l’espresso 25.11.18
Quello che le donne dicono
Guidano le
proteste. Inventano parole. Scendono in piazza non solo a difesa del
loro corpo, ma contro razzismi e fascismi. Mentre si celebra la Giornata
contro la violenza sulle donne, la voce femminile occupa spazi nuovi
donne dicono
di Caterina Serra
Le donne sono
agitate. State un po’ calme, fate le brave. Sì, sì, avete ragione, basta
che stiate zitte. Cosa credete di fare, cambiare il mondo? Se è sempre
andata così ci sarà un motivo, no? Va bene, non le vuole nessuno, non
c’è nessuno a cui sembri normale oltre che legittimo che tocchi anche un
po’ a loro, senza principi di esclusività. Dubitano che possano
prendere una decisione e che prendano quella giusta. Temono che
sbaglino, anzi, quello che non ammettono è che possano sbagliare.
Soprattutto, ciò che disturba da sempre è che non chiedano permesso, che
siano libere. Nella sfera privata e in quella pubblica danno fastidio.
Semmai hanno il dovere di essere più brave, più oneste, più calme e
pacifiche, perché, viene detto loro in da piccole, più capaci di
umanità, generosità, amore, per natura. La donna-natura è, deve essere,
accogliente. Ne è manifesto la sua stessa fisicità. Il corpo concavo,
cavo, custode (sic) della vita, un corpo che pende, dipende, va verso
l’altro, incline (all’uomo retto, e-retto?), felice di farlo. Le donne
non hanno bisogno di essere libere per essere felici. L’alternativa è
sempre stata lo stigma, quello più o meno, sintetizzo, di puttana. La
libertà sessuale delle donne, la loro autodeterminazione, è uno
spauracchio, un tabù. Le parole di ogni narrazione, dall’epica alla
propaganda pubblicitaria, l’hanno raccontata come una colpa, un peccato,
una malattia. Le donne libere non piacciono perché non si offendono,
anzi, ci ridono sopra, o deridono chi glielo urla in faccia in privato e
in pubblico. Ribaltando: puttane sono tutte le donne che decidono di
sé, del proprio desiderio, del proprio destino. Non vorremmo esserlo
tutte? L’ideologia patriarcale chiude le porte del mondo alle donne
raccontando al mondo la favola della loro tranquillità, della loro
innata remissività. Costringe le donne a non esprimere idee e pensieri
chiamando il silenzio pudore, mansuetudine, capacità di mediazione.
Inculca da secoli a loro, e agli uomini, che le donne sono fatte per il
sentimento (come se questo non fosse legato al pensiero!), fa credere
che il desiderio vada suscitato non espresso, che la passione vada
mascherata non fatta esplodere - da qui tutto un femminile che fa
propria una seduttività che asseconda il piacere, la visione del
piacere, la soddisfazione del piacere. Altrui. Pena, il senso di colpa.
Ancora, chiama da sempre senso materno il dovere di una riproduttività
necessaria, addomesticando le donne, inchiodandole ai miti della
verginità, della maternità o di una seduttività codificata. Ha
erotizzato la violenza legittimando il potere di agire e pensare senza
considerare l’oggetto desiderato un soggetto desiderante. Come? Usando
il linguaggio. Chiamando innocenti parole crudeli, lusinghiere quelle
offensive, amorose quelle della prevaricazione, del dominio e
dell’abuso, tinteggiandole dei colori romantici della passione, della
follia d’amore. Chi racconta ha il potere di nominare l’oggetto della
sua narrazione, di decidere chi è l’altro. Nel caso del patriarcato è un
potere umiliante, degradante, violento, omicida. Perché le parole hanno
corpi che le porgono, le buttano addosso, le sbattono contro. Non
esistono senza carne e sangue intorno. Hanno a che fare con
l’apparizione. È per questo che dipendono da chi le pronuncia. È per
questo che le rivendicazioni sono fatte in nome del corpo - protezione
dalla violenza, nutrimento, mobilità, libertà di espressione. Le forme
che le donne hanno dato alla volontà di smascherare e smontare il potere
da dentro come un vecchio giocattolo sono ancora le stesse e forse ce
ne vorrebbero di nuove, meno reattive, più agenti, visti i tempi. Le
donne si agitano manifestando, riunendosi in assemblea, scrivendo,
creando con i saperi dell’arte, facendo del loro gesto pubblico un atto
politico. Ci mettono la voce e il corpo. Basterebbe leggerle, studiarle,
guardarle. Hanno inventato e inventano parole nuove per definire la
loro presa di parola, per uscire dalle case, da cucine millenarie - ho
visto donne infilare un tavolo in un ripostiglio (altro che stanza, cara
Woolf!) per farsi spazio, per dare a sé stesse un luogo del pensiero,
della presenza. L’ho visto l’altro giorno, non secoli fa. Il fatto è che
non possono smettere. Anzi, devono ricominciare dietro ogni porta
chiusa o aperta al compromesso. Perché ancora si sentono dire che è
normale picchiarle, zittirle, molestarle, ammazzarle un giorno sì un
giorno no. Se fosse una donna a uccidere un uomo ogni due giorni
qualcuno griderebbe allo stato d’emergenza, militarizzerebbe le città,
piantonerebbe le strade e i pianerottoli. La verità è che una donna
libera è ancora una donna di cui parlare, sparlare, da punire, umiliare
in varie forme seppur ludiche, goliardiche (lo scherno è un modo di
delegittimare deresponsabilizzandosi). E nonostante ci siano donne al
potere sono ancora così poche quelle che per essere lì non devono
soggiacere (giacere?) a un tipo di trattamento da donne, non devono
ossequiare il maschio di turno che si permette di parlare per loro, non
devono subire insulti, indifferenza, commenti, ogni tentativo di
rovesciare vecchie gerarchie. Susan Sontag credeva che l’emancipazione
delle donne non comportasse solo la parità dei diritti, ma la parità dei
poteri. Non solo quelli economici, che già!, ma quelli di parola, di
pensiero, che vuole dire agire per come si desidera, a partire da sé. I
movimenti femministi di questi ultimi anni sono diversi e molteplici, ma
una cosa hanno in comune, non sono solo concentrati a difendere i
diritti delle donne, sono antisessisti, antirazzisti, antifascisti,
hanno tutti una visione politica sociale economica del mondo che
contrasta il sistema patriarcale su cui poggia saldo il capitalismo
nelle sue varie forme. Di recente in un incontro pubblico si discuteva
di relazioni amorose e non a caso dopo pochi minuti si è passati alla
violenza che le informa. Antonio Moresco suggeriva che sarebbe tempo di
definire un patto tra gli uomini e le donne, se vogliamo uscirne vivi.
Vive, volevo suggerire. Un patto che dia loro strumenti per capirsi, per
convivere condividendo il potere senza sopraffazioni, per volersi senza
dominarsi, per amarsi o non amarsi più senza farsi male. Bene, no? mi
sono detta - anche se forse il binarismo donne uomini ha fatto un po’ il
suo tempo. In ogni caso, perché non ci è venuto in mente prima, c’era
qualcosa che ce lo ha impedito? Non sarà che un altro patto, quello fra
gli uomini, ha funzionato benissimo finora? Quell’antico patto che li
legittima e non li fa mettere mai su un piano di revisione,
ripensamento, quel patto che li salva, non fa puntare il dito uno contro
l’altro, che li giustifica e li esalta quando non sanno come fare con,
nel peggiore dei casi cosa farsene di, donne che danno fastidio con la
loro libertà, che non chiedono il permesso. Il nuovo patto tra gli
uomini e le donne, e tutti gli altri, aggiungerei, si stringa
sciogliendo prima quel vecchio e mai così minaccioso patto che è il
patriarcato.