martedì 13 novembre 2018

Repubblica 13.11.18
Birmania
Amnesty revoca il premio a Suu Kyi "Tradisce gli ideali"


Amnesty International ha revocato il premio "Ambasciatore della coscienza" ad Aung San Suu Kyi, assegnatole nel 2009. La decisione è stata presa per il «vergognoso tradimento della leader birmana dei valori per i quali una volta si era battuta».
L’associazione ha espresso la sua costernazione per il silenzio di Aung San Suu Kyi sulle violazioni dei diritti umani commesse dal governo birmano, in particolare contro la minoranza musulmana dei Rohingya, e per aver apertamente sostenuto le leggi che limitano la libertà d’espressione nel Paese asiatico.

Il Fatto 13.11.18
“Salvini si può contestare o è uno Stato di polizia?”
Eleonora - Denunciata dopo aver fischiato il leghista: “È questa la sua idea di legalità”
di Tommaso Rodano


La pericolosa sovversiva trascinata in commissariato per aver osato fischiare Matteo Salvini è una signora di 59 anni, dal corpo minuto e con un sorriso sardonico sempre sulle labbra. Si chiama Eleonora. Nel quartiere la conoscono tutti: siamo a Borgo Pio, centro di Roma, all’ombra della cupola di San Pietro. Non proprio terra di frontiera, anche se la polizia scatta come fosse l’ultimo presidio di una zona rossa.
Succede venerdì mattina quando Eleonora – sulla strada di casa, con le buste della spesa in mano – vede arrivare Salvini dall’altro lato del marciapiede, all’entrata dell’Università Lumsa, dove l’aspettano per un convegno. La signora caccia un paio di fischi con le dita in bocca – “alla pecorara, forse non elegantissimi”, dice lei ridendo – e urla verso il ministro: “Buffone, buffone, ridicolo!”. Ricorda Piero Ricca con Berlusconi, al Tribunale di Milano, 15 anni fa. Stesse parole (“Buffone, fatti processare!”) e simile epilogo: arriva la polizia. Ma stavolta l’intervento è violento: Eleonora viene bloccata fisicamente da un agente e circondata da altri tre. Prova a divincolarsi e cade per terra. Viene portata in commissariato, trattenuta un paio d’ore e denunciata (articolo 651 del codice penale) perché in un primo momento si rifiuta di mostrare il documento d’identità.
“È una storia un po’ patetica – dice ora – ma pure inquietante: è possibile che una ‘vecchietta’ venga placcata perché fischia un politico? Io sono una rompipalle (ride) da quarant’anni. Se qualcuno butta una cartaccia per terra lo inseguo e gliela restituisco. Se passa un uomo di potere che non mi piace lo contesto, come quando è venuto Bush a Roma. Ma non era mai successo niente di simile, nessuno ha mai alzato un dito”.
Eleonora vive a Borgo Pio con la vecchia cagnolina di 15 anni, in un appartamento pieno di libri. Identikit da “compagna rosicona”, direbbe il leghista. “Non faccio fatica ad ammettere che sono di sinistra da sempre – sorride– ma una sinistra che nei partiti non esiste più. Il punto è un altro: Salvini è popolare, piace a tanti italiani, ma spero sia ancora legittimo contestarlo. L’altro giorno, prima della manifestazione contro di lui a Roma, la polizia ha fermato i pullman per un controllo preventivo degli striscioni. Non è normale. C’è un clima strano, brutto. Le forze dell’ordine pare si sentano legittimate a fare qualsiasi cosa”. Eleonora – in queste ore inseguita da giornalisti e videomaker – sfrutta l’improvvisa celebrità per lanciare una provocazione al ministro: “Perché invece di fare il gradasso con chi manifesta e riempirsi la bocca con la parola ‘legalità’ non combatte i criminali veri? Invece di far zittire chi lo fischia, magari potrebbe occuparsi concretamente degli Spada, dei Casamonica, delle mafie che occupano interi quartieri e zone della città”.

Il Fatto 13.11.18
Giornalisti puttane, boomerang 5Stelle che serve solo alla Lega
di Antonio Padellaro


Detto che sul conto della sindaca di Roma, Virginia Raggi, giornali e giornalisti hanno scritto qualsiasi mascalzonata (nel silenzio pressoché totale di quanti ogni giorno impartiscono lezioni di etica, deontologia e bon ton un tanto al chilo), ci sono molte ragioni per considerare oltre tutto scriteriata l’insultante campagna dei Cinquestelle contro i “pennivendoli puttane” (copyright Di Maio-Di Battista).
Perché nel giorno in cui la suddetta Raggi esce assolta dal lungo calvario giudiziario, ecco che un minuto dopo la sentenza si pensa bene di spostare il faro sull’informazione brutta, sporca e cattiva. Con il risultato che nessuno parla più del sindaco innocente mentre tutti stanno a guardare la rissa tra chi offende e chi si offende. Due ipotesi al riguardo. La sindaca viene comunque considerata un problema per il Movimento, e dunque meno se ne parla meglio è. Oppure, quando si tratta dei focosi Di Maio e Di Battista la parola precede il pensiero (era già accaduto con l’impeachment di Mattarella, chiesto in diretta tv e ritirato il giorno dopo).
Perché l’attacco alla stampa meretrice da parte del M5S mostra evidenti analogie con la furia di Donald Trump che sbatte fuori dalla Casa Bianca i reporter sgraditi. La ricerca di un “nemico” è il cuore della narrazione populista. Ma prendersela con i giornali quando si perde la Camera dei rappresentanti, o quando i sondaggi vanno giù, non è un segno di forza ma mostra una palese difficoltà. Sul serio si pensa di ricompattare la propria gente, un po’ disorientata dalla vicenda Tap o dallo strapotere di Salvini, gridando puttana a qualcuno?
Perché, invece, Salvini con i giornalisti (e con gli editori) cerca di non attaccare briga. Anzi, manda bacioni a chi gli da del razzista, e mostra di non offendersi se lo sfottono sul come mai la Isoardi lo ha mollato. Sarà anche vero che “il gioco della stampa ora è esaltare la Lega e far vedere i M5S come degli appestati” (Di Maio). Ma la sostanza non cambia: di ciò che scrivono i giornali il Capitano semplicemente se ne frega. Come tutti gli apprendisti autocrati, lui parla direttamente con il popolo-pubblico, attraverso Facebook o Instagram. Una narrazione che non ha bisogno di intermediazioni, o di penne più o meno compiacenti. Tv e cronisti gli servono unicamente come testimoni dei bagni di folla, in un gioco di specchi che alimenta il consenso.
Perché è per lo meno bizzarro che mentre la carta stampata non se la passa affatto bene, tra cali di copie e crisi aziendali, siano proprio i vertici dei Cinquestelle a rianimarla con ingiurie e spintoni. È del tutto naturale, per esempio, che Repubblica chiami a raccolta il proprio lettorato, come avamposto della libertà di stampa sotto assedio. Senza contare che bollare come pennivendoli e puttane un’intera categoria (metodo tre palle un soldo) crea riprovazione e solidarietà anche da parte di chi non ama particolarmente i giornalisti (metodo martirologio).
Fa parecchio ridere che a strillare contro il governo gialloverde, “anticamera della dittatura”, sia Silvio Berlusconi. Anche se la dice lunga sul fuoco di sbarramento del centrodestra nel caso Di Maio e company procedessero con l’annunciata legge sul conflitto d’interessi. Quella per mettere fuori gioco gli editori “impuri” che detengono i giornali per farsi gli affari propri. Cari Cinquestelle, se davvero pensate che Salvini sarà lì a darvi una mano per tagliare il ramo su cui sta comodamente seduto, non avete capito niente.

Il Fatto 13.11.18
A Torino Forza Italia sulla cresta dell’onda, Confindustria spiana la strada a Crosetto
Il Partito degli Affari - Il mondo padronale dietro le proteste e i prossimi interessi elettorali
di Massimo Novelli


Nel luglio del 1998, quasi 18 anni dopo la marcia dei 40 mila della Fiat, Carlo Callieri, già capo del personale di Mirafiori e dirigente di Confindustria, raccontò di esserne stato l’inventore. Oggi, da pensionato, si limita a guardare con favore l’onda Sì Tav, anche se qualcuno lo indica tra i presunti promotori.
Il lupo, cioè il padrone, in ogni caso, perde il proverbiale pelo ma non il vizio. Dietro alle “madamine” accreditate come le ideatrici del corteo torinese di sabato, e oltre i cittadini e le cittadine della piccola e media borghesia, si muovono con altro peso l’apparato confindustriale e le associazioni dei costruttori, a livello nazionale e locale. Tanto che negli ambienti dell’Unione Industriale di Torino, in buona sostanza, si dice che la protesta dell’altro giorno è solo un assaggio, visto che tra poco schiereranno le loro truppe. Saranno precedute da Forza Italia. Per il 17 novembre ha indetto una manifestazione pro Tav davanti al Comune di Torino. Ritenendo, non a torto, che la mobilitazione per la ferrovia Torino-Lione di sabato 10 novembre abbia avuto una forte connotazione di centrodestra, Silvio Berlusconi e soci vogliono cominciare la campagna elettorale per le regionali del 2019. Potrebbero assemblare parte dei Sì Tav attorno alla candidatura di Guido Crosetto, imprenditore e deputato di Fratelli d’Italia, o di Marco Boglione, titolare del gruppo BasicNet (Robe di Kappa).
La contiguità sociale e ideologica tra molti torinesi in piazza per il Tav e il mondo padronale, d’altronde, è evidente. Intanto per la presenza tra gli organizzatori della protesta di Mino Giachino, ex sottosegretario ai Trasporti nell’ultimo governo Berlusconi, con interessi in una azienda genovese di servizi marittimi. Lobbista irriducibile delle infrastrutture, Giachino, ex democristiano, ha addirittura festeggiato il primo maggio accompagnando alcuni ragazzi dell’associazione “Sì Lavoro”, da lui fondata, con una visita al cantiere Tav di Chiomonte. Tra le stesse “madamine” per il Tav, poi, non mancano i legami con il mondo delle imprese. Giovanna Giordano Peretti è attiva nel Rotary Torino Est, e scrive di frequente letterine di moralismo civico alla rubrica “Specchio dei Tempi” de La Stampa, storica voce della Fiat-Fca. Patrizia Ghiazza, invece, è partner della Eurosearch Consultants, società di cosiddetti cacciatori di teste creata nel 1969 dall’ex senatore del Pri, il Partito Repubblicano Italiano, e consulente aziendale Roberto Giunta. Nel febbraio del 1994, Giunta, fedelissimo di Giorgio La Malfa, patteggiò una pena a otto mesi di reclusione e restituì 50 milioni di lire per una bustarella ricevuta nell’ambito delle gare d’appalto per l’Aem, l’azienda energetica municipale.
Per dirla con il Lorenzo Da Ponte (e Mozart), insomma, “Madamina: il catalogo è questo”. Intanto Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, ha annunciato “che proprio a Torino convocherà un consiglio generale straordinario allargato alla partecipazione dei presidenti di tutte le associazioni d’Italia, per protestare contro “il blocco degli investimenti”. I capi e capetti delle associazioni territoriali stanno preparando un raduno nazionale per l’alta velocità Torino-Lione. Vorrebbe essere una sorta di “summit sulle infrastrutture” che dovrebbe esibire i consigli nazionali delle associazioni di categoria, dagli industriali agli artigiani, dagli agricoltori ai commercianti, alle cooperative e ai professionisti. La data ipotizzata è sabato 24 novembre. Teatro: le ex Ogr, le Officine grandi riparazioni ferroviarie (naturalmente).

Il Fatto 13.11.18
Marco Revelli
“In piazza una città perduta e tradita dagli imprenditori”
di Stefano Caselli


“Fatico a dare una definizione alla manifestazione di sabato scorso. Forse la più adatta è ‘la piazza della città perduta’”. Parola di Marco Revelli, sociologo ma soprattutto torinese.
Professor Revelli, addirittura “perduta”?
Temo di sì. Contrariamente al racconto che ne hanno fatto i principali quotidiani, la manifestazione di piazza Castello – al netto della buona fede di molti che hanno partecipato – è stata sostanzialmente lo specchio di una città smarrita, spesso inconsapevole delle proprie ragioni, talvolta anche poco informata e impaurita. Ho paura che molti abbiano manifestato più per le ragioni degli altri che per le proprie.
Ossia?
Sto parlando del cosiddetto ‘Sistema Torino’: pezzi di industria orfani della Fiat ma subalterni alla Fiat, clientele politiche, costruttori, avvocati, architetti e notai, categorie che vivono di opere decise dalla politica. In pratica il sistema di potere che ha governato la città dai primi Anni Novanta fino al 2016, una classe dirigente che ha sì tamponato una crisi, ma non ha creato una vera idea di sviluppo. Mi dispiace, ma vedere il futuro in quella piazza presuppone l’aver assunto una buona dose di sostanze dopanti…
Non le pare un po’ ingeneroso? Molti torinesi erano in piazza per conto loro, preoccupati da una sensazione di declino abbastanza diffusa…
Il declino c’è, ma un’imprenditoria che si affida al Tav e che non cerca nuova identità e nuove forze ma pensa che il ristagno della città sia dovuto alla mancanza di quella linea ferroviaria è perduta. Torino ristagna a causa dell’immobilismo delle sue classi dirigenti, il problema non è politico, è di classe economica. L’imprenditore weberiano è un individuo razionale, non adora un totem. Il Tav poteva avere un senso 30 anni fa, quando la Fiat sfornava milioni di veicoli, ma adesso è un’idea scaduta. Oggi escono piccoli rivoli di Maserati. E che si faccia o no la Torino-Lione, se non ci si inventa qualcosa di nuovo non si esce dal buco. Vivere chiedendo Tav e Olimpiadi è un atteggiamento da questuanti, non da imprenditori.
In piazza c’erano anche molti elettori di centrosinistra…
Non lo nego, ma la sostanza cambia poco. È giusto ascoltare un giovane (anche se la piazza, va detto, era molto agée) dire ‘voglio un futuro’, ma non c’è una sola ragione per cui il Tav possa garantirglielo, quel futuro. Non voglio dire che molti fossero telecomandati. Un po’ disinformati sì, però.
È stata anche una manifestazione contro l’amministrazione cittadina, il Tav non era l’unico tema…
Certo, parte del successo di questa manifestazione non riguarda il Tav, ma l’incapacità della giunta Appendino di mantenere le promesse. Bisogna dirlo: la gestione della città è desolante.
C’è chi ha parlato di “spallata”. Chi ne raccoglierà politicamente i frutti?
Nelle intenzioni l’asse Pd-Forza Italia, l’affinità elettiva che ora circola nel ceto politico sabaudo. Ma non dimentichiamo che in piazza si è aggiunta la Lega, facendo un’operazione puramente politica per destabilizzare i 5 stelle. L’utilizzatore finale rischia di essere Salvini. Mi pare che tutti stiano lavorando per lui, ahimé, anche chi ha manifestato contro il populismo. Il sistema politico, si sa, ha maggior simpatia per la Lega che per i 5 stelle. La xenofobia di Salvini da meno fastidio dei pasticcioni apprendisti stregoni, che a volte sono ben al di sotto del livello accettabile della qualità politica. Ma è anche vero che i 5 stelle sono meno metabolizzabili dai cosiddetti poteri forti, quelli che parlano attraverso i giornali. Il rischio, insomma, è che all’incasso di una piazza che gridava “Europa” passino quelli che vogliono chiudere i confini.
In questi giorni molti hanno fatto parallelismi con la marcia dei 40 mila del 1980. Concorda?
Eviterei paragoni azzardati, i promotori di quella manifestazione, tutti quadri Fiat, furono poi licenziati nel 1990. E il declino della Fiat è iniziato allora, non è cominciato il futuro.

Il Fatto 13.11.18
Prescrizione: il suicidio di Pd e Leu
di Lucrezia Ricchiuti


Signor direttore, il 19 novembre 2014 la Corte di cassazione ha dichiarato prescritto il reato dei dirigenti Eternit per l’amianto.
Pochi anni dopo, la stessa Corte ha dichiarato prescritto Silvio Berlusconi nel processo per aver corrotto il senatore De Gregorio, che aveva causato la caduta del governo Prodi. Rischia di essere prescritto il reato relativo alla strage della stazione di Viareggio.
Gli esempi potrebbero continuare per un elenco assai lungo, se è vero come è vero che il primo presidente della Corte di cassazione Mammone – all’inizio del 2018 – ha affermato che nel 2017 sono andati al macero per prescrizione ben 127 mila processi (sì – signor direttore – ha letto bene: 127 mila!!). Si tratta di una cifra più o meno costante negli anni successivi alla legge Cirielli del 2005 che ha introdotto la cosiddetta prescrizione breve. Uno spreco di risorse umane e finanziarie micidiale. Contro quella legge, il centrosinistra in Parlamento lottò strenuamente e giustamente. “Voi riducete la prescrizione per reati diversi da quelli commessi dal povero indigente, il quale, a causa dell’indigenza, si è fatto mariuolo. Voi riducete la prescrizione per i reati previsti dall’articolo 416-bis, un articolo che si applica all’associazione per reato criminale, in particolare l’associazione mafiosa. Voi riducete la prescrizione per l’usura, che, come sapete, è un reato tipico di criminalità organizzata. Voi riducete la prescrizione per l’incendio doloso, che è un altro reato posto in essere dalla criminalità organizzata per chi non paga il ‘pizzo’. Voi riducete la prescrizione per la corruzione e per la corruzione in atti giudiziari. Vi sottolineo la gravità del fatto che il Parlamento consideri un reato di minore rilievo corrompere un magistrato e intaccare la fiducia dei cittadini nell’imparzialità di un potere dello Stato. Voi riducete la prescrizione per reati che sono di particolare gravità e che non riguardano una delinquenza minorile che sbaglia una prima volta, verso la quale bisogna avere un atteggiamento di recupero e di reinserimento. Riducete la prescrizione per reati che vengono commessi dalla criminalità organizzata, che inducono un allarme sociale gravissimo e che producono una lacerazione del tessuto sociale del paese. Per di più, voi infliggete un vulnus drammatico alla fiducia che i cittadini devono avere nella giustizia”.
Questo, signor direttore, era Piero Fassino, alla Camera dei deputati, il 16 dicembre 2004. Oggi invece il Pd dimentica le vittime dei reati, si scorda della caduta del governo Prodi nel 2008 per gravissimo atto di compravendita del voto caduto in prescrizione e si schiera con Forza Italia e Lega di Salvini contro il disegno di legge Bonafede, che farebbe tornare la prescrizione a un istituto ragionevole e fisiologico, com’era prima del 2005.
Che cos’è cambiato? Non lo so. So solo che l’argomento per cui la legge Cirielli rimedia al problema dei processi troppo lunghi è una bufala. Anzi, è proprio la legge del 2005 che sollecita gli avvocati a tirarla per le lunghe per poter guadagnare tempo e maturare la prescrizione per i loro clienti (cosa che non farebbero se la prescrizione fosse un traguardo più lontano). E poi contro la lunghezza dei processi abbiamo già diversi strumenti, a partire dalla legge Pinto del 2001, che indennizza le parti incolpevoli nei processi che durano troppo.
So solo che l’argomento per cui la prescrizione non c’entra con la corruzione è una bufala, poiché i corrotti sono d’accordo tra loro e non si denunciano a vicenda: serve tempo per scoprirli. E so anche un’altra cosa: votando contro una legge sacrosanta (l’unica che il Movimento 5 Stelle ha finora proposto) il Pd e LeU si suicidano definitivamente.

Il Fatto 13.11.18
Quel che resta di Renzi fa più danni della grandine
di Andrea Scanzi


Ormai il suo ruolo è chiaro: salvare il Salvimaio. Agli albori della sua parabola, quando larga parte dei media lo fraintese (non di rado in malafede) per fenomeno, Matteo Renzi disse di essere più grillino di Grillo. A suo modo era vero: ascoltando e guardando Renzi viene sempre da pensare che tutto, in confronto, sia migliore. Ma proprio tutto. Anche un simposio con Orfini in una discarica bombardata da Assad.
È per questo che, negli ultimi giorni, quel che resta di Renzi è tornato a parlare: perché sente che il Salvimaio può schiantarsi. Così lui, fraternamente, lo aiuta. Come? Aprendo bocca a caso, vestito come un nobile decaduto – nonché daltonico – e ormai più appesantito di Jardel quando transitò ad Ancona. Provate schifo per il dl Pillon? Fate bene. Manifestate per il dl Sicurezza? Ci sta. Credete che Mimmo Lucano sia Gandhi? Liberi di farlo. Ma è proprio qui, quando vi sentite così indignati da votare chiunque – persino il Pd – tranne M5s e Lega, che arriva lui. La Diversamente Lince di Rignano. La versione al lampredotto di Tony Blair. L’uomo che, giovedì scorso, ha ammazzato il nuovo corso di Rete4 affossando il povero Gerry Greco con uno stitico 2,5% in prima serata. Renzi distrugge tutto quel che tocca, come un Re Mida che comincia sempre con la “M”, solo che forse la parola è di cinque lettere. Con quel bell’eloquio in grado di elettrizzare le masse come una mietibatti in folle nella piana di Tegoleto, Renzi ci ha parlato ancora. Lo ha fatto dall’avamposto di Salsomaggiore, dove c’era una convention chiamata “Italia 2030”, anno in cui si spera che Renzi sia tornato a fare quel che meglio sa fare: cioè niente. Egli ha lanciato parole dure: “Mi rivolgo qui a una persona squallida che si chiama Rocco Casalino, che ha rilasciato una intervista in cui diceva che mi dovrei vergognare perché ho strumentalizzato mia nipote. Dico a Casalino, superpagato con un superstipendio da parte dei cittadini italiani: io mi vergogno di te e di quel presidente del Consiglio che ti tiene in quel posto”. Poco conta che Renzi facesse riferimento a parole dette da Casalino all’interno di una finzione per provocare, come ha rivelato l’organizzatore del lontano evento (2004) Enrico Fedocci: a Renzi, la verità, non è mai interessata. E almeno in questo è coerente. Stentoreo anche l’attacco a Grillo: “Davide Faraone ha avuto una reazione ancora più bella della mia su sua figlia, Sara, dopo le parole squallide di Beppe Grillo sulle persone che soffrono dei disturbi dello spettro autistico. Dovete vergognarvi”. Detto che prendere Faraone a esempio è un po’ come ispirarsi a Gianni Togni per emulare i Led Zeppelin, Grillo avrebbe alluso all’autismo all’interno di un palese paradosso satirico.
Ma siam sempre lì: chi se ne frega della verità. L’importante è buttarla in vacca, soprattutto quando sei alla canna del gas. Da qui il mitologico finale dell’arringa renziana: “E su questo io mi faccio incatenare in Parlamento. Per 4 anni e mezzo chiederò le vostre dimissioni, squallidi. Potete buttare in politica tutto quello che volete, ma giù le mani da mia nipote, da Sara, da Giovanni, dai nostri bambini”. Tralasciando la miseria umana dello scomodare bambini (che nessuno ha mai attaccato) per fare “politica”, suona leggendaria la “minaccia” di incatenarsi. Ormai Renzi è un pugile suonato che neanche ricorda più d’esser stato pugile. Fa quasi tenerezza. Matteo, dai retta: se lo fai, rendi contenti tutti. Pd e oppositori. Insomma: gli italiani tutti. Quindi, una volta tanto, sii di parola: incatenati sul serio. E smetti di fare più danni della grandine.

Repubblica 13.11.18
Il caso
Scoppia la bagarre sul tesoretto dem "Quei soldi servono per gli ex dipendenti"
Il caso dopo la convention renziana a Salsomaggiore In ballo tre milioni rimasti nella cassa del gruppo al Senato. Zanda: "Ogni euro da ora va rendicontato"
di Goffredo De Marchis


Roma Tre milioni di tesoretto è l’abbondanza che non ti aspetti per un Pd in crisi di consensi e di finanze. Sono capitati in eredità al gruppo del Senato, lo stesso dove siedono Matteo Renzi e il tesoriere renziano Francesco Bonifazi, dove il capogruppo è il fedelissimo Andrea Marcucci e l’amministratore un altro renziano, Stefano Collina. Un colpo di fortuna che sarà usato come?
Il giallo è scoppiato alla riunione di corrente a Salsomaggiore dello scorso week end. Compaiono due roll ( termine tecnico per i manifesti verticali) che presentano l’iniziativa come una manifestazione dei "senatori del Pd". Così vengono spesi i soldi? Alessandro Giovannelli, direttore generale del gruppo Pd di Palazzo Madama, ex collaboratore di Luca Lotti, spiega: « Abbiamo sbagliato, è stato un errore della tipografia. Li abbiamo tolti subito. Colpa nostra » . Per coprire una parte delle spese sono stati invece usati i 2000 euro che singolarmente i senatori hanno a disposizione per iniziative sul territorio. « Non si possono utilizzare per sostenere mozioni congressuali — spiega ancora Giovannelli — ma una discussione politica sì».
Nel partito sono scattati i sospetti, come è scontato tanto più in vista delle primarie. Il lascito è opera di Luigi Zanda, ex presidente dei senatori nella scorsa legislatura. Ha risparmiato, ha messo da parte e nell’ultima assemblea prima dello scioglimento ha messo a verbale: « Questi soldi verranno usati per salvare il lavoro dei dipendenti » . Tutti d’accordo. È andata diversamente. Il Pd ha preso una batosta storica passando da 103 senatori a 52. È diventato difficile giustificare una struttura di 55 persone. Sono diventate 39 e mezzo milione è già stato usato per liquidare quelli mandati a casa. Ma le situazioni critiche restano, eccome. Per quello ora molti vogliono vederci chiaro nelle scelte del gruppo a trazione renziana.
Dopo l’episodio di Salsomaggiore Zanda lo dice chiaro: «Alla prossima assemblea chiederò che ogni spesa, al centesimo, sia comunicata preventivamente agli organismi collettivi. Ci vuole la trasparenza massima». Giovannelli risponde: « Il tesoretto non è nemmeno al nostro bilancio perché appartiene al precedente esercizio. Ne parleremo quando vedremo i soldi». Eppure qualche passo è stato già fatto. Un contratto di consulenza a Sandro Gozi, ex parlamentare, macronista renziano che sogna una lista europeista fuori dal Pd. Lo pagano insieme Camera e Senato e pare sia molto corposo. «Abbiamo già deputati e senatori competenti sull’Europa, ma per le sue relazioni istituzionali Gozi è prezioso » , dice Giovannelli. Presto verrà stipulata un’altra consulenza con una società di comunicazione esterna. « Tanti ci hanno chiesto di essere aiutati sui social » , sottolinea il direttore del gruppo. E comunque tesoretto a parte, tutti i dipendenti hanno fatto sacrifici economici per continuare a lavorare.
I tre milioni, quando non saranno necessari a mantenere la struttura, andranno all’attività politica. Garantendo tutti e il presidente Marcucci è il garante delle varie sensibilità. Ma il congresso e le voci sempre smentite di una scissione renziana rischiano di complicare il clima intorno a quei soldi.

Repubblica 13.11.18
Atac in agonia ma non incassa 320 milioni
La lista dei debitori insolventi va da Palazzo Chigi allo stesso Comune E i creditori affilano i coltelli
di Daniele Autieri


Lasciato alle spalle lo spauracchio del referendum, Atac guarda al 19 dicembre quando i creditori saranno chiamati a votare il piano industriale, accettando le tempistiche previste per la restituzione del loro credito e dando così il via libera definitivo al concordato preventivo.
Ma la solvibilità dell’azienda rispetto alle promesse scritte nel piano dipende anche dalla capacità dei suoi manager di esercitare una pressione su un drappello silenzioso di soggetti sempre più convinti che la procedura fallimentare possa in qualche modo metterli al riparo dai loro obblighi. Sono i debitori di Atac: aziende, enti, istituzioni che devono soldi alla municipalizzata romana e che, con i loro ritardi e le loro omissioni, hanno recitato una parte importante nella crisi industriale e finanziaria del gruppo.
In tutto si parla di 320 milioni di euro che la società del trasporto pubblico dovrebbe incassare a vario titolo e che finora non si sono visti. La voce più consistente riguarda naturalmente il Comune di Roma che, nonostante una svalutazione dei suoi debiti verso Atac di 223 milioni di euro, è ancora indietro di 87 milioni. Il piano industriale allegato alle carte del concordato prevede che 68 milioni vengano restituiti dalla gestione ordinaria del Campidoglio entro il 2019 e i restanti 19 milioni da quella Commissariale non prima del settembre 2020. Nelle more del debito capitolino c’è di tutto, perfino 147mila euro che il Comune deve ad Atac dai tempi del Giubileo del 2015. Ma neanche questo esaurisce la conta degli arretrati che l’azienda non è mai riuscita a recuperare. Tra i debitori figura infatti anche la presidenza del Consiglio dei ministri che deve all’Atac 13,4 milioni di euro dai tempi del Giubileo del 2000, quando la municipalizzata intensificò il servizio per rispondere alle esigenze della incandescente mobilità cittadina. Denari che la società non vedrà mai e che, non a caso, sono stati svalutati quasi interamente. Oltre alla presidenza del Consiglio dei ministri, anche il ministero del Lavoro dovrebbe mettere le mani al portafoglio. Dal 2012 lo Stato accumula debiti nei confronti di Atac a causa del mancato rimborso dell’indennità di malattia: in tutto 35 milioni di euro, che vengono fuori dopo sette anni di mancati pagamenti.
In molti casi le amministrazioni non hanno pagato; in tanti altri l’azienda non ha saputo far valere il suo diritto; molte volte invece la prassi della compensazione debiti/crediti ha contribuito a confondere le carte.
Questo è accaduto nel rapporto con la Regione Lazio che, pur vantando diversi crediti verso Atac, ha accumulato un debito di 46 milioni di euro, 17 dei quali sono interessi maturati per i ritardi legati al pagamento del contratto di servizio.
La partita è aperta, e neanche il corposo rapporto compilato dai commissari giudiziali del tribunale fallimentare di Roma sembra aver trovato soluzioni convincenti. È certo che in molti, consapevoli della debolezza di Atac, hanno tergiversato rimandando a data da destinarsi il saldo dei loro debiti. Lo hanno fatto perfino tante "cugine" del gruppo Roma Capitale: Roma servizi per la mobilità, che deve alla municipalizzata 6,4 milioni di euro; Roma metropolitane (1,1 milioni); Zetema (711mila euro); Fondazione Musica per Roma (376mila euro) e insieme ad esse molte altre aziende, fino ad arrivare al Bioparco che — secondo la ricostruzione dei commissari — non ha mai saldato un vecchio debito di 2mila euro.
Pochi soldi che, sommati al resto, compongono la torta dei 320 milioni, una boccata d’ossigeno per Atac che — giunta a un passo dal fallimento — sembra aver rinunciato a tutto. Perfino al dovuto.

La Stampa 13.11.18
Il presidente della Romania:
“Non siamo pronti a guidare l’Ue”
di Emanuele Bonini


Europa, indietro tutta. La Romania non è pronta a guidare i lavori del Consiglio Ue dal prossimo primo gennaio, come invece dovrebbe e come tutti di conseguenza si aspetterebbero.
Il presidente della repubblica, Klaus Iohannis, gela così in un colpo solo sia compatrioti sia partner: l’esecutivo non è all’altezza, e assumere le redini dell’agenda a dodici stelle in queste condizioni non è sostenibile. «Ritengo che non siamo pronti, e che vada posto rimedio a questo incidente, il governo Dragnea-Dancila». La crisi politica a Bucarest minaccia contagi nelle altre capitali, a cominciare da quella dell’Ue.
In Consiglio, il consesso europeo rappresentativo degli Stati membri dell’Unione Europea, ogni Paese per sei mesi ha la presidenza di turno. Il semestre gennaio-giugno 2019 è quello romeno da calendario comunitario, stilato, va detto, con larghissimo anticipo, tanto è vero che sono già fissate le presidenze di turno fino al 2030. Bucarest non poteva non sapere, ma a incidere sono le vicende interne. Victor Negrescu si è dimesso da ministro per gli Affari europei due giorni fa, lasciando il Paese senza responsabile per la preparazione del semestre. Che, a giudicare dalle parole di Iohannis ,non si farà.
La bocciatura
«La presidenza del Consiglio dell’Ue è una posizione estremamente onorevole, una posizione molto impegnativa, soprattutto per il governo. La mia opinione è che non siamo pronti per questo». Da Iohannis, (Pnl, affiliato al Ppe), giunge una bocciatura dell’esecutivo rosso-azzurro di socialisti e liberali (Pse e Alde) e l’invito a nuove elezioni. Una via che penalizzerebbe ancora di più il Paese, per i tempi di stop che il processo democratico imporrebbe ai preparativi di una presidenza di turno Ue mai così travagliata.
Bucarest rischia una brutta figura mai vista in Europa, e probabilmente l’ha già maturata. Non più tardi di due settimane fa il commissario per la Giustizia, Vera Jourova, confidava alla stampa estera di attendersi dai romeni «una presidenza senza intoppi, senza risentimenti delle problematiche interne».
Così non è, a quanto pare. E oggi a Strasburgo l’Aula del Parlamento discute la relazione sulla violazione dello stato di diritto in Romania. I principali gruppi (Ppe, S&D, Alde e Verdi) la sostengono, e la censura politica «made in Ue» è annunciata. Non certo il massimo per i prossimi presidenti di turno che verranno. Forse.

Il Fatto 13.11.18
Altro che Hillary, è l’ora della candidata afro
Kamala Harris - Casa Bianca, la senatrice democratica potrebbe correre nel 2020 contro Trump
di Giampiero Gramaglia


Anche negli Stati Uniti, il Partito democratico ha qualche difficoltà a liberarsi del suo passato, che ha il volto di Hillary Clinton, candidata alla Casa Bianca battuta da Donald Trump nel 2016, e a guardare al suo futuro, che avrà probabilmente il volto di un’altra donna, magari Kamala Harris, senatrice della California. Gli aspiranti alla nomination 2020 sono almeno una dozzina, soprattutto donne.
Kamala Devi Harris, 54 anni, giurista di formazione e sposata con un avvocato, madre indiana d’origine e padre giamaicano d’origine, ha il mix dell’America delle diversità che ha conquistato molti seggi nelle elezioni di midterm. Ma ha pure l’esperienza e la concretezza che a molte donne della onda rosa democratica ancora mancano.
Lei, che è di Oakland, appena a nord di San Francisco, rappresenta al Senato la California, insieme con Dianne Feinstein, 85 anni. Se scenderà in lizza per la nomination dovrà vedersela con rivali più liberal, come la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, più anziana di lei di 15 anni, o più vicine all’establishment, come sarebbe Hillary, senza contare le improbabili a vario titolo, ma amatissime, Oprah Winfrey e Michelle Obama. Dell’ex first lady di Barack Obama è un fan sfegatato Michael Moore: secondo il regista, solo lei può impedire che Donald Trump sia rieletto.
In corsa potrebbe esserci di nuovo la Clinton, molto più liberal e vicina alla sinistra, cavalcherà il movimento #metoo e si batterà per una stretta sulle armi.
Harris non ha la storia di Hillary, ma questa appare più una chance che un handicap. Ha studiato in buone università, prima di intraprendere una carriera in magistratura fino a essere eletta nel 2003 procuratore distrettuale di San Francisco e nel 2010 procuratore generale della California: è stata la prima donna, ma anche la prima afro e asio-americana in quel ruolo. Nel 2016 si candida al Senato per succedere a Barbara Boxer, che si ritirava dopo quattro mandati, 24 anni. In giugno, è la più votata nelle jungle primaries della California, cui partecipano candidati di tutti i partiti e che fanno accedere alle elezioni i due più votati. L’8 novembre batte, con il 62,5% dei suffragi, Loretta Sanchez – sono le prime elezioni senatoriali della storia della California senza candidati repubblicani –. Quest’autunno, l’America ha cominciato a conoscerla: come senatrice della Commissione Giustizia, è stata una delle più determinate antagoniste della conferma del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema: una battaglia persa, ma che le è valsa la lettera bomba recapitatale a ottobre.

Corriere 13.11.18
L’anticipazione. L’autobiografia di Michelle
Esce oggi in tutto il mondo, in Italia per Garzanti
«Barack si accese una sigaretta e pensai: sarà solo il mio stagista»
«Ciò che mi colpì fu la sua sicurezza riguardo alla direzione che
avrebbe preso la sua vita. Era stranamente privo di dubbi»
di Michelle Obama


L’incontro con Obama nello studio legale, i racconti, le risate Ma la futura first lady era sicura: non ci sarebbe mai uscita
I l primo giorno di lavoro Barack Obama è arrivato in ritardo. Io ero seduta nel mio ufficio al quarantaseiesimo piano, e un po’ lo aspettavo e un po’ no. Come molti avvocati al primo anno in uno studio, avevo un sacco di lavoro da sbrigare. Facevo gli straordinari e spesso consumavo sia il pranzo sia la cena seduta alla scrivania mentre combattevo con un flusso continuo di documenti, tutti scritti nella lingua precisa e forbita dei legali. Leggevo promemoria, scrivevo promemoria, rivedevo i promemoria di altre persone (...).
Guardai l’orologio. «Nessun segno di questo tizio?» gridai a Lorraine. Sentii un sospiro. «No, bambina», mi rispose. Era divertita, ci potevo scommettere. Sapeva che i ritardi mi facevano infuriare: li consideravo un inequivocabile segno di arroganza. Barack Obama aveva già creato scompiglio nello studio. Per prima cosa, aveva appena terminato il primo anno di Legge e noi, di norma, per gli stage estivi accettavamo solo studenti del secondo anno. Ma si diceva che fosse eccezionale. Si era sparsa la voce che secondo uno dei suoi professori di Harvard — la figlia di un socio dello studio — fosse lo studente di Legge più dotato che avesse mai conosciuto. Alcune segretarie che lo avevano visto arrivare in studio per il colloquio dicevano che, oltre a essere brillante, era anche carino.
Io ero molto scettica su tutto. Per mia esperienza, basta mettere un completo a un nero di intelligenza media, e i bianchi vanno fuori di testa. Avevo i miei dubbi che valesse tutto quello strombazzamento. Avevo controllato la sua foto nell’edizione estiva del nostro annuario — il ritratto non certo lusinghiero, male illuminato, di un tizio con un grande sorriso e un’ombra di goffaggine — e non mi aveva impressionato. La sua biografia diceva che era originario delle Hawaii, il che, almeno, lo rendeva un imbranato piuttosto esotico. Per il resto, nessun particolare di spicco. L’unica sorpresa era arrivata alcune settimane prima, quando gli avevo fatto la rapida telefonata di prassi per presentarmi. La voce all’altro capo del filo mi aveva fatto piacevolmente trasalire: ricca, baritonale, persino sexy. Non sembrava corrispondere per niente alla sua foto. (...). Lo trovai seduto su un divano, questo Barack Obama in completo scuro e ancora un po’ umido per la pioggia. Sorrise impacciato e si scusò del ritardo mentre mi stringeva la mano. Aveva un sorriso ampio ed era più alto e più magro di quanto avessi immaginato: non doveva essere un mangione, e aveva anche l’aria di non essere abituato a indossare abiti formali. Se sapeva di arrivare con la reputazione del fenomeno, non lo dava a vedere. Mentre lo guidavo lungo i corridoi verso il mio ufficio e intanto lo introducevo alla routine di un grande studio legale — mostrandogli la segreteria e la macchina del caffè, spiegandogli il nostro sistema per tenere il conto delle ore fatturabili — fu silenzioso e deferente. (...)
Più tardi, portai Barack a pranzo nell’elegante ristorante al primo piano del grattacielo in cui si trovava il nostro studio, un posto che trasudava potere, zeppo di banchieri e avvocati disposti a pagare un rapido pranzo quanto una cena. Questo era il vantaggio di avere uno stagista estivo a cui fare da tutor: era una scusa per mangiare fuori, e bene, a spese dello studio. Come tutor, il mio ruolo nei confronti di Barack aveva soprattutto una valenza sociale. Il mio compito era di assicurarmi che fosse felice del suo lavoro, avesse qualcuno a cui rivolgersi nel caso avesse avuto bisogno di consigli e che si sentisse parte della squadra. Era l’inizio di una lunga operazione di corteggiamento, basata sull’ipotesi — che valeva per tutti gli stagisti estivi — che lo studio volesse assumerlo a tempo pieno dopo il conseguimento della laurea in Legge.
Mi resi conto molto in fretta che a Barack di consigli ne sarebbero serviti pochi. Aveva tre anni più di me, visto che stava per compierne ventotto. Diversamente da me, aveva lavorato per alcuni anni dopo aver finito il primo ciclo di studi universitari alla Columbia, prima di entrare alla Law School. Ciò che mi colpì fu la sua sicurezza riguardo alla direzione che avrebbe preso la sua vita. Era stranamente privo di dubbi, sebbene, a prima vista, fosse difficile capire perché. Paragonata alla mia marcia a tappe forzate verso il successo, alla traiettoria diretta della freccia che avevo scagliato io, da Princeton a Harvard fino alla mia scrivania al quarantaseiesimo piano, il percorso di Barack era uno zigzag improvvisato attraverso mondi diversi.
Appresi a pranzo che era un ibrido in tutti i sensi, figlio di un padre nero, keniano, e di una madre bianca originaria del Kansas, che si erano sposati giovanissimi e il cui matrimonio aveva avuto vita breve. Era nato e cresciuto a Honolulu ma aveva trascorso quattro anni della sua infanzia a far volare aquiloni e cacciare grilli in Indonesia. Dopo le superiori si era concesso due anni relativamente rilassati come studente a Los Angeles, all’Occidental College, prima di trasferirsi alla Columbia, dove, a quanto diceva, non si era affatto comportato come uno studente libero di fare quello che voleva nella Manhattan degli anni Ottanta, ma anzi aveva vissuto come un eremita del sedicesimo secolo, leggendo opere di letteratura e filosofia in un sudicio appartamento della Centonovesima Strada, scrivendo brutte poesie e digiunando la domenica.
Ridemmo di tutti questi racconti, ci scambiammo storie sulle nostre origini famigliari e su cosa ci aveva portato a studiare Legge. Barack era serio senza prendersi sul serio. Aveva modi disinvolti ma rivelava un’insolita potenza di pensiero. Era una combinazione strana e stimolante. Fui anche sorpresa della sua buona conoscenza di Chicago. Barack era la prima persona che avevo incontrato da Sidley ad aver trascorso un po’ di tempo nei negozi dei barbieri, nei ristoranti popolari e nelle parrocchie dei predicatori neri nella parte più meridionale del South Side. Prima di frequentare la Law School, aveva lavorato per tre anni a Chicago come coordinatore di comunità, a 12.000 dollari l’anno, per un’organizzazione non profit che riuniva un gruppo di chiese. Il suo compito consisteva nell’aiutare a ricostruire le comunità di quartiere e a creare occupazione. Per come lo descrisse lui, il suo lavoro era per due terzi frustrante e per un terzo gratificante: aveva trascorso settimane a progettare un incontro a cui si erano presentate non più di dieci persone. I suoi sforzi erano derisi dai capi dei sindacati e criticati sia dai bianchi sia dai neri. Eppure, col tempo, aveva ottenuto alcune piccole vittorie, e ciò sembrava incoraggiarlo. Era entrato alla Law School, mi spiegò, perché proprio l’attività organizzativa di base gli aveva mostrato che un cambiamento sociale significativo richiedeva non solo il lavoro sul campo, ma anche politiche mirate e l’azione del governo.
Nonostante la mia resistenza al clamore che l’aveva preceduto, mi trovai ad ammirarlo sia per la sua sicurezza sia per la sua serietà. Era piacevole, anticonvenzionale e a modo suo elegante. Nemmeno una volta, tuttavia, pensai a lui come a uno con cui mi sarebbe piaciuto uscire. Innanzitutto, ero il suo tutor nello studio. In secondo luogo, avevo appena giurato a me stessa che non sarei uscita più con nessuno: ero troppo logorata dal lavoro per dedicare anche uno sforzo minimo a una storia. E, infine, era accaduta una cosa orribile: al termine del pranzo Barack si accese una sigaretta, un gesto che sarebbe stato di per sé sufficiente a smorzare qualsiasi mio interesse, se ne avessi avuto uno. Sarebbe stato un buon pupillo per l’estate, pensai tra me.

Repubblica 13.11.18
"Becoming - La mia storia"
L’autobiografia di Michelle Obama
"Il potere è dare speranza Ma io non mi candiderò ho visto troppe cattiverie"
di Michelle Obama


Barack e io abbiamo lasciato per l’ultima volta la Casa Bianca il 20 gennaio 2017 per accompagnare Donald e Melania Trump alla cerimonia di insediamento. Quel giorno provavo tante sensazioni contemporaneamente: stanchezza, orgoglio, turbamento, impazienza.
Soprattutto, però, cercavo di mantenere la calma, consapevole che le telecamere seguivano ogni nostro movimento. Mio marito e io eravamo determinati a completare il passaggio di consegne con grazia e dignità, a finire gli otto anni con i nostri ideali e la nostra compostezza intatti. Eravamo arrivati all’ultima ora. Quella mattina, Barack era andato per l’ultima volta nello Studio ovale e aveva lasciato una nota manoscritta per il suo successore. Ci eravamo radunati al piano di Stato per salutare il personale permanente della Casa Bianca, i maggiordomi, gli uscieri, gli chef, i domestici, i fiorai e tutti coloro che si erano presi cura di noi con amicizia e professionalità, e ora avrebbero usato la stessa cortesia con la famiglia che si sarebbe trasferita lì nel corso della giornata. Gli addii furono particolarmente difficili per Sasha e Malia, perché molte di quelle persone le avevano viste quasi tutti i giorni per metà della loro vita. Io li avevo abbracciati uno per uno e avevo cercato di non piangere quando ci avevano consegnato come dono di commiato due bandiere americane: quella del primo giorno della presidenza di Barack e quella che sventolava l’ultimo giorno del suo mandato, due simboli che aprivano e chiudevano l’esperienza della nostra famiglia in quel luogo.
Seduta per la terza volta sul palco dell’insediamento, di fronte al Campidoglio, cercavo di contenere le emozioni. La vibrante varietà di culture ed espressioni delle due cerimonie precedenti non c’era più, sostituita da un’uniformità scoraggiante, una scena occupata quasi solo da maschi bianchi, come tante in cui mi ero spesso imbattuta nella mia vita, specialmente nei luoghi più privilegiati, nei vari corridoi del potere in cui mi ero infilata da quando avevo lasciato la casa della mia infanzia in Euclid Avenue. La mia esperienza professionale — dal reclutamento di nuovi avvocati per Sidley & Austin alle assunzioni alla Casa Bianca — mi aveva insegnato che l’omogeneità alimenta ulteriore omogeneità, fino a quando non si fa uno sforzo meditato per correggerla. Osservando le circa trecento persone sedute sul palco, gli illustri ospiti del nuovo presidente, mi sembrava evidente che, nella sua Casa Bianca, un simile sforzo sarebbe stato improbabile. Qualcuno dell’amministrazione di Barack avrebbe potuto dire che era un problema di percezione negativa, che l’immagine che vedeva il pubblico non rifletteva la realtà o gli ideali della presidenza. Ma, in questo caso, forse sì. Mentre me ne rendevo conto, smisi anche di cercare di sorridere. Una transizione è esattamente questo: il passaggio a qualcosa di nuovo. Una mano si posa sulla Bibbia; si ripete un giuramento. I mobili di un presidente vengono trasportati fuori mentre entrano quelli di un altro. Si svuotano e si riempiono cassetti. Nuove teste riposano su nuovi guanciali: nuovi temperamenti, nuovi sogni. E quando il tuo mandato è finito, quando, l’ultimo giorno, lasci la Casa Bianca, sotto molti aspetti devi recuperare te stesso. Mi trovo adesso a un nuovo punto d’inizio, in una nuova fase della mia vita. Per la prima volta in molti anni sono svincolata dai doveri della moglie di un politico, sono libera dalle aspettative degli altri. Ho due figlie ormai quasi adulte che hanno meno bisogno di me rispetto a un tempo. Un marito che non porta più sulle spalle il peso della nazione. Le responsabilità che sentivo — nei confronti di Sasha e di Malia, di Barack, della mia carriera e del mio Paese — sono così cambiate da permettermi di pensare in modo diverso a quello che verrà.
Ho avuto più tempo per riflettere, per essere semplicemente me stessa. A cinquantaquattro anni non ho finito di crescere e spero di non finire mai. Per me, diventare qualcuno non significa soltanto raggiungere una certa destinazione o conseguire un certo fine. Lo considero piuttosto un perpetuo movimento in avanti, un mezzo per evolvere, un modo per cercare costantemente di migliorarsi. Il viaggio non finisce. Sono diventata una madre, ma ho ancora molto da imparare dalle mie figlie e da dare loro. Sono diventata una moglie, ma sto ancora cercando di capire, conscia dei miei limiti, ciò che significa amare veramente un’altra persona e costruire una vita insieme. Sono diventata, fino a un certo punto, una persona di potere, eppure ci sono ancora momenti in cui mi sento insicura o inascoltata. Fa tutto parte dello stesso processo, sono passi lungo un percorso.
Diventare richiede pazienza e rigore in parti uguali. Diventare significa non rinunciare mai all’idea che bisogna ancora crescere.
Siccome me lo chiedono spesso, lo dirò qui, senza mezzi termini: non ho intenzione di candidarmi a una carica politica, non lo farò mai. Non sono mai stata un’appassionata di questo mondo e la mia esperienza negli ultimi dieci anni non ha fatto molto per cambiare il mio atteggiamento. Continuo a essere sconcertata dalle cattiverie, dalla segregazione tribale di rossi e blu, quest’idea che si debba scegliere un partito e seguirlo ciecamente, senza ascoltare gli altri né scendere a compromessi o, a volte, persino senza comportarsi da persone civili. Io credo che la politica, nella sua accezione migliore, possa essere uno strumento di cambiamento positivo, ma questa arena non fa per me.
Questo non vuol dire che non mi stia profondamente a cuore il futuro del nostro Paese. Da quando Barack non è più in carica ho letto notizie che mi fanno rivoltare lo stomaco. Sono rimasta a letto sveglia la notte, fumante di rabbia. È stato doloroso vedere come il comportamento e l’agenda politica dell’attuale presidente abbiano indotto molti americani a dubitare di sé stessi e a dubitare degli altri e temerli.
Non è stato facile stare a guardare mentre provvedimenti approntati con cura e attenti ai bisogni delle persone venivano cancellati, mentre ci alienavamo la simpatia di alcuni dei nostri più stretti alleati e abbandonavamo i membri più vulnerabili della nostra società lasciandoli senza difese fino a disumanizzarli. A volte mi chiedo quando mai arriveremo a toccare il fondo. Quello che non voglio permettermi, però, è di diventare cinica. Nei momenti in cui sono più preoccupata, mi fermo, respiro a fondo e ricordo a me stessa la dignità e la correttezza di molte persone che ho incontrato nel corso della mia vita, i molti ostacoli che sono già stati superati. Spero che altri facciano lo stesso. Tutti noi abbiamo un ruolo in questa democrazia. Dobbiamo ricordare il potere di ogni singolo voto. Io resto sempre legata a una forza che è più grande e più potente di qualsiasi elezione o leader o notizia di cronaca: l’ottimismo. Per me, è una forma di fede, un antidoto alla paura. L’ottimismo regnava nel piccolo appartamento della mia famiglia in Euclid Avenue.
Lo riconoscevo in mio padre, nel modo in cui si muoveva come se niente fosse, come se la malattia che un giorno l’avrebbe portato via non esistesse. Lo riconoscevo
La ex first lady si racconta, a due anni dall’elezione che ha insediato Trump alla Casa Bianca. Il difficile addio di Malia e Sasha al personale che le ha viste crescere in 8 anni, le bandiere donate, la delusione per il successore, la nuova vita

Il Fatto 13.11.18
Brexit e la strategia kamikaze di Corbyn
Labour divisi - Il leader vuole che il governo May si schianti per andare al governo, ma è contestato
di Sabrina Provenzani


A guardarla da vicino, da questo lato della Manica, la strada per la Brexit è lastricata di pessime intenzioni, ostacoli ideologici, opportunismi personali. Perfino in queste settimane drammatiche in cui la prospettiva di uscire senza accordo sembra sempre più vicina. Vale per i Tories, divisi secondo crescenti gradazioni di fanatismo, ma anche per il Labour di Corbyn, lacerato fra l’europeismo della maggioranza del partito e i calcoli politici del capo. In una lunga intervista al tedesco Spiegel uscita nel weekend, alla domanda: se potesse fermare Brexit, lo farebbe? Il segretario del Labour ha risposto: “Non possiamo fermarla. C’è stato un referendum. È stato invocato l’articolo 50. Quello che possiamo fare è prendere atto delle ragioni per cui la gente ha votato Leave”.
Che però è la sua linea, non quella uscita a settembre dal Congresso del Partito, che dopo una battaglia all’ultimo sangue ha votato a maggioranza una mozione per lasciare aperte “tutte le opzioni”. Come ha ricordato ieri sir Keir Starmer, il ministro ombra per la Brexit e campione dei laburisti Remainer, che in una intervista a Sky ha platealmente contraddetto il capo, riaprendo uno scontro latente ormai da mesi: “Brexit può essere fermata. Ma dobbiamo prendere delle decisioni difficili”.
La prima è sostenere o no, in Parlamento, l’eventuale accordo raggiunto fra Londra e Bruxelles. La seconda: in caso di bocciatura, andare a nuove elezioni? La terza: se non si va a elezioni, valutare le opzioni incluso un secondo referendum.
“Questa è la chiara posizione uscita dal Congresso e Jeremy si è impegnato a rispettarla”, ha chiarito Starmer. Vero, ma è un impegno preso con riluttanza, perché l’ipotesi di un secondo voto popolare non lo ha mai convinto, malgrado sia popolare fra iscritti ed elettori laburisti. Da euroscettico, non potrebbe coerentemente fare campagna per restare in Europa: non la fece la prima volta. Non solo: l’attuale bozza di accordo non piace a nessuno, e piuttosto che approvarla perfino i parlamentari conservatori pro-Europa sembrano ora preferire un nuovo voto popolare. Insomma, l’ipotesi di secondo referendum raccoglie sempre più consensi bipartisan. E invece Corbyn vuole il tracollo del governo, nuove elezioni e l’occasione concreta di andare a Downing Street.
Con una ricetta in salsa socialista per i futuri rapporti con l’Ue, come chiarito sempre allo Spiegel.
“Non punteremmo, come sognano i Tories, a una deregulation di tipo statunitense. Negozieremmo una unione doganale ampia, che protegga il confine irlandese e gli scambi in entrambe le direzioni. Leave o Remain, nessuno ha votato per perdere il lavoro”.

Il Fatto 13.11.18
Un Paese tutto destra e Chiesa
Intrecci. Il governo nazionalista di Kaczynski e Duda ha favorito una pericolosa collusione tra potere civile ed ecclesiastico imperniata su tradizione, identità e revisionismo di Stato sulla Shoah
di Filippomaria Pontani


Da mesi a Varsavia la ricorrenza del centenario dell’indipendenza, nel 1918 al termine della Prima guerra mondiale, occupa vie e piazze: padiglioni didattici temporanei ripropongono la storia del Paese nell’ultimo secolo, il Museo Nazionale dedica un’ala all’elaborazione artistica della guerra sotto l’egida del controverso generale Pilsudski, vincitore nel ’18 e poi autoritario presidente della Polonia (suo il golpe del 1926, sua la politica di “risanamento” della nazione tramite ritorno agli “antichi valori”).
Proprio Pilsudski – vittima di una damnatio memoriae in età comunista, e ora padre della patria del governo più nazionalista d’Europa – inventò quel progetto di alleanza degli Stati dal Baltico al Mar Nero al Mediterraneo in funzione antitedesca e antisovietica (“Intermarium”) di cui il Gruppo di Visegrad rappresenta oggi il nucleo duro, e il Gruppo del Trimarium (una Visegrad allargata a Croazia, Austria, Slovenia, Romania, Bulgaria e repubbliche baltiche) una riproposizione moderna.
Il culto dei morti del ’18 e poi della guerra sovietico-polacca del 1919-21 si salda con il culto dei morti di Smolensk, l’incidente aereo del 2010 in cui morì l’allora presidente Lech Kaczynski insieme a molti alti quadri dello Stato e dell’esercito: dietro i lutti passati si cementa e si santifica l’unità della nazione. Non è un caso se nello spazio pubblico delle vie e delle piazze l’unica altra realtà ammessa sia quella della Chiesa cattolica: chiunque visiti il Paese trova ritratti di Giovanni Paolo II sulle vetrate di Breslavia, statue del primate Wyszynski (mèntore di Wojtyla e mediatore col regime comunista durante la Guerra Fredda) sulle strade della capitale, capitoli di cattedrali ricchi e attivissimi come a Cracovia, istanze di beatificazione sostenute a furor di popolo. E la vicinanza morale e materiale con il governo della destra nazionalista dei Kaczynski e dei Duda ha portato a una pericolosa collusione tra potere civile a potere ecclesiastico, con tutto il corredo di inconfessabili do ut des, di abuso politico dei concetti di “tradizione” e di “identità”, di understatement sul revisionismo di Stato circa la Shoah (la legge che proibisce di definire Auschwitz un campo “polacco”), di opaca adesione alle politiche anti-migratorie del governo e ai suoi toni da crociata, di arretramenti su diritti civili e libertà d’espressione.
In questo quadro poco confortante – ribadito dalla manifestazione di domenica, in cui spiccavano assieme inquietanti bandiere e icone di santi – ha fatto irruzione da un mese il film Kler di Wojciech Smarzowski, il regista diventato popolare in Polonia (e gradito anche al potere) grazie a film storici dedicati alle tragedie del 900, come Rosa o Volhynia. Il nuovo film, dedicato a casi significativi (basati in parte su fatti reali) della vita odierna del clero polacco, ha attirato al cinema milioni di spettatori e sta allarmando le gerarchie: vi si rappresentano tre storie parallele di sacerdoti cattolici di diverse pretese e di diverse abitudini, accomunati da una propensione alla violazione dei più elementari precetti evangelici, quando non semplicemente umani. Non si tratta solo della pedofilia, anche se naturalmente quella è – in maniera diretta o indiretta – l’oggetto principe della rimozione, noto e tollerato, dalle parrocchie di campagna ai vescovadi delle città più antiche.
Al di là degli abusi sui minori, colpisce il clima di continua intimidazione, di ricatto, di corruzione reciproca, che corrode le comunità dei villaggi della Masovia come le figure apicali delle gerarchie (qui, l’arcivescovo Mordowicz, interpretato da Janusz Gajos; ma nel film si parla anche in italiano, in una delle scene finali compare il Cupolone). Dall’uso inconfessabile delle monetine raccolte durante la messa fino ai sordidi maneggi che inquinano la beneficenza per le cliniche pediatriche, nulla resta puro in questo affresco che mette a nudo la catena di fragilità e violenza che grava sui sacerdoti di paese e l’assoluta impunità delle gerarchie ma anche l’incapacità della società di comprendere e di reagire dinanzi a una combutta pervasiva tra potere ecclesiastico e potere politico, la stessa combutta denunciata nella realtà – con toni ben meno aspri – dal coraggioso sacerdote di Cracovia Adam Boniecki, sanzionato e silenziato nel 2011 dalla Conferenza dei vescovi polacchi e riammesso alla parola pubblica solo pochi mesi fa.
Una combutta che affonda le radici in una scena di Kler, un flashback che mostra una messa popolata dalle bandiere di Solidarnosc nei mesi del crollo del regime comunista nel 1989. Una terra cresciuta nel culto di Wojtyla, del cardinale Glemp e del martirio di padre Popieluszko (ucciso dal regime nel 1984), una terra che ha trovato nella Chiesa cattolica la chiave per la liberazione dall’oppressione comunista e dunque per ogni idea di futuro, è di colpo posto dinanzi, sui pubblici schermi, a un quadro moralmente e politicamente desolante. Un Paese economicamente vitale che insegue la propria modernità potrebbe iniziare a sospettare che porpore e tiare siano parte del problema e non della soluzione. Ma saranno parte del problema o della soluzione la nuova legge che mette le università sotto il controllo della politica, i tentativi di asservimento del potere giudiziario, l’intimidazione nei confronti della stampa, la condiscendenza con cui vengono liquidati i rigurgiti neonazisti nella gioventù, o le vetrine di Militaria.pl che esibiscono nelle strade del centro mitragliatrici a 900 zloty, meno di 250 euro?
Sul vescovado di Breslavia campeggia la scritta non domo dominus sed domus domino honestanda, non locis viri sed loca viris efficiuntur honorata, “non è il padrone a trarre lustro dalla casa, ma la casa dal padrone; non sono gli uomini ad essere nobilitati dai luoghi, ma i luoghi dagli uomini”. Le brutture denunciate da Kler forse serviranno più per stringere a coorte le élite cittadine filo-occidentali che non per persuadere la Polonia rurale, dove i cinematografi non esistono; forse anche per questo manca una reazione ufficiale della Conferenza episcopale polacca, e i segnali di disagio sono per ora ancora affidati a singoli prelati. Ma il putiferio che si è scatenato in un Paese dove tutti ricordano l’epilogo del grande poema nazionale, il Pan Tadeusz di Adam Mickiewicz (1834; ne è da poche settimane disponibile una splendida traduzione inglese curata per Archipelagos da Bill Johnston): “Per un Polacco, ospite inviso / dovunque vada, nel passato / e nel futuro c’è una sola terra / in cui alberghi una traccia / di felicità: la terra dell’infanzia. / Essa resiste, sacra e pura / come il primo amore, non viziata / da vuoti di memoria, intatta / dall’atroce equivoco di speranza, / immutata dal corso della storia”.
E questo film, riusciremo a vederlo nelle sale italiane?

La Stampa 13.11.18
Israele, un treno per unire il Medio Oriente
Così la diplomazia su rotaia isola Teheran
di Rolla Scolari


Israele vuole costruire una ferrovia che colleghi le sue coste ai Paesi arabi del Golfo, lanciando un’idea che ha radici nel passato della regione. Prima della costruzione della linea che andava da Damasco a Medina, i fedeli musulmani viaggiavano in cammello anche 40 giorni nel deserto per raggiungere i luoghi sacri all’Islam per l’annuale pellegrinaggio. Poi, nel 1900, il sultano ottomano Abdülhamid II chiese aiuto a tutto il mondo islamico: avrebbe costruito una ferrovia. Il treno non sarebbe mai arrivato alla Mecca, ma a Medina, nell’attuale Arabia Saudita. Nel 1908, il tragitto per i pellegrini si era accorciato a soli cinque giorni.
Resta poco oggi di quelle rotaie che rappresentarono per gli ottomani anche uno strumento economico, politico e sociale. Non è un caso infatti che quella ferrovia fu attaccata da Lawrence d’Arabia e dai suoi seguaci durante la rivolta araba del 1916-1918. Fu l’inizio della sua fine. Il resto dello smembramento continuò durante il primo conflitto mondiale, fino alla Guerra dei sei giorni tra le armate arabe e l’esercito israeliano. Ed è proprio Israele che, nel tentativo di creare un’alleanza senza precedenti con monarchie, sultanati ed emirati arabi sunniti, resuscita in questi mesi l’idea di qualcosa di molto simile alla storica ferrovia dell’Hijaz, dal nome della parte nord-occidentale della Penisola araba.
È inedito che un ministro israeliano sia invitato a una conferenza in uno dei Paesi del Golfo. Yisrael Katz, responsabile dei Trasporti (e anche dell’Intelligence), è stato in Oman dal 6 all’8 novembre per partecipare a un summit sulla viabilità regionale. A Muscat ha presentato un progetto annunciato oltre un anno fa, in favore del quale il bilancio nazionale israeliano del 2019 ha già stanziato oltre 4 miliardi di dollari. Si chiama «I binari della pace regionale», il suo obiettivo è creare un’arteria commerciale che dal porto di Haifa attraverso Israele, i Territori palestinesi – includerebbe una stazione a Jenin –, la Giordania entrerebbe in territorio saudita.
Il tragitto, saltando la Siria in guerra, ricorda molto la storica ferrovia ottomana. «Oltre al contributo all’economia israeliana, alle economie giordana e palestinese, l’iniziativa collegherà Israele economicamente e politicamente alla regione, e consoliderà il campo dei pragmatici». I pragmatici sembrano essere oggi quegli attori regionali che, sebbene non esista tra loro e Israele un Trattato di pace, aprono a una lenta e poco pubblicizzata normalizzazione in questioni economiche e sportive, di cui si intuiscono i primi segnali.
Pochi giorni fa, il viaggio del premier Benjamin Netanyahu in Oman ha stupito. Anche la responsabile dello Sport, Miri Regev, è stata in visita ad Abu Dhabi per un torneo di judo durante il quale, in seguito alla vittoria dell’atleta israeliano, per la prima volta è stato eseguito l’inno nazionale in un Paese arabo senza relazioni formali con Israele. Poco dopo, il ministro delle Comunicazioni Ayoub Kara ha partecipato a una conferenza a Dubai. Da mesi, si parla di una possibile svolta in arrivo da Riad nei confronti del governo israeliano, sostenuta dall’Amministrazione Trump in funzione anti-Iran. E uno degli scopi di una ferrovia tra il Golfo e Haifa, porto che da quando la Siria è in guerra accoglie ogni anno 5.000 camion turchi sulla via della Giordania e dell’Arabia Saudita, sarebbe anche quello di aggirare la dipendenza regionale dal fondamentale snodo dello stretto di Hormuz, che divide le coste della Penisola arabica dall’Iran, e che Teheran spesso minaccia di bloccare.
Il ministro Katz sostiene che il progetto sia stato condiviso con Stati Uniti, Egitto e Giordania e altri Paesi arabi non specificati. Che l’idea sia già stata portata all’attenzione di governi della regione senza relazioni con Israele lo racconta non soltanto il viaggio a Muscat. Nel dicembre 2017, pochi giorni dopo il controverso annuncio dell’amministrazione Trump di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, Katz ha rilasciato un’intervista senza precedenti, perché a un media saudita. A Elaph, sito edito a Londra, aveva spiegato in dettaglio il progetto: «Non si tratta di un sogno. Può essere realizzato, in presenza di una volontà politica».

La Stampa 13.11.18
Trecento razzi lanciati da Gaza
Raid e carri armati alla frontiera
di Giordano Stabile


Un blitz notturno all’interno della Striscia di Gaza, finito con un sanguinoso conflitto a fuoco che non era previsto, rischia di innescare una nuova guerra fra Israele e Hamas. Nella battaglia a Khan Younes, nella tarda serata di domenica, sono morti un colonnello israeliano e un comandante del braccio militare del movimento islamista. La reazione dei militanti, con trecento razzi e colpi di mortai lanciati in territorio israeliano nella giornata di ieri, ha provocato non soltanto massicci raid dell’aviazione, ma anche una concentrazione di carri armati alla frontiera come non si vedeva da mesi.
Tutto è cominciato fra le 10 e le 11 nella serata di domenica. Un commando di forze speciali israeliane era in missione di ricognizione all’interno della Striscia, vicino alla cittadina meridionale di Khan Younes. Una operazione «di routine» come è stata in seguito definita da un generale dell’esercito. Il commando però viene intercettato da una pattuglia di Hamas, guidata dal comandante Nour Bakara. Lo scontro è violentissimo. Sul terreno rimangono il comandante e altri sei militanti palestinesi. Ma anche il colonnello M. - il nome completo ieri sera non era ancora stato rivelato - viene ucciso, e un altro militare ferito in modo serio.
Hamas parla subito di «omicidio mirato» da parte dell’esercito. Ondate di razzi si abbattono sul Sud di Israele, seguiti da raid dell’aviazione israeliana che lasciano sul terreno altri due palestinesi. Gran parte degli ordigni vengono intercettati dal sistema Iron Dome, ma nel pomeriggio un colpo di mortaio colpisce in pieno un autobus. Un uomo rimane gravemente ferito. L’aviazione reagisce con altri raid «contro settanta obiettivi dei terroristi», mentre nella serata di ieri vengono segnalati massicci concentrazioni di tank al confine.
Un aereo F-16 israeliano centra a Gaza City la palazzina dove si trovano gli studi centrali della emittente Hamas, la televisione al-Aqsa. Lo ha riferito la televisione al-Quds. A quanto pare, nell’attacco non ci sono state vittime perché in precedenza i dipendenti avevano ricevuto un avvertimento da Israele ed avevano lasciato l’edificio.
Il premier Benjamin Netanyahu torna in anticipo da Parigi, dove era alla celebrazioni per il centenario dell’Armistizio che ha segnato la fine della Prima guerra mondiale, e presiede il comitato ristretto per la sicurezza.
C’è aria di intervento di terra. Amnesty International si appella a «tutte le parti» perché evitino di compiere «attacchi sproporzionati o indiscriminati: i civili devono essere protetti». Interviene anche Mosca che esorta «palestinesi e israeliani a tornare immediatamente ad un cessate il fuoco stabile».
La crisi arriva proprio quando la mediazione dell’Egitto e del Qatar, che ha inviato 15 milioni di dollari cash per pagare i funzionari statali, sembrava sul punto di concretizzare una tregua duratura. Tanto che ambienti vicini a Netanyahu hanno fatto trapelare anche l’ipotesi di un trabocchetto del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che spinge molto di più del premier per un intervento di terra.

Repubblica 13.11.18
Arresti negli atenei a Pechino
La stretta cinese sull’opposizione riparte dalla Meglio gioventù
Studenti al fianco di operai, regime preoccupato in vista dell’anniversario di Tienanmen
di Filippo Santelli


PECHINO Racconta un testimone che venerdì una decina di persone in abiti scuri si sono avvicinate a Zhang Shengye mentre camminava nel campus dell’Università di Pechino, lo hanno picchiato e trascinato dentro una macchina. Faceva troppo chiasso Zhang da quando si era messo alla ricerca dei suoi compagni di militanza arrestati e spariti nel nulla. Così lo scorso weekend si sono portati via pure lui, con una decina di studenti e attivisti di altre università d’elite del Paese: Canton, Shanghai, Shenzhen. Troppo marxisti per la Cina di Xi Jinping, maoisti addirittura. Tanto votati alla causa da essersi schierati a fianco degli operai in sciopero. Un sodalizio che il Partito non può tollerare a pochi mesi da un delicato doppio anniversario, i cento anni del movimento del 4 Maggio, il risveglio dell’orgoglio nazionale, e i trenta da Piazza Tienanmen.
Il rastrellamento nei campus è l’ultimo giro di una vite che ha cominciato a stringersi in estate, quando un gruppuscolo di 50 studenti, guidato da una ragazza di nome Yue Xin, sempre Università di Pechino, ha raggiunto la città meridionale di Huizhou per sostenere gli operai della Jasic. Sciopero diverso dai tanti che si vedono nel Paese, perché aveva dato vita a un sindacato autonomo. Di quei giorni restano le foto dell’appartamento in cui i ragazzi dormivano e qualche battuta con Reuters in cui Yue, neolaureata in Lingue straniere, spiega di non voler sovvertire il sistema, solo garantire più diritti per i deboli. Comunque troppo: il 24 agosto la polizia irrompe nella casa e arresta tutti. Alcuni vengono liberati; dei capi come Yue, che qualche mese prima era anche diventata la paladina del movimento #MeToo nel campus, non si hanno tracce da allora. Tracce che Zhang e i compagni stavano cercando.
« La violenza di questa reazione mi stupisce», commenta Ivan Franceschini, ricercatore all’Università Ca’ Foscari di Venezia esperto di tematiche del lavoro in Cina. «Le autorità stanno ingigantendo una vicenda che coinvolgeva qualche decina di studenti » . Segnale di paranoia, di una serie di nervi ancora scoperti. L’alleanza tra studenti d’elite e operai. E poi quel luogo, Beida, l’Università di Pechino, dove ogni rivolta è sempre iniziata. Dalla fine di ottobre ha un nuovo segretario di Partito, il vero leader dell’ateneo: Qiu Shuiping, uomo che viene dall’apparato di sicurezza. In diversi campus è stata vietata la registrazione di confraternite marxiste. Chiedendo di restare anonimo, un professore racconta di una cappa sempre più pesante negli atenei di punta del Paese, tra studenti invitati a denunciare i professori " pericolosi" e lezioni riprese con le telecamere. Un paio di settimane fa la Cornell University ha interrotto un programma di scambio con l’Università del Popolo di Pechino denunciando la censura del dibattito sui diritti dei lavoratori. Si vedrà se altri atenei stranieri con partnership in Cina la seguiranno. Se come molti analisti ritengono nelle università c’è un’insofferenza crescente verso la stretta autoritaria, resta lontana dal cristallizzarsi in un’opposizione. « Questi episodi hanno risonanza all’estero - dice Franceschini - ma non credo la causa degli studenti maoisti possa averne all’interno».

La Stampa 13.11.18
La Treccani nel cestino, uno spreco senza alibi
di Marco Zatterin


Spuntava fra il coperchio giallo e il resto del cassonetto grigio, glorioso per la familiare livrea nera e i fregi dorati, la copertina inconfondibile anche nella fioca luce dell’unico lampione. Aperto il bidone, il volume si offriva con intatto splendore, tragicamente non isolato. Sotto ce n’era un secondo, un terzo e altri ancora, proprio come nei due bidoni lì a fianco, riparati sotto la tettoia bagnata di pioggia. Lo spettacolo suscitava emozioni forti e le impregnava di tristezza per il suo terribile simbolismo. Qualcuno aveva appena buttato un’enciclopedia Treccani nella spazzatura.
Facile invocare il «segno dei tempi» e magari buttarla in politica. Inutile. Incontrare il monumento secolare della conoscenza italiana alla prima fermata della linea che porta all’immondezzaio ferisce il cuore di qualunque bipede implume italiano dotato di sensibilità culturale. Magari c’è una ragione. Ognuno è libero di far ciò che gli pare con le sue cose sinché non danneggia la libertà altrui, ma se è una mancanza di rispetto per l’enciclopedia che ha fatto la nostra storia si incappa in un crimine che progresso e tecnologie - straordinarie e benvenute! - non possono giustificare.
Quella Treccani che fa capolino dalla rumenta, dispersa con il solo rispetto alle norme della differenziata, è un’immagine cruda come il corpo assassinato che si rivela dal camion dei rifiuti in «Frenzy» di Alfred Hitchcock. Non ne aveva più bisogno, il proprietario? Poco spazio? Pigrizia? «Serve davvero?» si sarà domandato. Giusto quesito, ammettiamolo. Del resto le enciclopedie sono state le prime a finire invendute sulle bancarelle al cambio dell’era tecnologica.
L’informazione è adesso facile, ed è un beneficio. Ci sono Google e Wikipedia a portata di dito. Puoi sapere tutto in un secondo, soddisfatto sinché non decidi di andare oltre. Basta cercare il nome di un personaggio famoso - da Blücher a Schiele - per accorgersi che la prima linea di informazione si ripete sistematicamente come la vita nell’«Invenzione di Morel» e che, al decimo sito, ci si arrende al fatto che le novità si assomigliano terribilmente. Non c’è davvero una seconda fase, l’approfondimento consapevole. Esiste però il terzo livello, che sulla rete consta di porte su mondi impensabili e archivi ritenuti inaccessibili. In sintesi, abbiamo l’orizzontale generale e il verticale complesso e profondo. In mezzo, poco o nulla.
Richiede impegno il comporre la straordinaria mescolanza fra divulgazione e consultazione che una Treccani portava nelle case degli italiani che se la potevano permettere. Certo il web è comodo, rapido e abbondante. Tuttavia il mondo è così cambiato che, mentre si buttano i libri e i giornali di carta, il lato più oscuro e interessante della memoria storica abita volumi nascosti o archivi remoti. Chiedete a un ricercatore per credere.
La Treccani assolveva il ruolo di intermediatore perfetto, quello che manca di sovente sulla rete: un’istituzione che certifica e firma le voci e ne garantisce legittimità. Era (ed è) il marchio di qualità che teneva lontane le fake-news. Sui libri, come sui giornali di qualità, si trova una tutela che adesso è meno palpabile. Ci scopriamo con più possibilità e meno certezze. Eugenio Montale, guardando al futuro, arrivò a prevedere che saremmo finiti in «un carapace di parole» in cui sarebbe stato difficile distinguere il vero dal falso. Senza conoscere Internet, vedeva lontano.
Per questo è bello e buono che esistano Wikipedia & Co, ma non per questo è saggio rinunciare alla ciambella di salvataggio della memoria lunga e cartacea che custodisce la fedeltà ai fatti e ci rende più reattivi. Chi getta una Treccani avvelena un po’ tutti. Infligge un colpo al perfetto mondo in cui l’orizzontale e il verticale sono in armonia. Si rende colpevole di un libricidio senza appello, uno spreco privo di alibi. Senza contare che, dice Abebooks.it, ha rinunciato a qualche migliaio di euro. O, in alternativa, alla possibilità di far felice una delle biblioteche che combattono assieme a noi contro una cultura troppo omogenea.

La Stampa 13.11.18
La (non) pace della Grande Guerra
Gli sforzi del presidente americano Wilson alla radice di cent’anni di conflitti in tutto il mondo
di Franco Cardini


Ormai, in tempi nei quali la storia viene quasi cacciata dalle scuole e ghettizzata nelle università, mentre fior di ministri (per non parlar d’insegnanti e di genitori degli studenti) affermano dottamente che «non serve a nulla», si potrebbe obiettare ch’essa, stravolta e adulterata, trionfa nelle piazze e sui piccoli schermi tv sotto forma di sagre popolari e di serial. Ma qui viene trattata in modi che costringono molti a chiedersi se non sarebbe meglio che l’oblio totale scendesse su di essa.
Ebbene, no. Sappiate che non bisogna mollare. La storia rappresenta la razionalizzazione della nostra memoria: senza di essa una società civile non può sopravvivere, non tanto perché è impossibile non conoscere il passato, ma perché senza la conoscenza di esso non si comprende il presente e non si progetta nessun possibile futuro.
D’altronde, se la storia è in crisi chi è cosciente della sua importanza deve stare al gioco e accettare la sfida: pur di scendere in lizza con il popolo degli orecchianti e dei maniaci, pur di misurarsi con i semicolti e con i refrattari. Alla gente piacciono le saghe paesane in costume pseudomedievale? Cerchiamo di far rientrare dalla finestra il vero medioevo cacciato dalla porta perché il popolo delle play-station non sa che farsene.
I politici e i media amano la storia a metà tra la retorica e la celebrazione consumistica che è quella fatta «per centenari», per cui il 2018 è stato «magico» in quanto è stato contemporaneamente il centosettantesimo del 1848, il centenario del 1918 e il cinquantesimo del 1968, tre Anni Mirabili? Docenti universitari, autori di libri, case editrici e librai hanno fatto di tutto per avvantaggiarsene: con qualche risultato.
Sarà lo stesso per il 2019? A occhio e croce si direbbe di no: non c’è granché come anniversario in vista, a parte magari l’armistizio di Villafranca del 1859, la Conciliazione tra stato italiano e Chiesa del 1929 e perfino l’infausto inizio della seconda guerra mondiale nel 1939. Ma anche gli anni infausti sono ghiotte occasioni per chi vuole approfittarne.
E non dimentichiamo il centenario del 1919, l’anno delle «paci di Parigi» opera dei vincitori del conflitto del 1914-18 e risultato soprattutto del loro grande Mediatore, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, giurista e accademico prestato (purtroppo) alla politica.
Perché «purtroppo»? Perché le «paci di Parigi» (al plurale, in quanto furono un pacchetto di trattati fra le potenze vincitrici e i tre imperi vinti, il germanico, l’austroungarico, l’ottomano), contrabbandate nel loro insieme come «una Pace per farla finita una volta per tutte con le guerre», si rivelarono fin dal principio, al contrario, una pace per farla finita una volta per tutte con qualsiasi tipo di pace. È già stato detto fino alla noia che il 1919 fu l’inizio di una specie di «guerra dei Trent’Anni» europea che terminò solo nel 1945: ma ciò non è purtroppo vero. Ad essa si collegò strettamente la «guerra fredda» tra 1948 e 1991 e quindi, tramontata l’Unione Sovietica, l’insorgere sempre più duro di una crisi balcanica che si andava aggiungendo a una vicino-orientale, a una estremo-asiatica, a una latino-americana, a una africana. Crisi che perdurano ancora e che hanno indotto un osservatore autorevole come papa Francesco a parlare di una «terza guerra mondiale» già in atto. Insomma, tra 1919 e oggi c’è stata una «Guerra dei Cento Anni», che non è ancora finita.
Alla radice profonde di questo lunghissimo conflitto c’è un protagonista, un eroe purtroppo negativo: il presidente Wilson. Austero e inflessibile studioso figlio di un pastore protestante e testimone oculare, giovanissimo, della Guerra di Secessione statunitense, Wilson sognava la pace universale ed era convinto che, per arrivarci, fosse necessario battere il colonialismo (ma ciò gli era impossibile dal momento che colonialiste erano le due potenze che con gli Usa avevano vinto la guerra, cioè Gran Bretagna e Francia: a parte l’Italia che non contava nulla e alla quale andarono solo le briciole del bottino dei vincitori) e anche il nazionalismo, che della guerra scoppiata nel ’14 era stata una delle cause. Per far questo, Wilson riteneva che ricetta magica universale fosse il principio che ogni nazione dovesse diventare sovrana e che a ogni nazione spettasse uno Stato libero: quindi tutte le nuove compagini, unite nel «parlamento mondiale» della Società delle Nazioni, avrebbero garantito al mondo pace e giustizia per un tempo illimitato.
Wilson si era trovato alla guida degli Stati Uniti allo scoppio della guerra mondiale, nel ’14. Dopo quattro anni, con il suo partito repubblicano lacerato dalle divisioni interne, fu rieletto presidente: il motto della sua seconda campagna elettorale fu «He kept us out of war», ci ha tenuti fuori dalla guerra. Ottenuta la riconferma il 5 novembre 1916, esattamente dopo cinque mesi egli dichiarò guerra alla Germania, il 6 aprile 1917.
In relazione all’opacità delle motivazioni che portarono all’entrata in guerra del 1917, si è soliti annoverare tra esse l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania da parte di un U-boot tedesco avvenuto il 7 maggio 1915, quindi ben due anni prima della decisione di Wilson, che causò la morte di 123 cittadini americani, forti perplessità sono sorte anche negli Stati Uniti.
Ma il tentativo wilsoniano di metter pace tra i popoli non riuscì. La Germania fu troppo duramente soggetta alla legge delle riparazioni di guerra con pretese di debiti per montagne di sterline oro e pesanti decurtazioni territoriali: causa non ultima del successo del nazionalsocialismo che prometteva la rinascita nazionale sulla base delle rivendicazione della dignità tedesca. I Balcani, che avrebbero dovuto esser protagonisti della liberazione di un mosaico di popoli e di «patrie», furono soggetti all’egemonia dei soli serbi; così come gli slovacchi furono assoggettati ai cechi. Insomma, un fallimento su tutta la linea delle ottime, lodevoli intenzioni del presidente.
Non mi piace firmare un così duro giudizio su un uomo dalla specchiata moralità personale e dalle eccellenti intenzioni. D’altronde, «corruptio optimi pessima».

Corriere 13.11.18
La necropoli dei gatti
In Egitto scoperte tombe di animali che risalgono a tremila anni fa
«Ci sono scarabei mummificati»
La paura popolare e gli ex voto
Nel V secolo a.C. c’era un vero e proprio traffico di finte mummie vendute a caro prezzo
di Roberta Scorranese


«I toporagni e gli sparvieri li portano nella città di Buti», mentre «i gatti morti vengono trasportati nelle tombe». Questo manuale di zoologia semi-fantastica è in realtà il primo resoconto sugli animali sacri nell’antico Egitto ed è firmato da Erodoto, a metà del quinto secolo avanti Cristo. E così oggi, poco alla volta, la terra restituisce questa fauna mummificata, come è avvenuto a Saqqara — un’importante necropoli egiziana a sud del Cairo — dove una missione archeologica ha scoperto mummie di gatti in sette tombe, insetti, statuette in forma d’animale e persino rari scarabei imbalsamati. Si tratta di tombe del Nuovo Regno (1550-1069 a.C.) riutilizzate come «cimitero di gatti», appunto.
Quello degli ex voto fatti di animali mummificati era parte di un culto molto popolare, diffuso e radicato, come spiega Roberto Buongarzone, egittologo presso l’università della Tuscia e autore del saggio «Gli dei egizi» pubblicato da Carocci. «C’era un sistema ben organizzato intorno a questa liturgia — dice lo specialista —. Per esempio, numerose necropoli avevano un reticolo interno di gallerie che collegava ciascun “reparto” dedicato a questo o a quell’animale a templi nei quali si esercitava la devozione». Non solo: nell’antico Egitto si arrivava ad avere un vero e proprio traffico di animali mummificati, con tanto di piccoli e grandi illeciti. «Per esempio — continua Buongarzone — abbiamo testimonianze di finte mummie, vendute a caro prezzo come tali ma che, all’interno, contenevano al massimo un paio di ossa di gatto e per il resto un involucro di paglia».
Si speculava insomma sulla fede dei numerosi pellegrini che raggiungevano le necropoli — lo stesso Erodoto si meraviglia di questa carovana senza fine — e che compravano animali mummificati come dono votivo da offrire per ottenere quelle che noi cattolici chiameremmo «indulgenze». Ma, nel complesso, dietro c’era un intero sistema economico e sociale, fatto di allevamenti, addetti alla soppressione degli animali, esperti di mummificazione, sacerdoti «abilitati» a quel tipo di culto.
La scoperta egiziana, annunciata tra gli altri anche dal capo del Consiglio Supremo delle Antichità Mostafa Waziri, fa sì che si torni a parlare delle (numerose) necropoli animali in Egitto, come conferma Federico Poole, curatore al Museo Egizio di Torino, istituzione che a Saqqara ha anche una missione di scavi: «Quella è una zona in cui si sono concentrati numerosi ritrovamenti di ex voto animali, non solo gatti ma anche cani e falchi, per esempio. Se fosse confermata la notizia del rinvenimento di mummie di scarabeo, allora sarebbe una grande novità sulla quale noi specialisti dovremo lavorare». È infatti questa la vera cosa insolita dell’annuncio arrivato dal Cairo e sulla quale nessuno per ora si sbilancia: negli ultimi anni dall’Egitto sono arrivate comunicazioni (archeologiche) ai limiti della spettacolarizzazione, secondo alcuni analisti diffuse anche per rivitalizzare un’offerta turistica indebolita dalle recenti turbolenze sociali e politiche.
Eppure le immagini che arrivano dal luogo del ritrovamento sono impressionanti: sagome di animali perfettamente conservati, statue di legno con sembianze feline, una scultura in bronzo dedicata alla dea gatto Bastet, un sarcofago di cobra e due di coccodrilli, statuette lignee di un leone, di una mucca e un falcone. Testimonianze di una suggestione millenaria che nasce da un unico, fondamentale istinto: la paura.
Buongarzone infatti spiega che la devozione nei confronti degli animali come i felini spesso nasce dal timore che questi incutevano e dal desiderio di esorcizzare quella forza inspiegabile. Di alcuni animali si temeva la capacità di ipnotizzare gli umani (per esempio i serpenti o certi felini). Ecco perché, in seguito, quando sono arrivate le divinità antropomorfe, alcune di queste hanno conservato un elemento animale. La più famosa è Anubi, il dio protettore delle necropoli, raffigurato come un uomo dalla testa di canide. Resta il mistero dello scarabeo, il simbolo più affascinante: rappresentava il domani, qualcosa che deve nascere. Vedremo che luce avrà.

Corriere 13.11.18
Bonisoli: assumerò 160 restauratori
E nei musei voglio i custodi laureati
Il ministro al Corriere per il Bello dell’Italia: botta e risposta con gli operatori culturali
Il made in Italy? Il concetto di oggi non basta più.
Ci vuole più ambizione su quanto possiamo mostrare al mondo
di Alessandra Fulloni


l made in Italy nell’arte e nella cultura? «È un contenitore che, per come lo intendiamo oggi, nemmeno basta più. La gente viene dall’estero per l’unicità di un patrimonio culturale sconfinato, ma oggi anche per sperimentare il nostro stile di vita, per lo shopping, per la moda. Vale la pena rifletterci ed essere più ambiziosi riguardo ciò che possiamo mostrare al mondo».
Alberto Bonisoli, ministro dei Beni Culturali (dopo essere stato insegnante di «innovation management» alla Bocconi e direttore della Nuova Accademia delle Belle Arti) pensa al futuro con un occhio importante rivolto ai problemi del presente e alle soluzioni per affrontarli. Una, assai pratica, è l’attesa assunzione di 160 restauratori. La pubblicazione della graduatoria — indispensabile per l’entrata in servizio degli specialisti addetti alla cura del patrimonio artistico italiano, circa il 70 per cento di quello mondiale — era ferma da due anni. «Venerdì è stata sbloccata» è l’annuncio dato ieri dal ministro a Milano, alla «sala Buzzati» del Corriere della Sera durante la terza e ultima tappa — le precedenti sono state a Venezia e a Matera — de «Il bello dell’Italia», la grande inchiesta, giunta al terzo anno, che scandaglia il nostro patrimonio artistico.
Le idee su cui sta lavorando Bonisoli sono tante. Si parte dalla valorizzazione delle «biblioteche di prossimità, decisive per ravvivare le periferie» e si prosegue con la formazione del nuovo personale museale: «I custodi oggi hanno in media 56 anni,la mia età. Sovente vengono da altri mondi, ricollocati da noi dopo il fallimento di grosse aziende. Sopperiscono alla mancanza di una preparazione specifica con l’entusiasmo». Ma non basta. «So che litigherò con i sindacati: ma i prossimi custodi museali — ha detto il ministro alla folta platea della sala Buzzati — li voglio tutti laureati, a conoscenza di almeno una lingua e in grado di dare importanza alla narrazione di una visita».
Credo nelle biblioteche di prossi-mità, sono decisive per ravvivare i quartieri della periferia e sono un incentivo alla lettura
A aprire il convegno, moderato da Alessandro Cannavò, Paolo Conti e Roberta Scorranese, sono stati il direttore del Corriere Luciano Fontana — «con il Bello dell’Italia abbiamo girato il nostro Paese per tre anni, dalle grandi metropoli alle piccole città: ovunque c’è qualcosa da valorizzare — e Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione Corriere emozionato nel definire «la sala Buzzati un’agorà delle idee». Incalzato dalle domande di archeologi, bibliotecari e guide, Bonisoli ha elencato le difficoltà del rilancio del suo «made in Italy». In primis il complicato rapporto tra pubblico e privato, illustrato con alcune situazione opache: appena insediato, al ministro hanno raccontato «di un bando per dare un edificio storico di grande valore artistico, vicino a Roma, in concessione ventennale. Lo Stato lo affida a una certa istituzione privata disposta a prenderlo per valorizzarlo. Ma una gara viene annullata e il canone della gara successiva è aumentato di dieci volte senza l’esistenza di riferimenti chiari». Ecco altri casi: «Abbiamo decine di concessioni di musei che sono scadute dal 2001 e vanno avanti in regime di proroga». E ancora: «Lo scorso anno abbiamo avuto un aumento dei ricavi museali lordi ma lo Stato non ha avuto un aumento dei ricavi netti perché, banalmente, da alcune di queste concessioni non sono arrivati più soldi».
La soluzione definita «radicale» è questa: «A un certo punto non ci ho capito più un granché. Così ho convocato un piccolo gruppo di giuristi, una decina circa e tutti sotto i trent’anni, di cui non voglio conoscere orientamento politico, né sapere se vedono l’intervento del privato nel mondo culturale come Belzebù, né se ritengono che tutto quello che fa lo Stato in questo settore sia sbagliato». Il loro compito sarà quello di analizzare tutti i dossier — «ce ne sono tantissimi» — su cui serve chiarezza: i risultati, attesi per fine anno, serviranno per definire le linee guida di una nuova legge. Poi la sicurezza sul lavoro, «la prima emergenza: in molte strutture mancano addirittura le certificazioni antincendio. Abbiamo stanziato 109 milioni per le migliorie». Ma i direttori dei musei? «Devono essere bravi: non mi interessa la loro lingua, ma ogni giorno devono saper parlare allo stesso modo con i baristi e i visitatori».

Corriere 13.11.18
Firenze
I ritrovamenti
La sala blindata del campanile di Giotto
di Marco Gasperetti


Una sala del tesoro, più altre tre stan-ze (una invisibile): per secoli enig-mi architettonici, che ora, svelate, raccontano una storia curiosa e impen-sabile. Sono affiorate, dopo secoli e secoli di oblio, dal Campanile di Giotto. A sco-prirle un gruppo di professori e ricercato-ri dell’università di Firenze e del Politecni-co di Torino durante una campagna di analisi e studi, mai realizzata prima d’ora sul monumento, commissionata dal-l’Opera di Santa Maria del Fiore. I risultati, che saranno presentati giovedì e venerdì durante un convegno, sono eccezionali. La sala blindata, che si trova nell’attuale ingresso del monumento (in passato l’en-trata era all’altezza del primo piano, vi si accedeva tramite un ponte dalla cattedra-le) è la Sala del Tesoro, ambiente una vol-ta protetto da una grata verticale, che cu-stodiva il patrimonio della cattedrale di Santa Maria del Fiore e dell’antica chiesa di Santa Reparata. Non è escluso che la sala fosse usata per custodire i tesori in periodi di guerre. Gli altri tre ambienti potrebbero essere servizi igienici.

Repubblica 13.11.18
Massimo Cacciari replica a Pier Luigi Cervellati
"La città non è utopia ha bisogno dei turisti"
Intervista di Raffaella De Santis


Bisogna partire da una visione realistica non dalle utopie». Massimo Cacciari risponde a Pier Luigi Cervellati, intervistato ieri su Repubblica da Francesco Erbani sulla questione dello svuotamento dei centri storici ridotti a grandi shopping center, quasi con stupore: «Ma di cosa stiamo parlando? Come si può solo pensare di eliminare i turisti dai centri storici e riportarci i residenti? Sono ragionamenti da anime belle». Per il filosofo abituato a riflettere sulla razionalità moderna e sulle trasformazioni della polis, e che è stato per anni sindaco di Venezia, la denuncia di Cervellati pecca di astrazione.
Perché le sembra irrealistico immaginare di ripopolare la città storica risanando le abitazioni?
«Sarebbe un’idea strepitosa se fosse fattibile, ma non lo è. Tutte le persone ricche e straricche che abitavano sul Canal Grande quando ero ragazzo hanno scelto di andarsene perché i costi di manutenzione di una residenza storica sono incompatibili con le tasche di chicchessia».
Cervellati propone soluzioni per non lasciare il centro cittadino solo ai supermercati o ai grandi negozi di abbigliamento.
«Sono discorsi destinati a cadere nel vuoto perché ignorano il contesto storico, economico, sociale in cui ci troviamo. Sono proposte assolutamente irrealizzabili, sia nei centri storici italiani sia in quelli di Parigi, Vienna o Londra. A Manhattan come a Trafalgar Square. Il fenomeno che viviamo in Italia è analogo a quello di tutti i centri storici delle maggiori città del mondo, dove funzioni più redditizie di quelle residenziali diventano competitive».
Sta parlando dei soldi portati dal turismo?
«Sa qual è la verità? Che molti importanti edifici del centro di Venezia e di Firenze sono stati salvati dall’attività ricettiva. Senza la possibilità di trasformarli in strutture turistiche, molti edifici importanti sarebbero crollati».
Dunque dovremmo ribaltare tutto e arrivare a dire che sono i turisti a salvare le città?
«Il turismo dà da vivere, direttamente o indirettamente, a 30- 40 mila famiglie soltanto a Venezia. È uno dei nostri massimi settori industriali, ci rende competitivi».
Ci sarà però un modo per venire a patti con la realtà senza snaturarla?
«Il problema italiano è che stiamo diventando una monocultura. Il turismo dovrebbe affiancarsi ad altro. Dovremmo riuscire a far decollare nei centri storici altre attività, direzionali e terziarie: aziende, centri di ricerca, attività di formazione, università».
I nostri centri storici spesso ospitano sedi universitarie e sono vissuti dagli studenti...
« Dobbiamo cercare di mantenere nei centri storici le funzioni di formazione e di ricerca. Ma è difficile. Offrire laboratori, servizi, campus in un centro è complicato. A Milano è in corso un grande dibattito sulla possibilità di portare o meno alcune funzioni universitarie fuori, nella zona Fiera Nuova».
Le soluzioni devono essere politiche più che estetiche?
«Possiamo solo cercare di governare la trasformazione. A Venezia c’erano due milioni di turisti all’anno negli anni Settanta, adesso ce ne sono trenta milioni. Ed è una pressione irresistibile, una domanda che continuerà a crescere. Pochi anni fa non c’erano i cinesi, non c’erano i russi. Adesso sì, a valanghe. Sarà dura. Il consumo della città aumenta vertiginosamente. Un monumento visitato da dieci persone soffre di meno di un monumento visitato da dieci milioni. Bisogna lavorare sull’organizzazione del flusso turistico, renderlo più razionale nelle città più martellate, ma certo non è pensabile disincentivare il turismo. Vorrebbe dire farsi del male, in Italia è l’unica risorsa che abbiamo».
Stiamo alle realtà allora. Come evitare che il cuore cittadino diventi un museo che la sera si svuota?
«È assurdo affrontare queste questioni di natura economica e sociale dal punto di vista dell’architetto scocciato perché vede i turisti per la strada. È fuori contesto, fuori mondo, fuori storia.
Se vogliamo resistere al deflusso dai centri storici bisogna dare alle persone la possibilità di viverci a parità di condizioni rispetto a chi vive altrove. Il costo della vita di chi abita in centro non può essere il doppio rispetto a chi abita dieci chilometri fuori. Oggi invece stare in centro ha dei prezzi altissimi.
Bisognerebbe rivedere il sistema fiscale e di agevolazioni, sia per i residenti che per le attività artigianali e commerciali».
Crede che la visione di Cervellati sia utopica rispetto allo stato di fatto?
«Non parte dalle cose, dalla realtà.
Una città come Venezia alla fine dell’Ottocento stava diecimila volte peggio di adesso. Basta dare un’occhiata alle fotografie, era decrepita, già in vista di abbandono totale da parte del patriziato, dei nobili».
Ha senso distinguere centro e periferia nelle politiche urbanistiche?
«È un discorso che ho fatto tante volte, sul quale ho scritto e riscritto.
Dov’è la città adesso? Viviamo in città infinite, senza confini. Centro e periferia sono astrazioni.Rispetto alle trasformazioni in atto, possiamo solo valutare di volta in volta come agire. Non può esserci una regola generale, stabilita da qualche programmatore di piani.
Le città si evolvono, come le lingue. Possiamo solo contrattare continuamente con la loro evoluzione. E dobbiamo farlo con arte e volontà politica. Casa per casa».

Corriere 13.11.18
Gli ebrei cancellati
Georges Bensoussan, con un saggio controcorrente pubblicato da Giuntina, riporta l’attenzione su vicende tragiche che molti preferiscono non affrontareLa sua posizione gli ha attirato in Francia accuse di islamofobia e razzismo
di Paolo Mieli


tra gli arabi dilagava l’antisemitismo
molti anni prima che nascesse israele
Sotto l’occupazione tedesca della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) alcune case di ebrei furono saccheggiate e alcune donne ebree furono stuprate da musulmani. «In generale gli autori di queste violenze furono incoraggiati dai tedeschi», ha scritto Norman Stillman anche se, «temendo disordini di maggiore ampiezza, il comandante tedesco intervenne per mettere fine a quegli incidenti». Quegli «incidenti», in ogni caso, furono ricondotti — in tema di responsabilità — all’occupazione nazista. Ma lo stesso Stillman notò, non senza sorpresa che «i saccheggi di case ebraiche ad opera degli arabi furono più gravi dopo che i tedeschi si ritirarono dalla città». Proprio così: le violenze antiebraiche in Tunisia nel corso della Seconda guerra mondiale sono cresciute dopo il ritiro dei nazisti. E quando arrivarono gli Alleati, Philip Jordan, corrispondente di guerra britannico, scrisse che «tutti gli ebrei della città avevano subito saccheggi dagli arabi e che erano state rubate persino porte e finestre». Anche, se non soprattutto, dopo che i soldati con la svastica se n’erano andati.
Come mai? E perché subito dopo il mondo arabo si è svuotato dei suoi ebrei nel corso di appena una generazione (1945-1970)? Tra l’altro quasi senza espulsioni palesi, eccetto l’Egitto… Perché questo strappo così rapido da una terra sulla quale gli ebrei vivevano da oltre duemila anni? Georges Bensoussan ha scritto un libro, Gli ebrei del mondo arabo. L’argomento proibito, che sta per uscire da Giuntina, nel quale analizza le vessazioni a cui sono stati sottoposti gli israeliti in quell’area geografica da molto prima che esplodesse il conflitto tra Israele e i palestinesi. Gli ebrei sono stati costretti ad abbandonare quelle terre in una misura davvero rimarchevole: se ne dovettero andare novecentomila persone nel secondo dopoguerra, nell’arco di poco più di due decenni. Un esodo che, secondo Bensoussan, «mise fine ad una civiltà bimillenaria, anteriore all’Islam e all’arrivo dei conquistatori arabi». Come è potuto accadere? «Più del sionismo e della nascita dello Stato di Israele», risponde l’autore, «sono stati l’emancipazione degli ebrei attraverso l’istruzione scolastica e l’incontro con l’Occidente dei Lumi a provocarne la scomparsa in quei Paesi, quindi il loro riscatto, un evento inconcepibile per l’immaginario di un mondo in cui la sottomissione dell’ebreo aveva finito per costituire una pietra angolare». Generalmente, scrive Bensoussan, «ci dicono che le società ebraiche d’Oriente sarebbero declinate con il conflitto arabo-israeliano e che l’antigiudaismo arabo sarebbe una ricaduta del conflitto palestinese». Ma «questa tesi è smentita da moltissimi testimoni occidentali riguardo agli anni 1890-1940, siano essi amministratori coloniali, militari, medici, giornalisti o viaggiatori». Tutti raccontano «della virulenza di un sentimento antiebraico, ad ogni evidenza variabile a seconda delle regioni e dei periodi, senza connessione alcuna con la questione palestinese».
Bensoussan è uno storico francese ebreo nato nel 1952 in Marocco. Timido, ha sempre scelto di starsene in disparte. Non ha mai amato il palcoscenico letterario. Fino al 2015 non godeva, anzi, di grande notorietà, nonostante avesse scritto diversi libri, avesse ricevuto importanti premi, fosse stato nominato direttore editoriale del Mémorial de la Shoah. Che cosa è allora che lo ha portato alla ribalta nel 2015 quando aveva 63 anni? Nel corso di una trasmissione radiofonica su France2, Répliques, gli sfuggirono (o forse le pronunciò intenzionalmente) le seguenti parole: «Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia — è risaputo ma nessuno vuole dirlo — l’antisemitismo arriva con il latte materno». Era la citazione di un ragionamento altrui, anche se ad ogni evidenza Bensoussan lo condivideva nel merito. Comunque sarebbe passata inosservata se non fosse sceso in campo il «Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli», accusando lo storico d’aver fatto sue «parole antiarabe e razziste» per di più «in un servizio pubblico». Il Movimento chiese alla radio nonché ai responsabili del Mémorial di prendere le distanze da Bensoussan, e lo trascinò per ben due volte in giudizio. Radio e Mémorial lo misero in quarantena assai prima della sentenza definitiva e pochi solidarizzarono con Bensoussan: tra questi meritano di essere ricordati Pierre Nora, Alain Finkielkraut e, dall’Algeria, Boualem Sansal. Dopodiché la sua vita fu praticamente distrutta. Infine nel 2018 è arrivata la definitiva assoluzione, ma ormai sarebbe stato difficile per lui recuperare una qualche serenità. Ma, con ostinazione, Bensoussan ha continuato a studiare le condizioni in cui gli ebrei vivevano nel mondo arabo quando lo Stato di Israele non era ancora neanche all’orizzonte. Mettendo in evidenza anche i (pochi) caratteri positivi di quella coabitazione con il mondo musulmano. In un quadro per il resto agghiacciante.
All’inizio del XVI secolo il frate francescano Francesco Suriano descriveva con queste parole la vita degli israeliti in Palestina: «Questi cani, gli ebrei, sono calpestati, picchiati e tormentati come meritano. Vivono in questo Paese in una condizione di sottomissione che le parole non possono descrivere. È una cosa istruttiva vedere che a Gerusalemme Dio li punisce più che in ogni altra parte del mondo. Ho visto questo luogo per lungo tempo. Essi sono anche uno contro l’altro e si odiano, mentre i musulmani li trattano come cani… Il più grande obbrobrio per un individuo è di essere trattato da ebreo». E ancora: «Ovunque — scrive nel 1790 l’inglese William Lemprière a proposito degli ebrei di Marrakech — sono trattati come esseri di una classe inferiore alla nostra. In nessuna parte del mondo li si opprime come in Berberia… Malgrado tutti i servigi che gli ebrei rendono ai mori, essi sono trattati con più durezza di quanto farebbero con i loro animali». La stessa immagine che usa l’abate francese Léon Godard nel 1857, di ritorno da un viaggio: «Gli ebrei in Marocco sono considerati tra gli animali immondi… La tolleranza dei prìncipi musulmani consiste nel lasciare vivere gli ebrei come si lascia vivere un gregge di animali utili». «Se un musulmano li colpisce», prosegue Godard, agli ebrei «è proibito, pena la morte, di difendersi eccetto che con la fuga o con la destrezza».
A ridosso della Seconda guerra mondiale, il Marocco fu relativamente al riparo dalle esplosioni di violenza antiebraica. Molto relativamente. Nel Maghreb, qualcuno sostiene, la popolazione musulmana non avrebbe gioito per le misure antiebraiche promulgate da Vichy. Avrebbero perfino manifestato solidarietà nei confronti dei perseguitati. Ma secondo Bensoussan (e con lui, adesso, la maggioranza degli storici) «la popolazione musulmana tutt’al più rimase indifferente». In Tunisia (finché fu una colonia) le autorità francesi fingevano di non vedere le persecuzioni antiebraiche per evitare di affrontare la maggioranza araba. Lo stesso accadde in Marocco dopo i pogrom di Oujda e Jérada (giugno 1948): le stesse autorità francesi raccomandarono a quelle locali «di usare indulgenza» (nei confronti dei responsabili degli atti antiebraici) al fine di «evitare ogni esplosione di violenza da parte araba».
E nel secondo dopoguerra dopo la nascita dello Stato di Israele (1948)? Ad eccezione dell’Egitto, sostiene lo storico, non ci sono state praticamente espulsioni di ebrei dal mondo arabo. E la Tunisia è stato il Paese più tollerante. Qui la Costituzione del 1956 assicurava che gli ebrei erano cittadini come gli altri e potevano «esercitare qualsiasi professione». Tuttavia «dovevano sempre aspettare più degli altri le necessarie autorizzazioni amministrative» e, per così dire, «elargire più bustarelle». Anche sotto la guida del presidente Bourghiba, gli ebrei furono a poco a poco estromessi dai posti più importanti («eccetto che al Ministero dell’Economia dove non c’erano musulmani competenti per rimpiazzarli»).
Nel 1960 gli ebrei rappresentavano ancora il 14% della popolazione di Tunisi, ma nel Consiglio comunale della capitale ce n’erano solo due su sessanta membri (il 3%). Poi venne la «guerra dei Sei giorni» (1967) e per gli israeliti furono dolori. Scriveva — in una lettera del 7 giugno 1967 a Georges Canguilhem — Michel Foucault che all’epoca insegnava all’università di Tunisi: «Qui lunedì scorso c’è stata una giornata (una mezza giornata) di pogrom. È stato molto più grave di quanto abbia detto “Le Monde”, una cinquantina buona di incendi. Centocinquanta o duecento negozi — ovviamente i più miserevoli — saccheggiati, lo spettacolo della sinagoga sventrata, i tappeti trascinati per strada, calpestati e bruciati, gente che correva per le strade si è rifugiata in un edificio al quale la folla voleva dar fuoco. E poi il silenzio, le saracinesche abbassate, nessuno o quasi nel quartiere, i bambini che giocavano con le suppellettili rotte… Quanto successo appariva manifestamente organizzato… Se poi a questo si aggiunge che gli studenti, per “essere di sinistra” hanno dato mano (e un po’ di più) a tutto questo, si è abbastanza tristi. E ci si domanda per quale strana astuzia (o stupidità) della storia il marxismo ha potuto dare occasione (e vocabolario) a tutto ciò».
Al Cairo, nel 1927, dall’oggi al domani, la legge egiziana chiude agli ebrei l’accesso agli impieghi pubblici. Qui nel 1950 (ben diciassette anni prima di quel che si sarebbe venuto a creare dopo la guerra dei Sei giorni), Sayyd Qutb, successore di Hassan el-Banna a capo dei Fratelli musulmani, pubblicò un manifesto, La nostra battaglia contro gli ebrei, che conteneva parole inquietanti. «Gli ebrei», si poteva leggere in questo testo, «hanno ricominciato a fare il male… Allah inviò loro Hitler per dominarli; poi la nascita di Israele ha fatto provare agli arabi, i proprietari della terra, il sapore della tristezza e della sofferenza».
In Siria dopo il 1945 imperversa una violenza antiebraica che spinge la maggior parte dei 15 mila ebrei del Paese ad andarsene; tutte persone che sono poi scomparse da ogni «memoria ufficiale». Nei confronti degli ebrei rimasti si ebbero attentati come la bomba che colpì un’istituzione ebraica a Damasco nel 1948,e le altre che nel corso dell’estate di quello stesso anno, uccisero decine di israeliti. Analoghe violenze si ebbero in Yemen. In Libia rimasero solo cinquemila ebrei su trentacinquemila e questa minoranza «fu progressivamente spinta a partire, strangolata socialmente e assoggettata a un clima di paura». A Tripoli nel 1961 la legge stabilì che a ogni ebreo che intrattenesse «rapporti ufficiali o professionali» con Israele (vale a dire, per la maggior parte dei casi, con i loro connazionali trasferitisi nello Stato ebraico) sarebbero stati confiscati i beni.
Ma perché di tutto questo si comincia a parlare in modo esplicito soltanto adesso? La storia degli ebrei del mondo arabo, risponde Bensoussan «è stata a lungo confiscata». Il più delle volte è stata scritta da degli ebrei di corte ed è per questo che solo recentemente si è emancipata dalla visione irenica di un tempo. A lungo il racconto ufficiale illustrava un universo sereno di un “mondo che abbiamo perduto”, una visione storica unita a un pensiero consolatore, «tanto grande era il dolore di mettere a nudo una vita da dominato». Più si scendeva in basso nella scala sociale e «più la memoria ebraica diventava dolorosa», mentre coloro che coltivavano una memoria felice, «il più sovente provenivano da ambienti agiati, dove i contatti con il popolino musulmano erano generalmente limitati al personale di servizio». Accade così, conclude lo studioso, che «scrivere la storia degli ebrei dell’Oriente arabo mette a nudo i rapporti di servitù mascherati da racconti folcloristici». Una complicazione che ha fin qui impedito di raccontare la vera storia degli ebrei nel mondo arabo.