Corriere 13.11.18
Gli ebrei cancellati
Georges Bensoussan,
con un saggio controcorrente pubblicato da Giuntina, riporta
l’attenzione su vicende tragiche che molti preferiscono non affrontareLa
sua posizione gli ha attirato in Francia accuse di islamofobia e
razzismo
di Paolo Mieli
tra gli arabi dilagava l’antisemitismo
molti anni prima che nascesse israele
Sotto
l’occupazione tedesca della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) alcune
case di ebrei furono saccheggiate e alcune donne ebree furono stuprate
da musulmani. «In generale gli autori di queste violenze furono
incoraggiati dai tedeschi», ha scritto Norman Stillman anche se,
«temendo disordini di maggiore ampiezza, il comandante tedesco
intervenne per mettere fine a quegli incidenti». Quegli «incidenti», in
ogni caso, furono ricondotti — in tema di responsabilità —
all’occupazione nazista. Ma lo stesso Stillman notò, non senza sorpresa
che «i saccheggi di case ebraiche ad opera degli arabi furono più gravi
dopo che i tedeschi si ritirarono dalla città». Proprio così: le
violenze antiebraiche in Tunisia nel corso della Seconda guerra mondiale
sono cresciute dopo il ritiro dei nazisti. E quando arrivarono gli
Alleati, Philip Jordan, corrispondente di guerra britannico, scrisse che
«tutti gli ebrei della città avevano subito saccheggi dagli arabi e che
erano state rubate persino porte e finestre». Anche, se non
soprattutto, dopo che i soldati con la svastica se n’erano andati.
Come
mai? E perché subito dopo il mondo arabo si è svuotato dei suoi ebrei
nel corso di appena una generazione (1945-1970)? Tra l’altro quasi senza
espulsioni palesi, eccetto l’Egitto… Perché questo strappo così rapido
da una terra sulla quale gli ebrei vivevano da oltre duemila anni?
Georges Bensoussan ha scritto un libro, Gli ebrei del mondo arabo.
L’argomento proibito, che sta per uscire da Giuntina, nel quale analizza
le vessazioni a cui sono stati sottoposti gli israeliti in quell’area
geografica da molto prima che esplodesse il conflitto tra Israele e i
palestinesi. Gli ebrei sono stati costretti ad abbandonare quelle terre
in una misura davvero rimarchevole: se ne dovettero andare novecentomila
persone nel secondo dopoguerra, nell’arco di poco più di due decenni.
Un esodo che, secondo Bensoussan, «mise fine ad una civiltà
bimillenaria, anteriore all’Islam e all’arrivo dei conquistatori arabi».
Come è potuto accadere? «Più del sionismo e della nascita dello Stato
di Israele», risponde l’autore, «sono stati l’emancipazione degli ebrei
attraverso l’istruzione scolastica e l’incontro con l’Occidente dei Lumi
a provocarne la scomparsa in quei Paesi, quindi il loro riscatto, un
evento inconcepibile per l’immaginario di un mondo in cui la
sottomissione dell’ebreo aveva finito per costituire una pietra
angolare». Generalmente, scrive Bensoussan, «ci dicono che le società
ebraiche d’Oriente sarebbero declinate con il conflitto arabo-israeliano
e che l’antigiudaismo arabo sarebbe una ricaduta del conflitto
palestinese». Ma «questa tesi è smentita da moltissimi testimoni
occidentali riguardo agli anni 1890-1940, siano essi amministratori
coloniali, militari, medici, giornalisti o viaggiatori». Tutti
raccontano «della virulenza di un sentimento antiebraico, ad ogni
evidenza variabile a seconda delle regioni e dei periodi, senza
connessione alcuna con la questione palestinese».
Bensoussan è uno
storico francese ebreo nato nel 1952 in Marocco. Timido, ha sempre
scelto di starsene in disparte. Non ha mai amato il palcoscenico
letterario. Fino al 2015 non godeva, anzi, di grande notorietà,
nonostante avesse scritto diversi libri, avesse ricevuto importanti
premi, fosse stato nominato direttore editoriale del Mémorial de la
Shoah. Che cosa è allora che lo ha portato alla ribalta nel 2015 quando
aveva 63 anni? Nel corso di una trasmissione radiofonica su France2,
Répliques, gli sfuggirono (o forse le pronunciò intenzionalmente) le
seguenti parole: «Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande
coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia — è risaputo ma
nessuno vuole dirlo — l’antisemitismo arriva con il latte materno». Era
la citazione di un ragionamento altrui, anche se ad ogni evidenza
Bensoussan lo condivideva nel merito. Comunque sarebbe passata
inosservata se non fosse sceso in campo il «Movimento contro il razzismo
e per l’amicizia tra i popoli», accusando lo storico d’aver fatto sue
«parole antiarabe e razziste» per di più «in un servizio pubblico». Il
Movimento chiese alla radio nonché ai responsabili del Mémorial di
prendere le distanze da Bensoussan, e lo trascinò per ben due volte in
giudizio. Radio e Mémorial lo misero in quarantena assai prima della
sentenza definitiva e pochi solidarizzarono con Bensoussan: tra questi
meritano di essere ricordati Pierre Nora, Alain Finkielkraut e,
dall’Algeria, Boualem Sansal. Dopodiché la sua vita fu praticamente
distrutta. Infine nel 2018 è arrivata la definitiva assoluzione, ma
ormai sarebbe stato difficile per lui recuperare una qualche serenità.
Ma, con ostinazione, Bensoussan ha continuato a studiare le condizioni
in cui gli ebrei vivevano nel mondo arabo quando lo Stato di Israele non
era ancora neanche all’orizzonte. Mettendo in evidenza anche i (pochi)
caratteri positivi di quella coabitazione con il mondo musulmano. In un
quadro per il resto agghiacciante.
All’inizio del XVI secolo il
frate francescano Francesco Suriano descriveva con queste parole la vita
degli israeliti in Palestina: «Questi cani, gli ebrei, sono calpestati,
picchiati e tormentati come meritano. Vivono in questo Paese in una
condizione di sottomissione che le parole non possono descrivere. È una
cosa istruttiva vedere che a Gerusalemme Dio li punisce più che in ogni
altra parte del mondo. Ho visto questo luogo per lungo tempo. Essi sono
anche uno contro l’altro e si odiano, mentre i musulmani li trattano
come cani… Il più grande obbrobrio per un individuo è di essere trattato
da ebreo». E ancora: «Ovunque — scrive nel 1790 l’inglese William
Lemprière a proposito degli ebrei di Marrakech — sono trattati come
esseri di una classe inferiore alla nostra. In nessuna parte del mondo
li si opprime come in Berberia… Malgrado tutti i servigi che gli ebrei
rendono ai mori, essi sono trattati con più durezza di quanto farebbero
con i loro animali». La stessa immagine che usa l’abate francese Léon
Godard nel 1857, di ritorno da un viaggio: «Gli ebrei in Marocco sono
considerati tra gli animali immondi… La tolleranza dei prìncipi
musulmani consiste nel lasciare vivere gli ebrei come si lascia vivere
un gregge di animali utili». «Se un musulmano li colpisce», prosegue
Godard, agli ebrei «è proibito, pena la morte, di difendersi eccetto che
con la fuga o con la destrezza».
A ridosso della Seconda guerra
mondiale, il Marocco fu relativamente al riparo dalle esplosioni di
violenza antiebraica. Molto relativamente. Nel Maghreb, qualcuno
sostiene, la popolazione musulmana non avrebbe gioito per le misure
antiebraiche promulgate da Vichy. Avrebbero perfino manifestato
solidarietà nei confronti dei perseguitati. Ma secondo Bensoussan (e con
lui, adesso, la maggioranza degli storici) «la popolazione musulmana
tutt’al più rimase indifferente». In Tunisia (finché fu una colonia) le
autorità francesi fingevano di non vedere le persecuzioni antiebraiche
per evitare di affrontare la maggioranza araba. Lo stesso accadde in
Marocco dopo i pogrom di Oujda e Jérada (giugno 1948): le stesse
autorità francesi raccomandarono a quelle locali «di usare indulgenza»
(nei confronti dei responsabili degli atti antiebraici) al fine di
«evitare ogni esplosione di violenza da parte araba».
E nel
secondo dopoguerra dopo la nascita dello Stato di Israele (1948)? Ad
eccezione dell’Egitto, sostiene lo storico, non ci sono state
praticamente espulsioni di ebrei dal mondo arabo. E la Tunisia è stato
il Paese più tollerante. Qui la Costituzione del 1956 assicurava che gli
ebrei erano cittadini come gli altri e potevano «esercitare qualsiasi
professione». Tuttavia «dovevano sempre aspettare più degli altri le
necessarie autorizzazioni amministrative» e, per così dire, «elargire
più bustarelle». Anche sotto la guida del presidente Bourghiba, gli
ebrei furono a poco a poco estromessi dai posti più importanti («eccetto
che al Ministero dell’Economia dove non c’erano musulmani competenti
per rimpiazzarli»).
Nel 1960 gli ebrei rappresentavano ancora il
14% della popolazione di Tunisi, ma nel Consiglio comunale della
capitale ce n’erano solo due su sessanta membri (il 3%). Poi venne la
«guerra dei Sei giorni» (1967) e per gli israeliti furono dolori.
Scriveva — in una lettera del 7 giugno 1967 a Georges Canguilhem —
Michel Foucault che all’epoca insegnava all’università di Tunisi: «Qui
lunedì scorso c’è stata una giornata (una mezza giornata) di pogrom. È
stato molto più grave di quanto abbia detto “Le Monde”, una cinquantina
buona di incendi. Centocinquanta o duecento negozi — ovviamente i più
miserevoli — saccheggiati, lo spettacolo della sinagoga sventrata, i
tappeti trascinati per strada, calpestati e bruciati, gente che correva
per le strade si è rifugiata in un edificio al quale la folla voleva dar
fuoco. E poi il silenzio, le saracinesche abbassate, nessuno o quasi
nel quartiere, i bambini che giocavano con le suppellettili rotte…
Quanto successo appariva manifestamente organizzato… Se poi a questo si
aggiunge che gli studenti, per “essere di sinistra” hanno dato mano (e
un po’ di più) a tutto questo, si è abbastanza tristi. E ci si domanda
per quale strana astuzia (o stupidità) della storia il marxismo ha
potuto dare occasione (e vocabolario) a tutto ciò».
Al Cairo, nel
1927, dall’oggi al domani, la legge egiziana chiude agli ebrei l’accesso
agli impieghi pubblici. Qui nel 1950 (ben diciassette anni prima di
quel che si sarebbe venuto a creare dopo la guerra dei Sei giorni),
Sayyd Qutb, successore di Hassan el-Banna a capo dei Fratelli musulmani,
pubblicò un manifesto, La nostra battaglia contro gli ebrei, che
conteneva parole inquietanti. «Gli ebrei», si poteva leggere in questo
testo, «hanno ricominciato a fare il male… Allah inviò loro Hitler per
dominarli; poi la nascita di Israele ha fatto provare agli arabi, i
proprietari della terra, il sapore della tristezza e della sofferenza».
In
Siria dopo il 1945 imperversa una violenza antiebraica che spinge la
maggior parte dei 15 mila ebrei del Paese ad andarsene; tutte persone
che sono poi scomparse da ogni «memoria ufficiale». Nei confronti degli
ebrei rimasti si ebbero attentati come la bomba che colpì un’istituzione
ebraica a Damasco nel 1948,e le altre che nel corso dell’estate di
quello stesso anno, uccisero decine di israeliti. Analoghe violenze si
ebbero in Yemen. In Libia rimasero solo cinquemila ebrei su
trentacinquemila e questa minoranza «fu progressivamente spinta a
partire, strangolata socialmente e assoggettata a un clima di paura». A
Tripoli nel 1961 la legge stabilì che a ogni ebreo che intrattenesse
«rapporti ufficiali o professionali» con Israele (vale a dire, per la
maggior parte dei casi, con i loro connazionali trasferitisi nello Stato
ebraico) sarebbero stati confiscati i beni.
Ma perché di tutto
questo si comincia a parlare in modo esplicito soltanto adesso? La
storia degli ebrei del mondo arabo, risponde Bensoussan «è stata a lungo
confiscata». Il più delle volte è stata scritta da degli ebrei di corte
ed è per questo che solo recentemente si è emancipata dalla visione
irenica di un tempo. A lungo il racconto ufficiale illustrava un
universo sereno di un “mondo che abbiamo perduto”, una visione storica
unita a un pensiero consolatore, «tanto grande era il dolore di mettere a
nudo una vita da dominato». Più si scendeva in basso nella scala
sociale e «più la memoria ebraica diventava dolorosa», mentre coloro che
coltivavano una memoria felice, «il più sovente provenivano da ambienti
agiati, dove i contatti con il popolino musulmano erano generalmente
limitati al personale di servizio». Accade così, conclude lo studioso,
che «scrivere la storia degli ebrei dell’Oriente arabo mette a nudo i
rapporti di servitù mascherati da racconti folcloristici». Una
complicazione che ha fin qui impedito di raccontare la vera storia degli
ebrei nel mondo arabo.