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l’espresso 25.11.18
Satira preventiva
Michele Serra
Emergenza rifiuti? Colpa della chiesa
Secondo il noto antropologo Levi-Pumpkin, l’accumulo è frutto del culto delle reliquie tipico della religione cattolica
Al di là delle sterili polemiche e dei titoloni di giornale, è importante mettere un poco di ordine nel derby in atto tra fautori del compostaggio e fan degli inceneritori. È una questione seria, che ha radici antiche, molto interessanti anche dal punto di vista culturale; ma va riesaminata senza pregiudizi, e su basi scientifiche.
Nuove frontiere
I nuovi, modernissimi impianti IL (Inceneritùr Lumbard) sono di una efficienza innegabile. Senza tante menate, e con le maniere spicce che sono tipiche di chi non ha tempo da perdere, personale molto qualificato butta in una enorme fornace tutto quello che gli capita sotto tiro. «Si tratta di papà e di mamme - spiega Salvini in un tweet - e dunque non dovete rompere i coglioni». Secondo gli esperti il sistema è in grado di distruggere fino a diecimila tonnellate di rifiuti al giorno, ricavando energia per alimentare capannoni in grado, a loro volta, di produrre almeno ventimila tonnellate di rifiuti al giorno. Il classico circolo virtuoso, con un raddoppio costante della produzione. Minime le ricadute negative, una vecchia con il carrello della spesa che aveva sorpassato per errore il muro di cinta, qualche cane senza tatuaggio, qualche clandestino con tatuaggio. Dettagli che non lasciano traccia nel processo di combustione.
L’alternativa
La risposta dei Cinquestelle tiene insieme tradizione e innovazione. Si tratta di utilizzare le buche di Roma, alcune delle quali risalenti a Caracalla e molto capienti, per il compostaggio dei rifiuti, ottenendo un doppio risultato: riempire finalmente le buche e, dopo circa un anno di attesa, ricavarne una quantità di fertilizzante sufficiente per concimare Villa Borghese. Il passaggio del traffico è utile per tenere ben pressate le eventuali montagnole prodotte dalla fermentazione dell’organico. I fumi sulfurei e le continue, piccole detonazioni causate dalla trasformazione del compost, sono inavvertibili: il passaggio degli autobus a carbonella utilizzati dall’Atac basta ampiamente a coprire tanto il cattivo odore quanto il fracasso.
La Chiesa
La posizione della Chiesa non è mutata lungo i secoli. Nel Concilio di Pamplona (ottavo secolo) papa Grovillo, confermando l’anatema contro la cremazione, aveva ribadito che la sola pratica lecita era la sepoltura dei rifiuti ancora intatti. L’impressionante accumulo di rifiuti del nostro Meridione, secondo il noto antropologo Levi-Pumpkin, è un segno tangibile del culto delle reliquie tipico della tradizione cattolica. Solo con la Controriforma anche il rogo viene valorizzato come efficace sistema di smaltimento ma limitatamente agli eretici: i classici rifiuti speciali. I fumi tossici prodotti dagli eretici (secondo il cardinal Bellarmino molto superiori alla media) erano considerati la prova indiscutibile della loro malvagità. La proposta di smaltimento degli eretici mediante compostaggio, avanzata dai cardinali grillini, venne bocciata per non contaminare i terreni con terriccio impuro.
L’Europa
Le normative europee sono chiarissime. Contenute in un regolamento in tre volumi, consultabile anche in rete (www.eurogarbage.com) stabiliscono, rifiuto per rifiuto, l’iter corretto di smaltimento. Una carota ammuffita, per esempio, se di lunghezza inferiore ai tredici centimetri va consegnata agli addetti comunali in apposita busta biodegradabile; se superiore, conservata nel contenitore domestico per sole carote, di colore verde (quello arancione è per la lattuga), in attesa del bando per il ritiro. La limatura di legno prodotta dai temperamatite deve essere separata dai resti di grafite con una lente di ingrandimento e una pinzetta che vengono fornite gratuitamente, su richiesta, dalle amministrazioni locali. E così via.
Il Pd
Il partito non ha una posizione univoca sulla questione. I renziani puntano su una app, facilissima da installare, grazie alla quale si possono individuare i rifiuti, ovunque essi siano, e comunicare sui social la loro posizione esatta. In una seconda fase, si penserà a come smaltirli. Il resto del partito è diviso tra incenerimento, compostaggio, evaporazione, ceramizzazione, rassegnazione.
I negazionisti
Sul web si fa strada l’ipotesi che i rifiuti non esistano, e siano una montatura dei poteri forti. Abbiamo chiesto alla senatrice dei cinquestelle Di Pamela, sostenitrice della teoria: perché reputa che i rifiuti siano una montatura dei poteri forti? Ci ha risposto: perché sì.
l’espresso 25.11.18
È l’età dei neo-cinici Trump, Putin, Orbán. Sulla scia di Diogene, Socrate, Dostoevskij. Lo sguardo del filosofo tedesco sui sovranisti di oggi
colloquio con Peter Sloterdijk
di Stefano Vastano
Se provassimo a prenderli sul serio, a quale scuola filosofica apparterebbero Trump e Salvini, Putin o Marine Le Pen? «Tutti i sovranisti si rifanno ad una antropologia cinica e depressa», risponde Peter Sloterdijk. Non è un caso se uno dei più prestigiosi filosofi tedeschi torni alle antiche tradizioni del cinismo per inquadrare «l’incoerenza performativa» in cui si cacciano oggi i sovranisti con le loro spietate balle quotidiane.
Già nel 1983 infatti, nel suo famoso saggio “Critica della ragion cinica”, Sloterdijk ricostruiva, da Diogene di Sinope alle crisi della Repubblica di Weimar, le varie derive del cinismo nella cultura e politica occidentale. E in questa intervista esclusiva per “L’Espresso”, Sloterdijk ridisegna, in tutte le sue aporie, la fenomenologia del sovranista trionfante, «che altro non è se non il cinismo, ma nella sua forma più inconsistente giunto al potere», sintetizza il filosofo. Il cui ultimo saggio, appena pubblicato da Cortina Editore, si intitola non a caso: “Dopo Dio”. Ripartiamo da Diogene di Sinope, il filosofo più sfrontato della storia.
Qual era il messaggio del padre di tutti i cinici?
«Il messaggio di Diogene risale al nucleo più antico del pensiero greco e cioè a una filosofia della Natura, da una oscura divinità - la Moira, poi secolarizzata in “physis” - precedente all’Olimpo delle divinità!».
È questa Natura che spinse Diogene a vagare nudo e solo come un cane per le strade di Atene? «Con il suo comportamento Diogene riportava alla luce la contrapposizione fra Natura e Nomos, le leggi e convenzioni umane che altro non sono, ai suoi occhi, che appendici arbitrarie dell’ “ordine naturale” e di una vita ad esso ispirata».
Con la sua esistenza nomade e animalesca Diogene ridicolizza le norme sociali?
« Sì, lui è una sorta di Charlot, un meteco o migrante dall’Asia minore che non si piega alle norme della polis e della democrazia ateniese. Diogene è il primo individualista radicale della storia che nell’Atene platonica rivendica l’Anarchia della vita semplice. La maggioranza non ha ragione, ecco il suo urlo».
Anche Socrate urlerà lo stesso principio contro le tradizioni ateniesi, pagando persino con la vita... «Già, ma in Diogene, contrariamente all’arte maieutica socratica e contro l’astrazione platonica, è l’eccesso performativo, la pantomima che conta e non il dialogo filosoico. Nella sua ultima lezione, Michael Foucault analizzò la “parrhesia”, la sfrontata arte di affrontare - con virile franchezza - l’autorità dell’avversario, anche il più potente. Non è un caso se l’incontro tra Diogene ed Alessandro, in cui il filosofo prega l’imperatore di togliersi dal sole, è uno degli aneddoti più famosi dell’antichità».
Anche la filosofia dei Lumi, come il Logos platonico, si basa sul presupposto per cui ogni sapere è potere. L’attualità del cinismo sta nel smascherare come pia illusione questa fede illuministica?
«Il cinismo rispunta ogni volta in cui la politica della città entra in crisi e i valori comuni si sfaldano. In questo senso il primo cinico dell’era moderna è il “Nipote di Rameau”, lo spudorato adulatore che Denis Diderot mette in scena nel suo dialogo satirico. Un buffone verace almeno quanto il Mefistofele di Goethe, altra dissacrante figura nella galleria del moderno cinismo».
Nulla in confronto al radicale cinismo del Grande Inquisitore, la figura che Dostoevskij racconta nei Karamazov e che scaccia persino Cristo dalla città...
«Il cinismo dell’Inquisitore di Dostoevskij è così viscerale perché smentisce non solo l’equazione illuminista “Sapere è Potere”, ma nega la premessa di ogni società liberale e dell’antropologia occidentale. L’Inquisitore infatti sostiene l’oscura e profondamente russa tesi secondo cui l’uomo è troppo cattivo per essere libero. Per questo l’uomo non abbisogna di un Cristo, ma della mano forte di una ascetica élite che garantisca quella costante repressione senza cui presumibilmente la società non può sopravvivere. Inutile specificare quanto questa politologia negativa sia la base su cui oggi si regge il sistema di un Putin».
La sintonia tra il regime autocratico di un ex spione del Kgb come Putin e le alte sfere della chiesa ortodossa sono la realizzazione, nella Russia del 21° secolo, della Leggenda di Dostoevskij? «Esatto, e la leggenda su cui Putin fonda oggi il suo potere non ripete che l’altra ipercinica massima secondo cui è il mondo stesso che altro non chiede che di essere ingannato».
Il filo che unisce l’Inquisitore ad ogni demagogo di turno è il fatto che autocrati come Putin sanno benissimo di mentire ai sudditi, ma nel loro cinismo continuano beatamente a farlo?
«Quando un oligarca come Putin declama le massime della sua negativa politologia sa benissimo che sta mentendo. D’altra parte i due assiomi dell’Inganno come base della politica e della Malvagità umana come negazione d’ogni libertà possono esser le tesi anche di un dissidente disperato. Cos’è il cinismo o il populismo di oggi se non la massima depressione al potere? Una radicale depressione politica che l’astuto populista nasconde dietro un sistema di bugie e una serie di maschere».
Benché onnipotenti i demagoghi hanno bisogno di nascondersi dietro sempre nuove bugie e maschere: perché?
«Perché nessun populista, per quanto sadico e istrione, può davvero credere nelle sue convinzioni o sentirsi in pace con se stesso. Oltre che sulla depressione ogni suo atto e parola si fonda su uno iato o incoerenza inerente alla sua stessa posizione. Donald Trump ad esempio è un mefistofelico Maestro del neocinismo contemporaneo. Ma anche la sua politica, altamente depressiva, si basa sul fatto che Trump deve mentire quotidianamente, e non dar retta neanche per un minuto alle verità che sistematicamente nega. Un presidente Usa che incarna alla massima potenza il dramma dell’assoluta incoerenza del cinismo giunto al potere».
Ma un potere che come questo si fonda su Fake News, cioè menzogne spacciate per “fatti“, non è il paradosso assoluto?
«Il collante che dà coerenza ad ogni società è il fluido della fiducia. Da un punto di vista operativo le società sono connesse dalla circolazione del denaro e sulla fiducia che una vita in comune esista. Sia il denaro che i valori però conoscono forme di corruzione: Stato e banche possono accumulare debiti o dare crediti che creano inflazione e quindi una demoralizzazione collettiva dei cittadini. Le ondate di inflazione in Germania hanno creato nei tedeschi quel loro carattere depresso o così moraleggiante quando è in ballo il denaro».
Che c’entra l’inflazione con il populismo al potere?
« Una cosa è la corruzione via inflazione del denaro, un’altra la corruzione dei valori etici dei cittadini nelle fasi ciniche della storia. In queste fasi corrosive come quelle che oggi stiamo vivendo sono soprattutto i più deboli a guardare con totale sfiducia alla “casta”. Da sistemi di fiducia le società si trasformano in “menzogne organizzate” su due fronti: il cosiddetto popolo dei populisti da un lato, e l’élite dall’altro. È in questo bagno acido della sfiducia che nasce e cresce la sfrontatezza del populista».
L’epoca d’oro in cui in Europa esplosero svalutazioni del denaro e sfiducia massima nelle élite è la Repubblica di Weimar, la Germania tra il 1918 e l’avvento del nazismo nel ’33...
«La Repubblica di Weimar è nata dalla catastrofe della Grande guerra. Dalle guerre, come la storia americana insegna, sono nate democrazie solo se erano guerre di liberazione. Ma il problema di Weimar fu che la sua costituzione non vide il dramma dei piccoli partiti nazionalisti che minavano le sue fondamenta liberali. Sono questi partitelli di protesta che fomentano la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni che finisce per portare al potere i populisti».
Sfiducia a parte, qual è il fattore del successo di tutti i populisti di ultra destra oggi in Europa?
«Il sincretismo. Se c’è un elemento che accomuna l’odierna Alternative für Deutschland alla Nspd di Hitler è il mix che mischia elementi di sinistra e di destra, veleni razzisti ed aspetti progressivi, una cruda Real-Politik con una sfrenata Irreal-Politik. Il populismo è sempre anti-elitismo, e la democrazia per definizione sempre in crisi. In una fase di crisi acuta, basta una figura un po’ carismatica ma ipercinica per sbarcare con questo mix sincretico al potere».
Orbán in Ungheria, Le Pen in Francia, Foto: C. Hellier - Corbis via Getty Image, VCG Wilson - Corbis via Getty Images, Getty Images Salvini in Italia o la Afd in Germania, tutti i populisti di destra vogliono alzare ora muri in Europa per difenderci da migranti e insicurezze varie. Perché il tema della sicurezza agita tanto le nostre coscienze?
«Nella psicopatologia politica agiscono due poli opposti, quello della libertà e della sicurezza dall’altro. La libertà dei consumi, di opinione, dell’emancipazione dei costumi, e l’imperativo della immunità che tira il freno alle libertà dell’individuo e del corpo sociale. La sicurezza si fa dominante quando, in una crisi, c’è gente che ha qualcosa da perdere. I partiti popolari non sono riusciti a togliere queste paure alla gente ed è su questo tasto che i populisti ripetono, come il Grande Inquisitore, che l’uomo non è buono abbastanza per essere libero».
Non è una novità se, nel 1576, Etienne de la Boétie nel suo “Discours de la servitude volontaire” notava che tutti abbiamo paura della libertà ed altro non vogliamo che esser guidati da un Uomo forte...
«Negli ultimi 250 anni non abbiamo fatto altro che sperimentare due tesi antropologiche complementari: questa pessimista di la Boétie, ma anche, a partire da Rousseau, l’assioma ottimista secondo cui l’uomo è buono abbastanza per esser libero. Non sappiamo come finisca il test: il 20° secolo con le sue dittature è costellato da conferme delle tesi dell’Inquisitore per cui l’uomo è uno schiavo ribelle, ma che teme la rivolta. Il profilo dell’Homo sapiens disegnato da Boétie è ancora più duro, visto che per lui coloro che più soffrono la miseria sono, contrariamente a ciò che Marx crederà, il veicolo migliore della diffusione di repressione e violenze».
I populisti sono quindi oggi al potere per reprimere “l’uomo in rivolta” di Camus...
«I nipotini dell’Inquisitore oggi al potere sono gli studenti peggiori che si rivoltano contro quelli più bravi di loro, contro gli insegnanti e la scuola stessa. Sono i dilettanti, ma senza nessun diletto per la cultura né capacità, e per questo amati dai loro fans. L’entusiasmo nell’era di Internet è sempre orizzontale, non ci sono ideali superiori da raggiungere o emulare per i fan di Trump o dei demagoghi populisti».
Joschka Fischer, uno dei fondatore dei Verdi tedeschi, sognava gli Stati uniti d’Europa. Che ne è di questi slanci nell’era distopica del cinismo?
«Attraversiamo una fase melanconica per quanto concerne l’entusiasmo. La maggior parte dei Paesi europei sono in uno stato ipnotico di disinformazione mitologica, ognuno si immagina di esistere da sempre come Nazione e i populisti pompano miti in queste presunte sfere di egoismi nazionali. Tutte immagini infondate, visto che l’Europa più che altro è stata una storia di conglomerati imperiali».
Il suo ultimo saggio s’intitola: “Dopo Dio”. Che ne è del sommo Bene nell’era del cinismo trionfante?
«Goethe nel Faust fa porre a Greta la domanda: “Come stai tu a religione?” Sei affidabile, cioè sposabile? Anche oggi aspiriamo, come Greta, a venir sposati, a vivere con Dio in rapporti più stabili. Nel nostro estremo bisogno di sicurezza, su cui tanto insistono i populisti, Dio ci appare come una polizza, l’assicurazione metafisica suprema. Certo che questa figura di un Dio che si presta a transazioni finanziarie non è il massimo dal punto di vista teologico né da quello politico, ma anche nella nostra epoca Dio resta “un bisogno metafisico”, come diceva Schopenhauer». Nietzsche si era sbagliato con il suo letale annuncio: «Dio è morto»?
«La metafora è sbagliata, può morire solo ciò che ha un organismo. La questione non è tanto se esista o no, quanto se la domanda di Dio sia importante o meno. E certo oggi la Chiesa non ha più un regno territoriale, ma la funzione “imperiale” simbolica del pontefice romano a quanto pare è ancora presente».
l’espresso 25.11.18
Quello che le donne dicono
Guidano le proteste. Inventano parole. Scendono in piazza non solo a difesa del loro corpo, ma contro razzismi e fascismi. Mentre si celebra la Giornata contro la violenza sulle donne, la voce femminile occupa spazi nuovi donne dicono
di Caterina Serra
Le donne sono agitate. State un po’ calme, fate le brave. Sì, sì, avete ragione, basta che stiate zitte. Cosa credete di fare, cambiare il mondo? Se è sempre andata così ci sarà un motivo, no? Va bene, non le vuole nessuno, non c’è nessuno a cui sembri normale oltre che legittimo che tocchi anche un po’ a loro, senza principi di esclusività. Dubitano che possano prendere una decisione e che prendano quella giusta. Temono che sbaglino, anzi, quello che non ammettono è che possano sbagliare. Soprattutto, ciò che disturba da sempre è che non chiedano permesso, che siano libere. Nella sfera privata e in quella pubblica danno fastidio. Semmai hanno il dovere di essere più brave, più oneste, più calme e pacifiche, perché, viene detto loro in da piccole, più capaci di umanità, generosità, amore, per natura. La donna-natura è, deve essere, accogliente. Ne è manifesto la sua stessa fisicità. Il corpo concavo, cavo, custode (sic) della vita, un corpo che pende, dipende, va verso l’altro, incline (all’uomo retto, e-retto?), felice di farlo. Le donne non hanno bisogno di essere libere per essere felici. L’alternativa è sempre stata lo stigma, quello più o meno, sintetizzo, di puttana. La libertà sessuale delle donne, la loro autodeterminazione, è uno spauracchio, un tabù. Le parole di ogni narrazione, dall’epica alla propaganda pubblicitaria, l’hanno raccontata come una colpa, un peccato, una malattia. Le donne libere non piacciono perché non si offendono, anzi, ci ridono sopra, o deridono chi glielo urla in faccia in privato e in pubblico. Ribaltando: puttane sono tutte le donne che decidono di sé, del proprio desiderio, del proprio destino. Non vorremmo esserlo tutte? L’ideologia patriarcale chiude le porte del mondo alle donne raccontando al mondo la favola della loro tranquillità, della loro innata remissività. Costringe le donne a non esprimere idee e pensieri chiamando il silenzio pudore, mansuetudine, capacità di mediazione. Inculca da secoli a loro, e agli uomini, che le donne sono fatte per il sentimento (come se questo non fosse legato al pensiero!), fa credere che il desiderio vada suscitato non espresso, che la passione vada mascherata non fatta esplodere - da qui tutto un femminile che fa propria una seduttività che asseconda il piacere, la visione del piacere, la soddisfazione del piacere. Altrui. Pena, il senso di colpa. Ancora, chiama da sempre senso materno il dovere di una riproduttività necessaria, addomesticando le donne, inchiodandole ai miti della verginità, della maternità o di una seduttività codificata. Ha erotizzato la violenza legittimando il potere di agire e pensare senza considerare l’oggetto desiderato un soggetto desiderante. Come? Usando il linguaggio. Chiamando innocenti parole crudeli, lusinghiere quelle offensive, amorose quelle della prevaricazione, del dominio e dell’abuso, tinteggiandole dei colori romantici della passione, della follia d’amore. Chi racconta ha il potere di nominare l’oggetto della sua narrazione, di decidere chi è l’altro. Nel caso del patriarcato è un potere umiliante, degradante, violento, omicida. Perché le parole hanno corpi che le porgono, le buttano addosso, le sbattono contro. Non esistono senza carne e sangue intorno. Hanno a che fare con l’apparizione. È per questo che dipendono da chi le pronuncia. È per questo che le rivendicazioni sono fatte in nome del corpo - protezione dalla violenza, nutrimento, mobilità, libertà di espressione. Le forme che le donne hanno dato alla volontà di smascherare e smontare il potere da dentro come un vecchio giocattolo sono ancora le stesse e forse ce ne vorrebbero di nuove, meno reattive, più agenti, visti i tempi. Le donne si agitano manifestando, riunendosi in assemblea, scrivendo, creando con i saperi dell’arte, facendo del loro gesto pubblico un atto politico. Ci mettono la voce e il corpo. Basterebbe leggerle, studiarle, guardarle. Hanno inventato e inventano parole nuove per definire la loro presa di parola, per uscire dalle case, da cucine millenarie - ho visto donne infilare un tavolo in un ripostiglio (altro che stanza, cara Woolf!) per farsi spazio, per dare a sé stesse un luogo del pensiero, della presenza. L’ho visto l’altro giorno, non secoli fa. Il fatto è che non possono smettere. Anzi, devono ricominciare dietro ogni porta chiusa o aperta al compromesso. Perché ancora si sentono dire che è normale picchiarle, zittirle, molestarle, ammazzarle un giorno sì un giorno no. Se fosse una donna a uccidere un uomo ogni due giorni qualcuno griderebbe allo stato d’emergenza, militarizzerebbe le città, piantonerebbe le strade e i pianerottoli. La verità è che una donna libera è ancora una donna di cui parlare, sparlare, da punire, umiliare in varie forme seppur ludiche, goliardiche (lo scherno è un modo di delegittimare deresponsabilizzandosi). E nonostante ci siano donne al potere sono ancora così poche quelle che per essere lì non devono soggiacere (giacere?) a un tipo di trattamento da donne, non devono ossequiare il maschio di turno che si permette di parlare per loro, non devono subire insulti, indifferenza, commenti, ogni tentativo di rovesciare vecchie gerarchie. Susan Sontag credeva che l’emancipazione delle donne non comportasse solo la parità dei diritti, ma la parità dei poteri. Non solo quelli economici, che già!, ma quelli di parola, di pensiero, che vuole dire agire per come si desidera, a partire da sé. I movimenti femministi di questi ultimi anni sono diversi e molteplici, ma una cosa hanno in comune, non sono solo concentrati a difendere i diritti delle donne, sono antisessisti, antirazzisti, antifascisti, hanno tutti una visione politica sociale economica del mondo che contrasta il sistema patriarcale su cui poggia saldo il capitalismo nelle sue varie forme. Di recente in un incontro pubblico si discuteva di relazioni amorose e non a caso dopo pochi minuti si è passati alla violenza che le informa. Antonio Moresco suggeriva che sarebbe tempo di definire un patto tra gli uomini e le donne, se vogliamo uscirne vivi. Vive, volevo suggerire. Un patto che dia loro strumenti per capirsi, per convivere condividendo il potere senza sopraffazioni, per volersi senza dominarsi, per amarsi o non amarsi più senza farsi male. Bene, no? mi sono detta - anche se forse il binarismo donne uomini ha fatto un po’ il suo tempo. In ogni caso, perché non ci è venuto in mente prima, c’era qualcosa che ce lo ha impedito? Non sarà che un altro patto, quello fra gli uomini, ha funzionato benissimo finora? Quell’antico patto che li legittima e non li fa mettere mai su un piano di revisione, ripensamento, quel patto che li salva, non fa puntare il dito uno contro l’altro, che li giustifica e li esalta quando non sanno come fare con, nel peggiore dei casi cosa farsene di, donne che danno fastidio con la loro libertà, che non chiedono il permesso. Il nuovo patto tra gli uomini e le donne, e tutti gli altri, aggiungerei, si stringa sciogliendo prima quel vecchio e mai così minaccioso patto che è il patriarcato.
l’espresso 25.11.18
Resistenza a porte aperte
Collettivi, reti, librerie. Da Nord a Sud il femminismo è vivo. Conquista le più giovani. E tiene alta la voce contro il patriarcato
di Cristina Da Rold
Patriarcato. È un arcipelago tutt’altro che omogeneo quello dei femminismi italiani. Ma se c’è una parola che li accomuna è questa. Vanno in cerca della libertà, le donne. E se “libertà da” è terreno comune, riguardo alla “libertà di” gli orientamenti sono diversi, diversi gli approcci alla lotta. Unanime è però l’impressione che il femminismo stia rivivendo una stagione di forte propulsione, da Nord a Sud, anche fra le più giovani. «O è un po’ visionario, un’utopia concreta, o non è femminismo», dice Sara Fichera del Collettivo RIVOLTApagina catanese. Case delle Donne, collettivi, reti, librerie. L’elenco è lungo, e il progetto Rete delle Reti ha creato una prima mappa di questi luoghi. Ci sono reti che aggregano realtà diverse e danno vigore alla lotta femminista, come Non Una Di Meno, attiva dal 2016, e D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, che comprende ottanta centri antiviolenza italiani. Al centro le donne, anche con approcci diversi. «La nostra è una lotta per la libertà femminile e per la valorizzazione della differenza sessuale nelle donne e negli uomini», spiega Clara Jourdan, Libreria delle donne di Milano, luogo storico del “femminismo della differenza”. «Il femminismo è necessario, ma non ci interessa la differenza biologica dei sessi», ribatte Federica Maiucci, Collettivo Degender Communia di Roma. «Il problema è l’oppressione del patriarcato. Per questo le nostre riunioni non sono aperte ai maschi, perché pensiamo che serva un luogo dove confrontarsi separatamente». Negli anni Settanta l’autodeterminazione partiva dalla rilessione sul corpo, «la bussola del femminismo», la chiama Monica Lanfranco, fondatrice della rivista “Marea” e del primo podcast femminista, “Radio delle donne”. E oggi? L’impressione è che le più giovani parlino di corpo in modo diverso, in nome di una libertà sessuale che scardina le categorie stesse di “eterosessualità”, “omosessualità”, “transessualità”. Al di là delle differenze, comunque, il momento è di rinnovata unione, specie grazie al Piano Femminista di NUDM, che ha come baricentro la lotta contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. «NUDM è un movimento che è riuscito a unire gruppi di femministi diversi e realtà LGBTQ, producendo un ragionamento politico basato sull’idea che la violenza di genere sia sistemica», spiega Laura Buono di NUDM Milano. In questa direzione va la neonata Prochoice, «prima rete italiana contraccezione e aborto, che mettere insieme professioni e attivismo», spiega Eleonora Cirant, giornalista e attivista. «In Italia è quasi una parolaccia per un politico dirsi femminista, all’estero non è così. Nonostante tutto il femminismo è riuscito a entrare nell’universo delle più giovani», aggiunge Anna Pramstrahler, Casa delle Donne di Bologna. E unanime è l’opinione positiva sulla rivoluzione scatenata dal #MeToo. «Credere alle parola delle donne, darle forza: noi lo facciamo ogni giorno nei centri antiviolenza», interviene Maria Rosa Lotti di D.i.Re. Resta l’eterna questione del separatismo: giusto coinvolgere i maschi? «Siamo separatiste ma aperte al confronto con quei gruppi di uomini che si sono messi in discussione», dice Mariella Pasinati della Biblioteca delle Donne UDI Palermo. «I maschi vanno coinvolti, specie i più giovani», chiosa Paola Columba, autrice di “Il Femminismo è superato. Falso!”(Laterza). Spesso sotto mira, le Case delle Donne sono più vive che mai: le racconta Antonia Cosentino ne “Al posto della dote. Casa delle Donne: desideri, utopie, conlitti” (Villaggio Maori edizioni). «Qui ogni donna può trovare il suo posto», dice Giovanna Zitiello della Casa della Donna di Pisa. «Sono luoghi in cui possono ricevere accoglienza e aiuto legale», nota Antonella Petricone della Casa delle Donne di Roma. E di mobilitazione ne sa qualcosa Tea Giorgi, voce energica della Casa delle Donne di Trieste: «Resistere, resistere, resistere. Resistiamo nonostante la tragica situazione politica, perché abbiamo una rete locale forte e intergenerazionale». conclude. «Ciò che bisogna combattere», dice Nadia Maria Filippini, Società Italiana delle Storiche, «è l’idea, sbagliata, che i diritti siano acquisiti per sempre»
Internazionale 25.11.18
Caixin,
Cina gara di miseria
Per gli studenti poveri che vogliono ottenere un sussidio dalle università cinesi non basta consegnare certiicati e documenti: per ricevere l’aiuto economico devono parlare in pubblico delle diicoltà in cui si trovano le loro famiglie, nella speranza di commuovere i presenti e ottenere un numero di voti suiciente a qualiicarsi. Il processo di selezione, noto come “gara di miseria”, somiglia a un reality show e spesso inisce con gente che piange sul palco mentre svela dettagli sul suo stato di povertà per dimostrare di meritarsi il sussidio. Il ministero dell’istruzione sta cercando di vietare la pratica, “perché viola la privacy e la dignità degli studenti”. Le università difendono il metodo perché sarebbe più trasparente rispetto alle decisioni prese da piccole commissioni. In realtà, scrive il settimanale cinese Caixin, le ragioni sono la pigrizia e il timore degli atenei di prendersi la responsabilità di decidere rischiando di dare denaro a candidati non qualificati. Nel 2017 sono stati distribuiti aiuti per 27 miliardi di dollari a 95,9 milioni di studenti appartenenti a famiglie a basso reddito.
Internazionale 25.11.18
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Non dipende dall’euro se l’economia italiana è in difficoltà
Di Valentina Romei, Financial Times, Regno Unito
Perché il paese non cresce? Il quotidiano britannico lo ha chiesto ad alcuni economisti italiani. Le risposte e i dati dimostrano che i problemi dell’Italia sono strutturali
Perché l’economia italiana è così malaticcia? E, soprattutto, il nuovo governo ha trovato la cura? Mentre Roma si scontra con Bruxelles sulla legge di bilancio, respinta dalla Commissione europea perché infrange le regole dell’Unione europea, il Financial Times ha consultato alcuni importanti economisti italiani, professori universitari e industriali per capire quali sono le cause della lentezza della crescita del paese. Le risposte degli esperti, su temi che vanno dalla cultura industriale al debito pubblico, non sembrano confermare l’ipotesi che il piano del governo di portare il deficit al 2,4 per cento del pil possa favorire la ripresa dopo anni di risultati deludenti. La sida che deve affrontare l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte è far uscire l’Italia dalla trappola della crescita lenta o inesistente in cui è caduta all’inizio di questo secolo. La produzione economica rimane ancora il 5 per cento più bassa rispetto al picco registrato nel 2008, prima della crisi. Oggi l’Italia e la Grecia sono gli unici paesi dell’Unione europea che non sono riusciti a tornare ai livelli di dieci anni fa. Ma i problemi di Roma sono ancora più seri: il suo pil pro capite, al netto dell’inflazione, è inferiore a quello del 2000.
Produttività
Questi dati evidenziano la mediocre performance economica del paese dall’introduzione dell’euro, negli anni tra il 1999 e il 2002. Gli euroscettici, alcuni vicini alla coalizione di governo, spesso attribuiscono la colpa dei mali dell’economia italiana alla moneta unica, sostenendo che una svalutazione potrebbe dare nuovo impulso alle esportazioni. Ma tra gli economisti è opinione diffusa che i problemi dell’Italia siano dovuti alle carenze strutturali, non all’euro. Quindi perché l’economia va così male? Ecco le risposte degli esperti che abbiamo consultato, partendo dalle possibili cause citate più spesso. Il modello economico italiano si basa soprattutto su aziende a conduzione familiare che in genere sono più piccole e meno produttive delle loro equivalenti in altri paesi. Questo problema è andato peggiorando negli ultimi decenni. “Negli anni settanta e nei primi anni ottanta il modello industriale italiano basato sulle piccole e medie imprese trainava la crescita”, dice Silvia Ardagna, economista della Goldman Sachs. Ma molte di quelle aziende “non hanno investito in ricerca e sviluppo e non hanno avuto le capacità manageriali e il capitale umano necessari per diventare competitive su scala globale”. Secondo l’osservatorio della Commissione europea sulle piccole e medie imprese, il 95 per cento delle aziende italiane ha meno di dieci dipendenti e, dai dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), emerge che queste imprese hanno livelli di produttività del lavoro più bassi delle loro equivalenti di altri paesi. Nel frattempo, le aziende più grandi non si rinnovano, a causa di una gestione familiare tradizionale restia ai cambiamenti o perché hanno difficoltà a ottenere prestiti. Dall’ultimo studio dell’Ocse sull’economia italiana risulta che, contrariamente a quanto è stato rilevato nella maggior parte degli altri stati dell’Unione europea, la produttività sta diminuendo più rapidamente. Nonostante l’iniziativa lanciata dal governo nel 2016 per incoraggiare le aziende ad aumentare la loro presenza su internet, meno di un’impresa su dieci, escluse quelle finanziarie, vende online. Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, colloca l’Italia al terzultimo posto nell’Unione in questo settore: fanno peggio solo Romania e Bulgaria. La legge di bilancio proposta dal governo non stanzia risorse sufficienti per affrontare questi problemi. Per il 2019 non prevede alcun aumento dei fondi per aiutare le aziende a entrare nell’economia digitale e solo per il 2020 è previsto un piccolo incentivo. Gli esperti mettono le carenze del sistema dell’istruzione al secondo posto dopo quelle della cultura industriale e della modernizzazione. “Il sistema educativo altamente centralizzato e sindacalizzato dà scarsi risultati in termini di competenze reali”, sostiene Massimo Bassetti, economista di FocusEconomics.
Istruzione
Meno di un italiano su tre fra i 25 e i 34 anni ha una laurea. Una percentuale molto al di sotto del 44 per cento della media Ocse. E secondo il rapporto Pisa (Program for international student assessment) dell’Ocse, i quindicenni italiani hanno competenze inferiori alla maggior parte dei loro coetanei, in matematica, scienze e capacità di lettura. L’Italia ha anche uno dei più alti tassi di abbandono scolastico dell’Ocse, e circa un italiano su quattro tra i 15 e i 34 anni non lavora né studia: la percentuale più alta dell’Unione europea. La legge di bilancio italiana prevede riforme che mirano a estendere la scuola materna, a modificare il sistema di reclutamento degli insegnanti e a ridurre l’abbandono scolastico. Ma per queste misure non è previsto un significativo aumento dei finanziamenti. Il punteggio dell’Italia è piuttosto basso anche per quanto riguarda l’efficienza dello stato e dei servizi pubblici. Secondo l’indice della Banca mondiale sulla facilità di avviare o sviluppare un’attività imprenditoriale, l’Italia è al 111° posto su 190 nazioni nel mondo per la capacità d’imporre il rispetto dei contratti. La sua burocrazia per risolvere le insolvenze, pagare le tasse e ottenere permessi a edificare è abbastanza farraginosa, e il sistema di giustizia civile è al penultimo posto tra i paesi ad alto reddito presi in considerazione dal world justice project. “In Italia ci vuole molto più tempo che negli altri paesi industrializzati per concludere un processo civile o penale”, e questo influisce sul contesto imprenditoriale, dice l’economista dell’Ocse Mauro Pisu. “L’inefficienza della pubblica amministrazione costituisce un ulteriore costo per le aziende, frena gli investimenti e la crescita”, sostiene Ardagna. Per Bassetti, “il complesso sistema fiscale italiano, il bizantinismo delle sue norme e l’inefficienza della pubblica amministrazione” costituiscono un ostacolo. Inoltre secondo Andrea Colli, docente di storia economica all’università Bocconi di Milano, questi problemi impediscono alle aziende straniere d’investire in Italia. L’economia italiana è più grande di quella spagnola ma, secondo il database fDi Markets, dal 2003 a oggi ha attirato meno della metà dei nuovi investimenti stranieri. Nella sua lettera a Bruxelles il ministro dell’economia Giovanni Tria ha scritto che le riforme strutturali previste dalla legge di bilancio, compresa quella del codice civile, “stimoleranno la crescita economica garantendo la sostenibilità a lungo termine delle inanze pubbliche italiane”. La coalizione di governo italiana sostiene che il suo piano di spesa contribuirà ad alimentare la crescita, ma molti degli esperti da noi consultati dicono il contrario: il debito alto frena già la crescita obbligando il governo a usare fondi per contenerlo. Fondi che diversamente potrebbero essere destinati a investimenti più produttivi. “Il debito pubblico italiano limita da tempo le risorse investite nel settore produttivo”, dice Ardagna. Interessi costosi L’Italia, che è al secondo posto nel l’Unione europea per rapporto debito-pil, spende il 3,7 per cento del suo prodotto interno lordo per pagare gli interessi sul debito, il doppio della media dell’Unione. Secondo le ultime previsioni della Commissione europea, a causa del maggiore rendimento dei titoli di stato e dell’aumento dei tassi d’interesse, entro il 2020 l’Italia arriverà a spendere il 3,9 per cento del suo pil. “Il debito dell’Italia assorbe una grande quantità di risorse economiche riducendo i fondi per le infrastrutture e per gli investimenti industriali”, spiega Bassetti. Anche se la bozza della legge di bilancio prevede che l’Italia nel 2019 dedicherà un altro 0,2 per cento del pil agli investimenti pubblici e uno 0,3 nel 2020, gli analisti non si aspettano un grande miglioramento rispetto alle debolezze strutturali. “La nostra idea è che il governo non garantirà all’economia le riforme per aumentare la produttività”, dice Nicola Nobile di Oxford economics.
Internazionale 25.11.18
Malati d’insonnia Simon Parkin, The Guardian, Regno Unito.
La mancanza di sonno è un disturbo molto diffuso e può rovinare la vita delle persone. Ma la medicina l’ha ignorata a lungo, considerandola solo un sintomo di altri problemi. Ora una nuova strategia sta dando risultati incoraggianti
Viviamo nell’età dell’oro dell’insonnia. Il ronzio dei lampioni la notte, i telegiornali e i programmi d’approfondimento in onda ventiquattr’ore su ventiquattro, il diluvio di contenuti sui social network hanno costruito un mondo ostile al sonno. La notte non è più chiaramente separata dal giorno. La camera da letto non è più un rifugio dall’ufficio. Le pareti materiali e psichiche che un tempo arginavano le ondate di lavoro e d’interazione sociale sono crollate. Come ha osservato Jonathan Crary, professore alla Columbia university, l’insonnia è il sintomo inevitabile di un’epoca in cui siamo incoraggiati a essere sia consumatori incessanti sia creatori incessanti. A chi non riesce a dormire l’insonnia può sembrare l’afflizione più solitaria del mondo. Ma si calcola che solo nel Regno Unito un terzo degli adulti soffra di insonnia cronica, definita come l’avere adeguate opportunità ma inadeguate capacità di dormire per un periodo di almeno sei mesi. Gli insonni riservano diligentemente un arco di circa sette ore al riposo. Fanno il letto. Tirano le tende. Ma appena appoggiano l’orecchio sul cuscino sono improvvisamente svegli. Molti hanno cercato aiuto: tra il 1993 e il 2007 il numero di britannici che sono andati dal medico lamentando la mancanza di sonno è quasi raddoppiato, mentre secondo i dati del servizio sanitario nazionale quello delle prescrizioni per la melatonina, l’ormone che regola il sonno, dal 2008 è aumentato di dieci volte. Gli effetti dell’insonnia possono essere devastanti. Nel suo best seller Why we sleep (Perché dormiamo), il neuroscienziato Matthew Walker ha scritto: “La decimazione del sonno nei paesi industrializzati ha un impatto catastrofico sulla nostra salute, sulla speranza di vita, sulla sicurezza, sulla produttività e sull’educazione dei nostri figli”. Un rapporto del 2016 dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) statunitensi sostiene che l’insonnia aumenta il rischio d’infarto, cancro e obesità. Gli insonni hanno molta più probabilità di soffrire di depressione cronica. L’insonnia è collegata a tutti i maggiori disturbi psichiatrici, compreso il rischio di suicidio (anche se si discute se la mancanza di sonno sia la causa o il sintomo). Negli Stati Uniti fino a 1,2 milioni di incidenti automobilistici all’anno sono riconducibili a guidatori stanchi.
Suggerimenti scontati
Niente di nuovo per l’insonne, che ciondolando in piedi continua a fare ricerche su Google e, preoccupato per l’obesità, le patologie cardiache, gli incidenti e la povertà, viene preso da un’ansia che peggiora ulteriormente la sua incapacità di dormire. Temendo che il suo problema sia incurabile o che nessun dottore lo prenda sul serio, spesso non cerca neanche un parere medico. Nel Regno Unito, dove i medici sono riluttanti a prescrivere sonniferi per più di una settimana o due, chi può biasimarlo? Ci sono alcune cliniche del sonno che fanno parte del sistema sanitario nazionale ed eseguono analisi per i problemi respiratori che a volte causano l’insonnia, ma le liste d’attesa sono scoraggianti. Inoltre, nel sistema sanitario britannico l’interesse per l’insonnia è marginale, tanto che un esperto l’ha definita “la Cenerentola della medicina”. “Abbiamo pochissimi strumenti a disposizione”, ammette Clare Aitchison, che fa il medico di base a Norwich. “Con una visita di dieci minuti è impossibile insegnare ai pazienti come vincere le cattive abitudini”. Avendo poche alternative, i medici ricorrono ai consigli scontati. Fate una doccia calda prima di andare a letto. Mangiate una banana. Spegnete il cellulare. Leggete un libro. Masturbatevi. Questi suggerimenti spesso hanno qualche base logica o scientifica. Ma quando l’insonne li ha provati tutti (a volte nella stessa sera), cosa gli resta? A Londra c’è un centro che ha ottenuto risultati significativi. Fondato nel 2009 da Hugh Selsick, uno psichiatra sudafricano, l’Insomnia clinic ha rivoluzionato il trattamento dei disturbi del sonno nel Regno Unito. Dal momento che è l’unica struttura del paese specializzata nella cura dell’insonnia, ci sono passati più di mille pazienti, con un ritmo che si è via via intensificato raggiungendo i 120 nuovi casi al mese. Secondo i dati del centro, l’80 per cento dei pazienti riscontra notevoli miglioramenti e quasi la metà sostiene di essere completamente guarita. Il successo ha garantito alla struttura una reputazione invidiabile e una lista d’attesa all’altezza della sua fama: per un consulto si può aspettare anche due anni. Alla base del metodo Selsick c’è un’affermazione rivoluzionaria che ha portato a un nuovo approccio terapeutico, molto diverso dalle storie che, in mancanza di una soluzione medica, tutti gli insonni conoscono bene: mentre per decenni l’insonnia è stata curata come il sintomo di un altro problema (se e quando è stata curata), Selsick sostiene che non sia semplicemente un sintomo, ma un vero e proprio disturbo. La sua rimane un’opinione non ortodossa, ma per i pazienti l’approccio non si limita a correggere un errore di classificazione: offre una soluzione che cambia la vita, una via di uscita dalla disperazione, un modo per riuscire a dormire.
La cosa peggiore del mondo
Io sono arrivato a odiare la mia camera da letto. Quello che dovrebbe essere un luogo di riposo e, in un mese fortunato, di bizzarre zuffe romantiche, è per me un campo di battaglia psicologico. Dai miei diciott’ anni, prendere sonno è diventato un processo che s’interrompe sempre più facilmente. Gli scricchiolii e i cigolii di assestamento della casa bastano a strappare il mio cervello affaticato dalla sua lenta discesa. Il rumore di un camion o di una volpe in amore possono farmi agitare fino alla tre del mattino, l’ora in cui, come dice Ray Bradbury, noi insonni osserviamo con sguardo cupo “la Luna che rotola, con la sua faccia idiota”. Nella luce tormentosa della sveglia le emozioni si acuiscono. Il minimo movimento, sbufo o sussurro della persona che mi dorme accanto bastano a scatenare un’autentica furia, mentre vengo di nuovo catapultato in uno stato di veglia forzata. È questo il paradosso esasperante dell’insonne: più cerchi di dormire, meno ci riesci. Perciò non posso fare altro che starmene sdraiato, passando dalla furia allo sgomento ed elencando i vari modi in cui la giornata successiva sarà rovinata. È impossibile spiegare a chi dorme bene cosa significa non dormire. eppure scrittori e artisti ci hanno provato. “La notte è sempre un gigante”, scriveva vladimir Nabokov a proposito del presentimento di pericolo che provava entrando nella sua camera da letto (un personaggio insonne di Nabokov desiderava avere un terzo ianco dopo aver provato, senza riuscirci, ad addormentarsi sui due che aveva). Chuck Palahniuk, il cui romanzo Fight Club è stato ispirato dall’insonnia, doveva immaginare di cominciare un combattimento e perderlo per prendere sonno. Francis Scott Fitzgerald, che non era certo uno scrittore incline all’iperbole, deiniva l’insonnia con cupo infantilismo come “la cosa peggiore del mondo”. Negli anni ho messo a punto rituali e sortilegi: deposito solennemente il telefono in un’altra stanza, faccio una doccia ustionante, bevo una tisana a base di banana. Quando il terrore di non dormire si accumula per settimane e mesi, si consolidano comportamenti ossessivi e quasi superstiziosi. Vincent van Gogh versava un liquido simile alla trementina sul materasso, un procedimento che doveva favorire la magia del sonno. W.C. Fields sosteneva di potersi addormentare solo con il rumore della pioggia, e la sua devota amante Carlotta Monti dal giardino spruzzava acqua con il tubo per innaffiare contro la finestra della camera da letto finché lui prendeva sonno (oggi esistono diverse applicazioni che offrono suoni rilassanti dello stesso genere). Queste stranezze forse hanno permesso al resto del mondo di considerare l’insonnia un’afflizione di poco conto. Così, oltre a sentirsi deriso, l’insonne arriva a sviluppare un senso di vergogna. Dormire è la cosa più naturale del mondo; non riuscirci ti rende in un certo senso innaturale. Perciò è stato con le occhiaie e un senso di angoscia che mi sono infilato nel portone del Royal London hospital for integrated medicine di Great ormon street, a Londra, per conoscere il grande maestro degli insonni. Hugh Selsick non può esserne completamente certo, ma pensa di aver conosciuto più insonni di chiunque altro nel Regno Unito. eppure, quando entra nella sala d’aspetto della sua clinica del sonno, non sa dire chi delle persone in attesa sia lì per lui. La maggior parte degli insonni di lungo periodo non mostra nessuno dei segnali rivelatori della stanchezza. È una sofferenza privata, nascosta. Selsick attribuisce una straordinaria importanza al primo incontro con un paziente. Sa che a volte le persone che si rivolgono a lui sofrono d’insonnia da decenni, e hanno consultato vari medici di famiglia ricevendo solo il genere di consigli che si potrebbero dare a un bambino nervoso: prima di andare a letto fai un bagno caldo o bevi un bicchiere di latte. Per questo, quando si siede di fronte al paziente, il primo obiettivo di Selsick è semplicemente fargli capire che qualcuno vuole prenderlo sul serio.
Legame di fiducia
“Per anni nessuno li ha capiti”, mi dice nel suo piccolo studio. “Poi a un tratto qualcuno gli dice: ‘Sì, mi rendo conto che è un problema e, sì, possiamo curarlo’”. Alcuni pazienti scoppiano a piangere. Altri si prendono la testa tra le mani, sconvolti e sollevati. A prescindere dalla loro reazione, Selsick, che parla con garbo, ha gli occhi gentili ed è pelato come una ghianda, spiega che in quel momento si stabilisce un legame di fiducia più forte di qualunque altro lui abbia mai sperimentato nella sua carriera di psichiatra. Nel nostro primo incontro ho in parte sentito questa intimità emotiva. Per la vergogna, o il timore che lui pensasse che stavo cercando di saltare la lista d’attesa, non ho accennato ai miei problemi di sonno. I suoi modi gentili e il suo chiaro riconoscimento dell’orrore pervasivo dell’insonnia sono stati sia consolanti sia elettrizzanti. Ma la fama di questa clinica del sonno non si basa solo sulle buone maniere. Selsick ha messo a punto un programma di cinque settimane che unisce la terapia cognitivo comportamentale – usata per spezzare l’associazione negativa con la camera da letto e con l’intera faccenda del prendere sonno – con quello che lui definisce “addestramento all’efficienza del sonno”, cioè una riduzione calibrata della quantità di tempo che il paziente trascorre a letto. Oggi Selsick e un altro consulente gestiscono la struttura con il sostegno di un medico di base un giorno alla settimana e di uno specialista in psichiatria aiutato da un tirocinante. I pazienti vengono da tutto il paese e circa ottanta di loro frequentano i corsi settimanali. “Continuiamo a espanderci, ma fatichiamo a soddisfare la domanda”, spiega Selsick. Come mai un istituto di Londra riesce a curare con successo una malattia che la medicina non è riuscita ad affrontare adeguatamente? La risposta sembra radicata nella convinzione di Selsick che l’insonnia non sia il sintomo di un altro disturbo più importante. Per decenni i dottori hanno trattato il disturbo primario – diabete, patologie cardiovascolari, problemi respiratori – aspettandosi che risolverlo avrebbe aiutato il paziente a dormire. Ma questo succedeva raramente perché, come dice uno studio, l’insonnia è sostenuta da “comportamenti, cognizioni e associazioni che i pazienti adottano nel tentativo di superarla ma che si rivelano controproducenti”. Selsick è convinto che solo affrontando l’insonnia come un disturbo psichiatrico, con livelli di gravità che vanno da leggero a cronico, il servizio sanitario possa sviluppare e prescrivere trattamenti appropriati. È una visione nuova, motivata non solo dalla curiosità scientifica ma anche dall’esperienza personale. Hugh Selsick diventò insonne nel 1993, quando aveva 19 anni e si trovava in un kibbutz nel deserto, in Israele. Non era solo il caldo a provocare la mancanza di sonno, era anche la routine costruita intorno al caldo. Con temperature che raggiungono i 40 gradi, gli abitanti del deserto in genere dormono dalle 11 di sera alle 3 del mattino, poi si mettono a lavorare e continuano inché è abbastanza fresco. All’ora di pranzo, quando il caldo è al culmine, fanno un sonnellino. era un’abitudine a cui la mente di Selsick si opponeva: il pomeriggio restava a letto sveglio, sfinito ma vigile. Quando tornò in Sudafrica per cominciare il primo anno di medicina all’università di Johannesburg, l’insonnia si aggravò. “È quasi impossibile descrivere com’è a qualcuno che non l’ha mai avuta”, mi dice. Un giorno nel campus vide un annuncio in cui si cercavano volontari per uno studio sul sonno. Selsick si presentò con la speranza di capire cosa gli stava succedendo. Lo studio puntava ad accertare l’eventuale effetto dell’apporto calorico sulla capacità delle persone di addormentarsi. Ogni esperimento durava quattro giorni, durante i quali Selsick e gli altri volontari trascorrevano la notte nella clinica del sonno con la testa attaccata a un monitor e un sensore inserito nel retto per controllare la temperatura corporea. Dovevano seguire una dieta particolare: una settimana digiunavano per ventiquattr’ore, e quella successiva triplicavano il loro apporto calorico abituale. Poi venivano monitorati per vedere l’effetto dell’alimentazione sul sonno. “Risultò che non faceva nessuna differenza”, ricorda. Scarso interesse Ispirato dal professore che conduceva lo studio, Selsick cominciò un dottorato in fisiologia e si mise a studiare le funzioni del sonno Rem (una fase che si veriica sporadicamente nel corso della notte, caratterizzata dal movimento oculare rapido); poi svolse ricerche sull’impatto del riscaldamento sulla qualità del sonno. La temperatura ideale per dormire è più bassa di quanto potreste immaginare: 18 gradi. È uno dei motivi per cui l’insonnia ha un’incidenza molto maggiore nelle case di riposo, dove il riscaldamento attivo giorno e notte impedisce al corpo umano di raffreddarsi per prepararsi al sonno. All’epoca affidarsi alla psicoterapia per curare l’insonnia non era comune. Secondo Selsick i terapeuti hanno cominciato a seguire corsi di formazione per applicare i risultati delle ricerche al trattamento dell’insonnia solo nel 2005. Alla fine degli anni novanta, quando arrivò a Londra per specializzarsi al Royal college of psychiatrists, Selsick non soffriva più d’insonnia. eppure rimase stupito nel constatare quanto poco interesse questo disturbo suscitasse negli ambienti della psichiatria. “Prova a chiedere a un paziente con un problema psichiatrico cosa lo preoccupa”, dice. “Il sonno è quasi sempre al primo posto”. Selsick avviò una mailing list per tutti gli psichiatri interessati al sonno e organizzò una conferenza in cui i partecipanti poterono condividere le loro scoperte. Il gruppo attirò l’attenzione della supervisora di Selsick, Charlotte Feinmann, una psichiatra che lavorava come consulente al Royal London hospital. Feinmann riconobbe il nome del suo specializzando e gli mandò un messaggio chiedendogli se era interessato a fondare un centro per il sonno dentro l’ospedale. “In quel periodo nessuno curava l’insonnia”, ricorda Selsick. “Le unità di salute mentale non accettavano pazienti che ne erano afetti; i centri sui disturbi del sonno non la trattavano, anche perché erano gestiti da specialisti dell’apparato respiratorio interessati alle apnee notturne, che non avevano le competenze necessarie”. Un paziente che non soffriva di apnea notturna veniva “sballottato qua e là” dice Feinmann. I medici erano consapevoli del problema, spiega Selsick, ma sapevano che se avessero accettato di curare l’insonnia sarebbero stati inondati di richieste. Selsick accettò la proposta di Feinmann, e nel novembre del 2009 i primi due pazienti entrarono nella struttura. Cominciò con un pomeriggio alla settimana. “Non avevo idea di cosa stessi facendo”, ricorda. In effetti, nei primi mesi le visite di Selsick offrivano poco più dei soliti consigli per un buon riposo notturno, per esempio limitare il consumo di cafè (“non efficace”), e una generica modifica al dosaggio dei medicinali che il paziente stava già assumendo (“non molto efficace”). Poi, qualche mese dopo, Selsick cominciò a esplorare la terapia cognitivo comportamentale. Per chi soffre di insonnia, la camera da letto è talmente associata all’incapacità di addormentarsi che la semplice azione di entrarci lo risveglia, proprio come entrare nello studio di un dentista rende immediatamente ansiosi. La terapia cognitivo comportamentale, che all’epoca stava cominciando a essere usata in Nordamerica per trattare l’insonnia, serve a cambiare questa associazione automatica per sostituirla con camera da letto e sonno. “I nostri risultati migliorarono enormemente”, ricorda il medico. Non tutti credevano nel nuovo programma. Il Royal London hospital in passato era noto come Royal London homeopathic hospital, un discusso centro che offriva terapie alternative. Il farmacologo David Colquhoun una volta ha definito questo ospedale “un grande imbarazzo nazionale”. Secondo Selsick questa reputazione ha spinto alcuni medici a non mandargli i loro pazienti insonni. “Quando spieghiamo che il nostro è un servizio di tipo psichiatrico che pratica una medicina basata su prove scientifiche, queste riserve di solito svaniscono”, spiega. Chi riesce a superare il portone viene sottoposto a una valutazione iniziale per capire cosa, tra una miriade di possibilità, gli provochi l’insonnia. Selsick controlla l’eventuale presenza di disturbi del sonno, come la cosiddetta sindrome della gamba senza riposo, che colpisce dal 2 al 10 per cento delle persone, le apnee notturne o altri problemi respiratori. Ma questo è solo il primo passo. Una volta escluse queste cause, Selsick fa al paziente un lungo elenco di domande, sia pratiche (“A che ora va a letto?”, “Quanto tempo ci mette ad addormentarsi?”) sia esplorative (“Cosa stava succedendo nella sua vita quando ha cominciato a sofrire di insonnia?”). Idealmente, le risposte del paziente tracciano uno schema che può portare alla diagnosi. A volte si tratta di narcolessia, epilessia notturna o sonnambulismo. In altri casi si tratta semplicemente di insonnia psichiatrica.
Il mito delle otto ore
Quando aveva 13 anni, Zehavah Handler prese una penna e scarabocchiò un punto sulla parete della sua camera. Sdraiata sul letto, riusciva appena a distinguere il segno alla luce biancastra della lampada. e così, mentre il resto della famiglia andava a letto, lei s’imponeva di fissare il segno il più a lungo possibile senza battere le palpebre. Il gioco diventò un rituale e alla fine lei si convinse che quello era l’unico modo per prendere sonno, anche se spesso faceva le quattro del mattino prima di addormentarsi. Da adulta Handler, che oggi ha 40 anni e quattro figli, continuava a soffrire d’insonnia. Si alzava alle sette per accompagnare i figli a scuola e poi si sdraiava sul tappeto della camera da letto, con il cuore che palpitava per la stanchezza, e fissava il soffitto fino a metà pomeriggio, quando arrivava il momento di andare a riprendere i figli. Dopo la cena e il bagno dei bambini, se ne andava a letto, dove restava sdraiata per dodici ore riuscendo a dormire solo un’oretta prima che spuntasse l’alba e ricominciasse la sua spossante routine. Quando ha cominciato ad avvertire irritabilità e perdita di memoria, Handler è andata dal medico di famiglia, e dopo un’attesa di diciotto mesi è entrata nello studio di Selsick. “era la prima volta che incontravo un professionista veramente comprensivo e disposto a riconoscere il problema”. Handler è stata ricoverata nella struttura per monitorare l’eventuale presenza di apnee notturne. Ha passato la prima notte in un nido di ili, come un androide che ricarica le batterie, ed è rimasta sveglia chiedendosi se tutte quelle macchine avrebbero capito che stava solo fingendo di dormire. Ma i risultati erano chiari: non aveva problemi respiratori né spasmi muscolari. Selsick ha concluso che Handler era una dei tanti pazienti per cui l’insonnia non è un sintomo di qualche altro disturbo, ma il disturbo. Nel maggio del 2016 Handler è stata inserita nel corso di cinque settimane insieme ad altri nove pazienti ansiosi. Gli incontri si tenevano in una stanzetta nel cuore dell’ospedale. Handler ricorda che nessuno parlava e pochi cercavano il contatto visivo, paralizzati dalla vergogna segreta dell’insonne. “eravamo tutti molto a disagio”, ricorda. “Ci chiedevamo come avrebbe funzionato e quanto avremmo dovuto rivelare di noi stessi”. “La prima cosa che faccio”, mi dice Selsick, “è sfatare il mito che ci sia un certo numero di ore di sonno necessarie. C’è questa convinzione che si debba dormire otto ore a notte. Non è vero”. Proprio come cambiano le misure delle scarpe, dice, cambiano le ore di sonno a seconda dell’individuo. “A certe persone bastano sei ore e mezzo, ad altre ne servono nove e mezzo e questo non signiica che uno sia meno normale di un altro.” Per capire di quanto sonno hanno bisogno, a tutti i pazienti del corso viene chiesto di tenere un diario, registrando a che ora vanno a letto, a che ora si alzano, quanto tempo ci mettono ad addormentarsi e quante volte si sono svegliati durante la notte. Poi Selsick demolisce la loro idea che debbano andare a letto sempre a una certa ora. In genere gli insonni tendono ad andare a letto prima o a rimanerci più a lungo per aumentare la possibilità di dormire. Sembra un ragionamento logico – se non dormo abbastanza, passo più tempo a letto – ma l’ansia finisce invariabilmente con l’aggravare il problema. Invece i pazienti di Selsick devono fissare un orario rigido per la sveglia. “Gli diciamo di alzarsi sempre alla stessa ora ogni giorno, indipendentemente da quanto hanno dormito, da che ora sono andati a letto e da quello che devono fare quel giorno”. Non devono assolutamente indugiare a letto o fare dei pisolini (la gomma da masticare, aggiunge Selsick, aiuta a non appisolarsi). La teoria è che se ti alzi alla stessa ora ogni mattina cominci ad avere sonno alla stessa ora ogni sera, e con il passare delle settimane diventerà una cosa naturale. “Riduciamo il tempo che passano a letto in modo che il sonno diventi più profondo e compatto”, spiega Selsick. Un paziente potrebbe cominciare con l’obiettivo di sei ore di sonno: se deve alzarsi alle 7 per andare al lavoro, signiica che ha il divieto assoluto di mettere piede in camera da letto prima dell’una di notte. Quando un paziente si accorge di dormire il 90 per cento del tempo che passa a letto può anticipare l’ora in cui va a dormire di un quarto d’ora alla volta. Questa tecnica comportamentale è chiamata efficienza del sonno, e malgrado la sua disarmante semplicità i pazienti riconoscono risultati stupefacenti. “È stata molto dura”, ha commentato Laurell Turner, una studente di medicina che ha completato il programma nel 2016. “Alla fine del corso ero esausta. Ma nonostante il mio scetticismo, l’effetto è stato immediato.” Quando gli insonni vanno a letto, spesso temono di dover restare lì sdraiati, e questo li rende ancora più frustrati e irritati. Il semplice fatto di andare a dormire li tiene svegli. La camera da letto diventa l’elemento scatenante della veglia e perino della paura. Per combattere il fenomeno, Selsick raccomanda ai pazienti di lasciare la stanza dopo un quarto d’ora se non riescono ad addormentarsi. A parte il sesso e il sonno, in camera da letto è vietata ogni attività. I pazienti devono perfino cambiarsi in un’altra stanza. “Prima andavo a dormire nel pomeriggio e restavo in camera per dodici ore”, racconta Handler. “Facevo lì tutte le mie telefonate, lavoravo al computer, mangiavo e guardavo la tv a letto. Ora non più: saluto la mia stanza alle 7.20 del mattino e non la rivedo ino all’una e mezza di notte, quando vado a dormire”. Questa tecnica può sembrare illogica: le prime notti, quando i pazienti si trascinano avanti e indietro tra soggiorno e camera da letto ogni quindici minuti, spesso dormono peggio. “È incredibilmente difficile”, dice Handler. Ma dopo circa cinque settimane, l’associazione negativa tra camera da letto e mancanza di sonno è spezzata e sostituita da connessioni nuove e positive. Selsick sostiene che usando queste tecniche insieme alla riduzione di stimolanti come la cafeina, otto pazienti su dieci hanno dei miglioramenti, e la metà va avanti ino alla “remissione completa”.
Una pillola da ingoiare
Gli studi confermano che la terapia cognitivo comportamentale a lungo termine è il trattamento più efficace per l’insonnia. Ma perché sia efficace, occorre che il paziente instauri una routine e la mantenga. Per i pazienti che cambiano regolarmente fuso orario, che dormono spesso in albergo o non possono crearsi un rituale notturno per motivi di lavoro, il piano di Selsick è un obiettivo impossibile. Questi pazienti non hanno bisogno di un orario a cui attenersi, ma di una pillola da ingoiare. Può sorprendere che a dirlo sia uno strenuo sostenitore della terapia cognitivo comportamentale per la cura dell’insonnia. eppure Selsick è convinto che nel Regno Unito i sonniferi andrebbero prescritti molto più spesso. “Il sistema sanitario britannico è incredibilmente conservatore in materia di farmaci per il sonno”, commenta. Buona parte delle preoccupazioni si concentrano sulla dipendenza da benzodiazepine. Secondo il neuroscienziato Matthiew Walker, i sonniferi non garantiscono un “sonno naturale”, possono “nuocere alla salute” e “accrescere il rischio di malattie potenzialmente mortali”. “Questi farmaci, come qualunque altro, non sono privi di rischi”, dice Selsick. “Ma anche rinunciare a curare l’insonnia comporta dei rischi”. Selsick ha conosciuto pazienti che a causa dell’insonnia hanno dovuto lasciare il lavoro e rinunciare alla carriera. “Ho avuto pazienti che avevano distrutto i loro matrimoni, che avevano perso la custodia dei figli perché erano così stanchi che non riuscivano a prendersene cura adeguatamente”. Per questo la politica di non prescrivere farmaci per il sonno, afferma, è un disservizio per i pazienti. “Certo, prima di ricorrere ai farmaci bisognerebbe tentare la terapia cognitivo comportamentale, ma in molti luoghi non è prevista, e poi non ha effetto su tutti i pazienti.”
Quattromila ricette
Ogni epidemia garantisce opportunità commerciali. Nel 2006 l’azienda produttrice del sonnifero Ambien, che non contiene benzodiazepine, calcolò che il farmaco era stato assunto 12 miliardi di volte in tutto il mondo e aveva prodotto solo negli Stati Uniti due miliardi di dollari di ricavi all’anno. Le compagnie farmaceutiche che sperano di emularne il successo sono impegnate in una gara per mettere a punto un nuovo sonnifero che non abbia efetti collaterali. Nel 1998 la scoperta dell’oressina, un ormone che agisce sostanzialmente come una sveglia per il cervello, aveva trasformato la lunga marcia per sviluppare un nuovo tipo di sonnifero in una vera e propria corsa. Da quindici anni Jean-Paul Clozel – un cardiologo diventato farmacologo che nel 1997 fondò insieme alla moglie Martine l’azienda biotecnologica svizzera Actelion – lavora a quello che sostiene essere un sonnifero privo di controindicazioni: “La maggior parte dei sonniferi sono benzodiazepine e inducono quello che sembra sonno ma in realtà è più vicino a una sedazione anestetica” (le benzodiazepine sono usate spesso dagli anestesisti). La pillola di Clozel, che lui spera di lanciare sul mercato nel 2020, e che va sotto il nome generico di Nemorexant, agisce in modo diverso, limitando la produzione di oressina, l’ormone che tiene svegli gli insonni o li fa svegliare alla minima occasione. Il Nemorexant non è il primo sonnifero a prendere di mira l’oressina. Dall’agosto del 2014, oltre un decennio dopo l’inizio degli studi per sviluppare il farmaco, i medici statunitensi possono prescrivere il Belsomra, conosciuto anche come Suvorexant, che agisce sullo stesso ormone. A un mese dal suo lancio sul mercato, si registrava una media di quattromila ricette alla settimana. Ma il farmaco non è privo di rischi. Un rapporto della Food and drug administration sulla sicurezza del Belsomra, che ha una stretta relazione con il farmaco di Clozel, riferiva di una paziente che “si svegliava più volte sentendosi incapace di muovere gambe e braccia e senza riuscire a parlare”. Ciò nonostante, in un paese che sembra lontano anni luce dall’avviare programmi nazionali di terapia cognitivo comportamentale per curare l’insonnia, Selsick è favorevole al Nemorexant. “Dal momento che agisce seguendo un percorso completamente diverso da quello di altri ipnotici, sarebbe bello averlo per i pazienti che non rispondono ai trattamenti standard”. Nel frattempo il Regno Unito rimane poco preparato e, a quanto sembra, poco disposto ad afrontare la crescente epidemia di insonnia. Noi vittime di questa Cenerentola della medicina, dolorosamente ignorata, ci aggrappiamo a qualunque cosa sostenga di essere una cura e restiamo impantanati nelle pratiche popolari, e in consigli coloriti ma contraddittori. Nessun sonnifero può essere usato a lungo, e a parte la struttura di Selsick solo una manciata di centri privati ofrono la terapia cognitivo comportamentale per trattare l’insonnia. Il progetto di aprire un centro mirato presso il Guy’s hospital di Londra è stato accantonato per il timore che le richieste fossero eccessive. “Temevano che la domanda sarebbe stata così alta da non riuscire a far fronte alle liste d’attesa, e questo avrebbe danneggiato economicamente l’ospedale”, spiega Selsick. La conseguenza perversa è che più cresce la domanda di trattamenti per l’insonnia, più diminuisce la probabilità che sia soddisfatta. A maggio, per allentare la pressione sul suo centro sommerso di richieste, Selsick ha autorizzato il primo programma di formazione per medici di famiglia, in modo che siano loro a gestire, nei loro ambulatori locali, sessioni di terapia cognitivo comportamentale simili a quelle che si tengono nella sua struttura, almeno per i casi meno gravi. Selsick vorrebbe organizzare tre corsi, aperti anche a infermieri, psicologi, terapisti occupazionali ed esperti di igiene mentale, due volte l’anno, e accrescere così la capacità del sistema sanitario di affrontare il problema dell’insonnia su scala nazionale. Quella di Selsick è l’unica struttura sanitaria a vedere un costante lusso di pazienti. e la costanza, dice il medico, è la chiave di tutto. “La terapia non è niente di trascendentale”, dice. “Davvero. Il nostro lavoro principale, come terapeuti, non è tanto dire ai pazienti cosa devono fare – per questo basterebbe distribuire un opuscolo – ma convincerli a tenere duro abbastanza a lungo perché possa funzionare”. In sintonia con l’universo Per i pazienti che completano con successo il programma di Selsick, riuscire a riposare bene signiica trasformare radicalmente la propria vita. Ricominciare a dormire signiica sentirsi di nuovo in sintonia con l’universo e con i suoi impercettibili ritmi. “Sono più contenta”, mi ha detto Handler della sua nuova vita post-insonnia. “I miei rapporti interpersonali sono migliorati. Sono più paziente. Non vivo più in una sorta di nebbia perenne. Sono disponibile”. C’è qualche ricaduta, ammette Handler, di solito provocata da un cambiamento di routine – una vacanza, Natale – ma mettendo la sveglia all’ora stabilita, lasciando la camera da letto dopo un quarto d’ora se non riesce a prendere sonno e mettendo in atto tutti i rituali che ha imparato alla clinica del sonno, basta qualche notte per ripristinare il ritmo. Gli effetti sulla sua vita sono stati così evidenti che Handler ha deciso di chiudere la sua agenzia turistica e, con l’appoggio di Selsick, si è formata per diventare una consulente del sonno. Aver imparato a dormire di nuovo l’ha talmente cambiata che vuole dedicare la sua vita ad aiutare gli altri a superare lo stesso problema. Prevede di aprire il suo centro contro l’insonnia l’anno prossimo.
Internazionale 25.11.18
Una ventata di novità
Di Mike McCahill, The Guardian, Regno Unito
Il #MeToo è arrivato in India. Ma in tema di molestie e discriminazioni Bollywood è ancora molto indietro
Introducendo la nuova stagione del più seguito talk show indiano, Kofee with Karan, il regista, produttore e presentatore Karan Johar ha dedicato la trasmissione al girl power appena scoperto anche da Bollywood, in un anno che è stato segnato da film di successo scritti e diretti da donne, come il thriller ad alta tensione Raazi e l’amara commedia a tema matrimoniale Veere di wedding. Le ospiti, ovviamente, erano donne di cinema: la regina indiscussa Deepika Padukone, di nuovo sorridente dopo la prova del fuoco di Padmaavat, il colossal uscito a gennaio tra numerose polemiche, e la splendida principessa Alia Bhatt, talentuosa protagonista di Raazi. A Bhatt, adagiata sul divano di Johar, è stato chiesto di scegliere tra i suoi gatti, protagonisti assoluti del suo profilo Instagram, e il bell’attore e produttore Ranbir Kapoor; Padukone ha allusivamente inarcato un sopracciglio quando invece le è stato chiesto qual è la prima cosa che nota in un uomo. Scelte difficili Anche se il tono leggero era a suo modo piacevole, risultava stranamente lontano dalle serie recriminazioni lanciate sui social network da donne che lavorano negli strati più bassi dell’industria cinematografica. Il movimento #MeToo indiano, cresciuto molto rapidamente a partire da ottobre soprattutto attraverso internet, ha proiettato la sua ombra sulla ventesima edizione del Jio Mami Mumbai film festival, che si è concluso il 1 novembre. “Il #MeToo è cresciuto proprio due settimane prima del festival, che è uno dei più grandi eventi cinematografici del paese, quindi avevamo tutti gli occhi puntati addosso”, ha detto la direttrice artistica Smrti Kiran, raggiunta nella sede del festival nel quartiere di Juhu, a Mumbai. “Volevano che ci assumessimo delle responsabilità. E noi eravamo pronti a farlo”. Così gli organizzatori si sono rimboccati le maniche e hanno tracciato delle linee rosse. Due film e tre cortometraggi sono stati cancellati dal programma del festival in seguito alle accuse sollevate nei confronti di alcuni dei loro autori. Un altro film, molto atteso dalla critica, Balekempa, è stato ritirato direttamente dai produttori dopo che il suo autore e regista Ere Gowda è stato accusato di molestie sessuali. Alla cerimonia di apertura, davanti al Gateway to India, il grandioso monumento della città vecchia, la direttrice del festival Anupama Chopra si è scusata con “tutte le persone deluse”, augurandosi “che la decisione di mettersi al ianco delle donne che hanno fatto sentire le loro voci porti a un nuovo clima costruttivo, inclusivo e giusto”. “È stata una decisione molto, molto dura”, dice Kiran. “Non posso sottolineare abbastanza quanto sia stato triste per noi. Dopo avere scelto di scartare i primi due film, abbiamo dovuto applicare lo stesso metro con tutti. Ma era una cosa che dove vamo fare, è necessario che le persone aprano gli occhi”. E alla fine, al posto dei film sono stati organizzati dei dibattiti. La sceneggiatrice e regista Ruchi Narain ha curato quattro seminari sul tema della condotta professionale nel mondo del cinema. In uno di questi l’avvocata Asiya Shervani ha guidato il pubblico attraverso l’oscura legge indiana sulle molestie sessuali, a cui si fa ricorso molto raramente. Come ha spiegato Kiran, “per noi è stato importante parlarne, non vogliamo che una questione così importante interessi le persone per un po’ e poi venga dimenticata. Non è stato fatto nulla di concreto, le gente si limita a dire: ‘Ah, c’è stato il #MeToo’, come se fosse un virus dell’influenza, che arriva ma poi passa. In uno dei seminari, invece di limitarsi a parlare per frasi fatte come spesso succede in queste occasioni, le persone si sono sfogate apertamente. Non c’erano timori, ed è stata una ventata d’aria nuova”. Ma i cambi di programma hanno fatto posto anche a una selezione di ilm realizzati da donne, facendo scoprire al pubblico un ilone del cinema indiano meno convenzionale. Rajma chawal, il ilm di Leena Yadav, prodotto da Netlix, afronta il tema dello scarto generazionale tra padre e iglio. Priya Ramasubban ha commosso con il suo Chuskit, la storia di una giovane paraplegica che adatta la sedia a rotelle alla sua casa sull’Himalaya. Il talento emergente di Rima Das, il cui Village rockstars è stato scelto quest’anno dall’India per concorrere all’oscar come miglior ilm straniero, ha catturato due volte l’attenzione del pubblico: la prima con un tufo notturno in piscina durante la festa d’inaugurazione del festival, la seconda con il suo ultimo ilm, Bulbul can sing, una dura presa di posizione sulla cultura della vergogna. Sotto zero Per Kiran questa piccola selezione porta comunque alla ribalta nuovi modi di pensare: “In passato siamo stati una nazione che produceva solo ilm su grandi temi, come la povertà. Raramente l’individuo era centrale, il ruolo di spicco era sempre della collettività. Da indiana, mi rendo conto che diamo così tanta importanza alla famiglia che l’individuo è oscurato. Ma è importante valorizzare l’individuo se vogliamo una società più sana”. Una maggiore visibilità del cinema internazionale, che arriva raramente perino nelle sale della cosmopolita Mumbai, potrebbe aver giocato un ruolo. Al festival circa cento persone sono rimaste in fila per cinque ore per vedere Un afare di famiglia, il film di Hirokazu Koreeda, Palma d’oro al festival di Cannes 2018. Ma il premio alla determinazione va alle persone rimaste in fila per dieci ore per il dubbio piacere di vedere Climax di Gaspar Noé. I venti che hanno cominciato a spirare sul mondo del cinema indiano, un tempo elitario, sono ancora tutti da capire e scoprire. La critica cinematografica Anna M.M. Vetticad, una delle voci del #MeToo indiano, ha pubblicato un articolo sul sito d’informazione The Quint in cui evidenzia quello che va ancora affrontato per ottenere maggiore parità, a cominciare dalle accuse di molestie, finora solo mormorate, nei confronti di alcuni intoccabili del cinema indiano. Anche Kiran ammette che il #MeToo si è silenziosamente intrufolato nella sua squadra prevalentemente femminile. “Il movimento è nato in occidente e da molto tempo, ma non avremmo immaginato che sarebbe arrivato così presto anche da noi. Pensavamo che ci sarebbero voluti altri vent’anni. Basta questo a spiegare quanto siamo indietro”. Il festival si è chiuso il 1 novembre con Widows. Eredità criminale di Steve McQueen: un altro ilm con donne forti impegnate in un’impresa, una rapina, tradizionalmente maschile. Kiran è consapevole che la sua missione è solo all’inizio: “Ci battiamo per cose basilari: il rispetto, il non essere prede di assalti e di sguardi ossessivi, la gentilezza. La narrativa del femminismo e delle rivendicazioni per noi è uno svantaggio. La gente pensa che odiamo gli uomini. Ma non è così. Credo che prima di tutto dobbiamo ottenere i diritti di base. Scordiamoci le grandi conquiste, per ora. Non partiamo da zero, ma da molto più in basso. Quindi arriviamo almeno al livello zero”.