indirettamente, a 30- 40 mila famiglie soltanto a Venezia. È uno dei nostri massimi settori industriali, ci rende competitivi».
Ci sarà però un modo per venire a patti con la realtà senza snaturarla?
«Il problema italiano è che stiamo diventando una monocultura. Il turismo dovrebbe affiancarsi ad altro. Dovremmo riuscire a far decollare nei centri storici altre attività, direzionali e terziarie: aziende, centri di ricerca, attività di formazione, università».
I nostri centri storici spesso ospitano sedi universitarie e sono vissuti dagli studenti...
« Dobbiamo cercare di mantenere nei centri storici le funzioni di formazione e di ricerca. Ma è difficile. Offrire laboratori, servizi, campus in un centro è complicato. A Milano è in corso un grande dibattito sulla possibilità di portare o meno alcune funzioni universitarie fuori, nella zona Fiera Nuova».
Le soluzioni devono essere politiche più che estetiche?
«Possiamo solo cercare di governare la trasformazione. A Venezia c’erano due milioni di turisti all’anno negli anni Settanta, adesso ce ne sono trenta milioni. Ed è una pressione irresistibile, una domanda che continuerà a crescere. Pochi anni fa non c’erano i cinesi, non c’erano i russi. Adesso sì, a valanghe. Sarà dura. Il consumo della città aumenta vertiginosamente. Un monumento visitato da dieci persone soffre di meno di un monumento visitato da dieci milioni. Bisogna lavorare sull’organizzazione del flusso turistico, renderlo più razionale nelle città più martellate, ma certo non è pensabile disincentivare il turismo. Vorrebbe dire farsi del male, in Italia è l’unica risorsa che abbiamo».
Stiamo alle realtà allora. Come evitare che il cuore cittadino diventi un museo che la sera si svuota?
«È assurdo affrontare queste questioni di natura economica e sociale dal punto di vista dell’architetto scocciato perché vede i turisti per la strada. È fuori contesto, fuori mondo, fuori storia.
Se vogliamo resistere al deflusso dai centri storici bisogna dare alle persone la possibilità di viverci a parità di condizioni rispetto a chi vive altrove. Il costo della vita di chi abita in centro non può essere il doppio rispetto a chi abita dieci chilometri fuori. Oggi invece stare in centro ha dei prezzi altissimi.
Bisognerebbe rivedere il sistema fiscale e di agevolazioni, sia per i residenti che per le attività artigianali e commerciali».
Crede che la visione di Cervellati sia utopica rispetto allo stato di fatto?
«Non parte dalle cose, dalla realtà.
Una città come Venezia alla fine dell’Ottocento stava diecimila volte peggio di adesso. Basta dare un’occhiata alle fotografie, era decrepita, già in vista di abbandono totale da parte del patriziato, dei nobili».
Ha senso distinguere centro e periferia nelle politiche urbanistiche?
«È un discorso che ho fatto tante volte, sul quale ho scritto e riscritto.
Dov’è la città adesso? Viviamo in città infinite, senza confini. Centro e periferia sono astrazioni.Rispetto alle trasformazioni in atto, possiamo solo valutare di volta in volta come agire. Non può esserci una regola generale, stabilita da qualche programmatore di piani.
Le città si evolvono, come le lingue. Possiamo solo contrattare continuamente con la loro evoluzione. E dobbiamo farlo con arte e volontà politica. Casa per casa».