lunedì 26 novembre 2018

l’espresso 25.11.18
Quello che le donne dicono
Guidano le proteste. Inventano parole. Scendono in piazza non solo a difesa del loro corpo, ma contro razzismi e fascismi. Mentre si celebra la Giornata contro la violenza sulle donne, la voce femminile occupa spazi nuovi donne dicono
di Caterina Serra


Le donne sono agitate. State un po’ calme, fate le brave. Sì, sì, avete ragione, basta che stiate zitte. Cosa credete di fare, cambiare il mondo? Se è sempre andata così ci sarà un motivo, no? Va bene, non le vuole nessuno, non c’è nessuno a cui sembri normale oltre che legittimo che tocchi anche un po’ a loro, senza principi di esclusività. Dubitano che possano prendere una decisione e che prendano quella giusta. Temono che sbaglino, anzi, quello che non ammettono è che possano sbagliare. Soprattutto, ciò che disturba da sempre è che non chiedano permesso, che siano libere. Nella sfera privata e in quella pubblica danno fastidio. Semmai hanno il dovere di essere più brave, più oneste, più calme e pacifiche, perché, viene detto loro in da piccole, più capaci di umanità, generosità, amore, per natura. La donna-natura è, deve essere, accogliente. Ne è manifesto la sua stessa fisicità. Il corpo concavo, cavo, custode (sic) della vita, un corpo che pende, dipende, va verso l’altro, incline (all’uomo retto, e-retto?), felice di farlo. Le donne non hanno bisogno di essere libere per essere felici. L’alternativa è sempre stata lo stigma, quello più o meno, sintetizzo, di puttana. La libertà sessuale delle donne, la loro autodeterminazione, è uno spauracchio, un tabù. Le parole di ogni narrazione, dall’epica alla propaganda pubblicitaria, l’hanno raccontata come una colpa, un peccato, una malattia. Le donne libere non piacciono perché non si offendono, anzi, ci ridono sopra, o deridono chi glielo urla in faccia in privato e in pubblico. Ribaltando: puttane sono tutte le donne che decidono di sé, del proprio desiderio, del proprio destino. Non vorremmo esserlo tutte? L’ideologia patriarcale chiude le porte del mondo alle donne raccontando al mondo la favola della loro tranquillità, della loro innata remissività. Costringe le donne a non esprimere idee e pensieri chiamando il silenzio pudore, mansuetudine, capacità di mediazione. Inculca da secoli a loro, e agli uomini, che le donne sono fatte per il sentimento (come se questo non fosse legato al pensiero!), fa credere che il desiderio vada suscitato non espresso, che la passione vada mascherata non fatta esplodere - da qui tutto un femminile che fa propria una seduttività che asseconda il piacere, la visione del piacere, la soddisfazione del piacere. Altrui. Pena, il senso di colpa. Ancora, chiama da sempre senso materno il dovere di una riproduttività necessaria, addomesticando le donne, inchiodandole ai miti della verginità, della maternità o di una seduttività codificata. Ha erotizzato la violenza legittimando il potere di agire e pensare senza considerare l’oggetto desiderato un soggetto desiderante. Come? Usando il linguaggio. Chiamando innocenti parole crudeli, lusinghiere quelle offensive, amorose quelle della prevaricazione, del dominio e dell’abuso, tinteggiandole dei colori romantici della passione, della follia d’amore. Chi racconta ha il potere di nominare l’oggetto della sua narrazione, di decidere chi è l’altro. Nel caso del patriarcato è un potere umiliante, degradante, violento, omicida. Perché le parole hanno corpi che le porgono, le buttano addosso, le sbattono contro. Non esistono senza carne e sangue intorno. Hanno a che fare con l’apparizione. È per questo che dipendono da chi le pronuncia. È per questo che le rivendicazioni sono fatte in nome del corpo - protezione dalla violenza, nutrimento, mobilità, libertà di espressione. Le forme che le donne hanno dato alla volontà di smascherare e smontare il potere da dentro come un vecchio giocattolo sono ancora le stesse e forse ce ne vorrebbero di nuove, meno reattive, più agenti, visti i tempi. Le donne si agitano manifestando, riunendosi in assemblea, scrivendo, creando con i saperi dell’arte, facendo del loro gesto pubblico un atto politico. Ci mettono la voce e il corpo. Basterebbe leggerle, studiarle, guardarle. Hanno inventato e inventano parole nuove per definire la loro presa di parola, per uscire dalle case, da cucine millenarie - ho visto donne infilare un tavolo in un ripostiglio (altro che stanza, cara Woolf!) per farsi spazio, per dare a sé stesse un luogo del pensiero, della presenza. L’ho visto l’altro giorno, non secoli fa. Il fatto è che non possono smettere. Anzi, devono ricominciare dietro ogni porta chiusa o aperta al compromesso. Perché ancora si sentono dire che è normale picchiarle, zittirle, molestarle, ammazzarle un giorno sì un giorno no. Se fosse una donna a uccidere un uomo ogni due giorni qualcuno griderebbe allo stato d’emergenza, militarizzerebbe le città, piantonerebbe le strade e i pianerottoli. La verità è che una donna libera è ancora una donna di cui parlare, sparlare, da punire, umiliare in varie forme seppur ludiche, goliardiche (lo scherno è un modo di delegittimare deresponsabilizzandosi). E nonostante ci siano donne al potere sono ancora così poche quelle che per essere lì non devono soggiacere (giacere?) a un tipo di trattamento da donne, non devono ossequiare il maschio di turno che si permette di parlare per loro, non devono subire insulti, indifferenza, commenti, ogni tentativo di rovesciare vecchie gerarchie. Susan Sontag credeva che l’emancipazione delle donne non comportasse solo la parità dei diritti, ma la parità dei poteri. Non solo quelli economici, che già!, ma quelli di parola, di pensiero, che vuole dire agire per come si desidera, a partire da sé. I movimenti femministi di questi ultimi anni sono diversi e molteplici, ma una cosa hanno in comune, non sono solo concentrati a difendere i diritti delle donne, sono antisessisti, antirazzisti, antifascisti, hanno tutti una visione politica sociale economica del mondo che contrasta il sistema patriarcale su cui poggia saldo il capitalismo nelle sue varie forme. Di recente in un incontro pubblico si discuteva di relazioni amorose e non a caso dopo pochi minuti si è passati alla violenza che le informa. Antonio Moresco suggeriva che sarebbe tempo di definire un patto tra gli uomini e le donne, se vogliamo uscirne vivi. Vive, volevo suggerire. Un patto che dia loro strumenti per capirsi, per convivere condividendo il potere senza sopraffazioni, per volersi senza dominarsi, per amarsi o non amarsi più senza farsi male. Bene, no? mi sono detta - anche se forse il binarismo donne uomini ha fatto un po’ il suo tempo. In ogni caso, perché non ci è venuto in mente prima, c’era qualcosa che ce lo ha impedito? Non sarà che un altro patto, quello fra gli uomini, ha funzionato benissimo finora? Quell’antico patto che li legittima e non li fa mettere mai su un piano di revisione, ripensamento, quel patto che li salva, non fa puntare il dito uno contro l’altro, che li giustifica e li esalta quando non sanno come fare con, nel peggiore dei casi cosa farsene di, donne che danno fastidio con la loro libertà, che non chiedono il permesso. Il nuovo patto tra gli uomini e le donne, e tutti gli altri, aggiungerei, si stringa sciogliendo prima quel vecchio e mai così minaccioso patto che è il patriarcato.