giovedì 1 novembre 2018

La Stampa 1.11.18
Santoro prepara un’offerta per acquistare “l’Unità”
di Andrea Carugati


Michele Santoro è interessato all’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1924 che ha sospeso le pubblicazioni nell’estate del 2017. Negli ultimi mesi il giornalista ha incontrato l’ad di Unità srl, Guido Stefanelli, per farsi un’idea della situazione del giornale che da oltre un anno vive in un limbo: l’azienda è ancora attiva, ma il giornale non viene pubblicato e gli oltre 30 dipendenti sono in cassa integrazione in uscita. Interpellato dalla Stampa, Santoro si trincera dietro un «No comment». Fonti dell’azienda smentiscono che ci sia una trattativa in corso con il conduttore. Ma confermano che negli ultimi mesi, dopo la nascita del governo gialloverde, l’interesse per l’Unità «è tornato a crescere». Tanto che lo stesso gruppo Pessina (che detiene il 100% di Unità srl) sta pensando a un ritorno in edicola a inizio 2019, con una redazione ridotta all’osso. Una scelta finalizzata a valorizzare la testata, anche in vista di una possibile cessione a una nuova cordata di soci. Cessione che ad oggi non è in agenda, anche se ci sono state manifestazioni d’interesse. Una è quella di Santoro, uomo di sinistra molto geloso della sua autonomia, per un periodo socio al 7% del Fatto quotidiano con la società Zerostudio’s, fino all’uscita nel 2017, dovuta anche alla mancata condivisione della linea filo-M5S.
Di qui il rinnovato interesse per l’Unità, che si era già manifestato quando il giornale aveva chiuso nel 2014. In quel caso però il Pd a guida Matteo Renzi aveva scelto di favorire l’arrivo dei Pessina, che hanno confezionato un prodotto molto filorenziano (sotto la guida prima di Erasmo D’Angelis e poi di Sergio Staino) che non ha riscontrato il favore dei lettori, fino all’uscita dalle edicole. Ora il Pd è definitivamente fuori dalla compagine dell’Unità, dopo aver perso la quota del 20% che era controllata dalla fondazione Eyu guidata dal tesoriere Francesco Bonifazi. Nelle ultime settimane si era diffusa la voce che la stessa Eyu fosse interessata a comprare la testata, ma l’azienda smentisce categoricamente.
La situazione resta molto critica: nella scorsa primavera i giornalisti avevano ottenuto dal tribunale il pignoramento della testata per ottenere il pagamento degli stipendi arretrati. Solo all’ultimo minuto la società ha evitato che l’Unità finisse all’asta, pagando gli stipendi. La base d’asta era di 300mila euro. In quelle settimane Santoro era molto vicino alla presentazione di un’offerta a prezzi di saldo. Ora però l’azienda punta a incassare molto di più.

il manifesto 1.11.18
Aleksandr Bogdanov
La Russia della rivoluzione e la società socialista marziana
«Stella Rossa», un romanzo di Aleksandr Bogdanov per Alcatraz
di Benedetto Vecchi


Aleksandr Bogdanov è stata una figura pienamente inserita nello spirito del tempo dei bolscevichi. Giovane dirigente, con una buona formazione scientifica e filosofica non esita a confrontarsi e a misurarsi con l’epistemologia dei primi del Novecento, arrivando a elaborare tesi e punti di vista che facevano tesoro delle sue razzie nella fisica, nella teoria dell’organizzazione, nella chimica, arrivando a essere presentato, negli anni Ottanta del secolo scorso, l’involontario antesignano, della teoria dei sistemi.
LENIN ne apprezzava l’acume, ma aveva per lui parole aspre, giudizi taglienti per il suo romanticismo scientista. Cose e discussioni del pleistocene politico e teorico. Poco servono a comprendere, per esempio, la passione di Bogdanov per la fantascienza, che tra il primo e il terzo decennio del Novecento era un genere di larga diffusione nella Russia zarista prima, sovietica poi.
Un genere narrativo che non nascondeva i propositi pedagogici (diffondere conoscenze scientifiche) e di propaganda. Bogdanov scrisse un romanzo, Stella Rossa, che è stato recentemente pubblicato dalla casa editrice Alcatraz (pp. 223, euro 18) all’interno del suo progetto editoriale di restituire la science fiction maturata al di là dell’Elba. È un romanzo espressione appunto di una dimensione educativa che Bogdanov enfatizza dando una veste diaristica alla storia narrata. Siamo nella Russia nei mesi precedenti la Rivoluzione.
Il protagonista è un rivoluzionario di professione. Briga sta organizzando l’insurrezione, anche se di dubbi ne ha, e non pochi. Si ritrova invece su Marte, dove la rivoluzione socialista c’è già stata. Apprende la difficoltà della costruzione del socialismo e del comunismo, ma constata che la strada per il regno della libertà può essere diversa da quella prospettata dal suo partito. La rivoluzione può essere tremenda, feroce, sanguinosa, può divorare i suoi figli. Su Marte, invece l’evoluzione ha accompagnato la presa del potere del proletariato. Tutto funziona bene. Non c’è penuria, tutto è meticolosamente organizzato attraverso tecnologie sofisticate e la statistica per consentire che ognuna abbia secondo le sue necessità e che i singoli possano restituire al collettivo ciò che possono dare.
C’È UN PERÒ: le risorse naturali di Marte stanno per esaurirsi, da quelle energetiche a quelle alimentari. La soluzione? Colonizzare altri pianeti, con il rischio di diventare dominatori imperialisti. Il romanzo è un condensato delle discussione che imperversavano dentro il gruppo dirigente bolscevico. Bogdanov, da quel che scrive, crede alla necessità di rallentare il corso rivoluzionario, di essere evoluzionisti, cioè di accompagnare con uno sforzo educativo la crescita di coscienza del proletariato e della società nel suo complesso.
IN QUESTO, leninista proprio non lo è. Il romanzo si snoda tra descrizioni della società socialista marziana, amori intensi tra terrestri e marziani, problematiche di difficile soluzione, anche se l’autore in alcune pagine sembra un teorico della decrescita. Stile di altri tempi, ma capace di restituire il desiderio di libertà che c’era e c’è sempre dietro ogni movimento, organizzazione politica che si propone l’abolizione dello stato di cose presenti.
Bogdanov lascia aperte le soluzioni, ma il suo finale può essere visto come una critica malinconica a quello che accadrà nella sua Unione sovietica, quando a capo del partito non ci sarà l’amato e temuto Lenin, bensì un gruppo di dirigenti che oltre a perseguitare e uccidere comunisti ha trasformato quell’esperienza in un carcere a cielo aperto.

Il Fatto 1.11.18
Scheletri vaticani, il vicino di casa era della “Magliana”
Le ossa trovate nella Nunziatura apostolica sono di due persone diverse, una è una donna. Lì accanto abitava Scimone, legato a Renatino De Pedis
di Carlo Tecce e Michela Rubortone


Al civico 27 di via Po, in una casupola al limite del territorio italiano, nel pomeriggio di lunedì scorso, gli operai che ristrutturano l’abitazione del portiere della Nunziatura apostolica – villa Giorgina, l’ambasciata vaticana a Roma – sollevano il massetto del pavimento e scoprono uno scheletro umano quasi ancora interamente composto e accanto un mucchietto di frammenti ossei. I gendarmi vaticani avvisano la Procura capitolina – che apre un’indagine contro ignoti per omicidio – e subito i magistrati italiani valutano l’ipotesi che quei resti possano appartenere a uno o due corpi, forse a una donna minuta, a Mirella Gregori o Emanuela Orlandi, due ragazze che neanche si conoscevano, ma che all’epoca della scomparsa – tra il 7 maggio e il 22 giugno del 1983 – erano due adolescenti di quindici anni con due vite diverse e un destino simile.
Al civico 25 di via Po, sullo stesso lato su cui si affaccia villa Giorgina, proprio lì a pochi metri, tra il 1983 e il 1985 abitava Giuseppe Scimone (morto una dozzina di anni fa), in contatto con la Banda della Magliana e amico del boss Enrico “Renatino” De Pedis. In un’informativa del gruppo della Squadra mobile che indagava su Orlandi – il Fatto ha consultato il documento del settembre 2009 – si riporta una testimonianza di Sabrina Minardi, già amante di De Pedis. Minardi solleva l’ipotesi di un presunto coinvolgimento di Scimone (mai riscontrato, ndr) nella sparizione di Emanuela, riferisce di un appartamento ai Parioli e di un ascensore che sbuca in casa.
I poliziotti ricostruiscono i movimenti di Scimone, passano al setaccio più di una abitazione, anche l’affitto per oltre un biennio di via Po 25, al primo piano di una palazzina di pregio. Il prezzo era alto: due milioni e mezzo di lire al mese per l’immobile, due milioni per il mobilio per un totale di circa 400 metri quadri. È una traccia che si perde tra le piste seguite e poi abolite in oltre trent’anni, ma che adesso può aiutare nella ricerca della verità.
Complotti internazionali, papa Karol Wojtyla, ripetuti ricatti, infiniti depistaggi, la malavita romana, la banda della Magliana, i Lupi grigi, i Servizi segreti, la pedofilia, la mafia, le banche: il caso Orlandi è un coacervo di misteri, ma la suggestione che emerge tra le carte dell’ultima inchiesta (archiviata) assume un valore dopo l’inquietante ritrovamento perché riporta al nome di De Pedis attraverso Scimone.
Ucciso in un agguato in via del Pellegrino il 2 febbraio del ’90, De Pedis viene sepolto nel cimitero del Verano, all’improvviso due mesi dopo è trasferito – su ordine di monsignor Piero Vergari – nella cripta della basilica di Sant’Apollinare. Per una beffarda coincidenza, la scuola di musica di Emanuela era proprio in piazza Sant’Apollinare. Orlandi va a lezione quel giorno di giugno del 1983, telefona alla sorella e poi il buio. Anche gli spostamenti di Emanuela e Mirella hanno prodotto le congetture più varie.
Mirella, la ragazza di via Nomentana, prima di finire nel nulla, confida alla mamma che ha un appuntamento con un amico in piazza di Porta Pia, non lontano dal bar del padre in via Volturno e neanche dalla Nunziatura.
Il Vaticano professa prudenza, perché non esiste al momento una correlazione tra Orlandi o Gregori e i resti umani di villa Giorgina.
Il medico legale ha appurato soltanto che si tratta di ossa non molto consunte per andare troppo lontano nel tempo: è questione di pochi decenni, non certo di secoli. Alcune indiscrezioni non confermate spingono a supporre – per la struttura degli arti superiori e in particolare del bacino – che il massetto abbia occultato il corpo di una donna minuta. Adesso s’aspettano gli esami – che possono durare una decina di giorni – per stabilire la data e il sesso di una o più vittime e poi confrontarle con il Dna delle famiglie Orlandi e Gregori. Villa Giorgina fu costruita nel ’20 dall’architetto Clemente Busiri Vici su commissione di Isaia Levi, immersa in un parco di 20.000 metri quadri chiuso al pubblico, fu donata al Vaticano dopo la Seconda guerra mondiale. I confini toccano cinque punti del quartiere Pinciano di Roma: via Salaria, via Peri, via Caccini, largo Ponchielli e via Po 27. Lì vicino, tra il 1983 e il 1985, c’era un amico di De Pedis.

Il Fatto 1.11.18
Emanuela e Mirella, tra Sant’Apollinare e il palazzo di via Po
Misteri e bugie - Una sparì a due passi dalla basilica con i resti del boss, l’altra vicino all‘ambasciata
di Rita Di Giovacchino


Sono davvero Emanuela Orlandi e Mirella Gregori? Difficile credere dopo tanti anni che la soluzione sia a un passo, ma appena le agenzie hanno battuto la notizia che, sotto il pavimento di un locale adiacente all’Ambasciata della Santa Sede, sono stati trovati lo scheletro quasi integro di una donna e poco distante i resti di un’altra persona, forse di sesso femminile, i fantasmi del passato si sono riaffacciati con tutto il carico di interrogativi che non hanno mai trovato risposta. Una cosa è certa: il destino di queste due adolescenti per strade diverse ci conducono agli intrecci di quegli anni quando a Roma comandava la Banda della Magliana, che non era soltanto un gruppo criminale, ma il braccio armato di molti poteri e tra questi c’era anche, anzi soprattutto, il Vaticano di Paul Casimir Marcinkus. Il vescovo americano che non riuscì mai a diventare cardinale, ma che era di fatto il dominus dello Ior, il tramite tra la Santa Sede e i Servizi segreti, insomma il manovratore degli affari “indicibili” al cui centro si trovava il Vaticano.
Emanuela era nata lì, dietro le Mura Leonine, e il 22 giugno 1983 è uscita di casa alle 16 per recarsi alla scuola di musica Tommaso Ludovico da Vitctoria, dove studiava flauto traverso. Una scuola che si trova all’interno del complesso della chiesa di Sant’Apollinare, a cento metri dal Senato. Quella sera uscì in anticipo, ma a casa non è più tornata: né morta né viva. La famiglia, che vive ancora all’interno del Vaticano, dove il padre lavorava come messo pontificio, non si è mai rassegnata. Una ventina di anni dopo, si scoprì che nei sotterranei di quella chiesa, all’interno di una cripta dove sono sepolti principi, cardinali e artisti c’era anche la tomba di Enrico De Pedis, alias Renatino, il Dandy di Romanzo criminale. In poche parole l’ultimo capo della Banda della Magliana. Come era finito in quella sontuosa cripta? Mistero. L’unica spiegazione era la devozione del bandito al parroco Don Vergari, che aveva conosciuto a Regina Coeli e a cui, disse la moglie, faceva generose offerte. Ma nessuno ci ha mai creduto.
La foto che spiccava sulla lapide, tempestata di rubini, era la stessa pubblicata dai giornali quando il boss romano nel marzo 1990 fu ucciso in via del Pellegrino. Non vogliamo addentrarci nei falsi retroscena, nelle menzogne di Ali Agca, negli appelli del Papa, nei depistaggi e negli ultimatum che che hanno scandito questa vicenda. Come in ogni sequestro anche nella sparizione di Emanuela Orlandi, l’obiettivo vero erano i soldi. Ma stavolta il riscatto era davvero importante, perché dietro il rapimento c’era la mafia. A rivelarlo è stata Sabrina Minardi, moglie di Bruno Giordano il bomber della Lazio, ma soprattutto amante di Renatino. Una donna che nel 2008 a un poliziotto rivelò: “Certo che so di Emanuela, l’ho accompagnata io in Vaticano”, Il mandante del sequestro? “Marcinkus”. Il movente: “Così chi doveva capi’ capiva”.
A gestire la faccenda, piuttosto delicata, doveva essere Renatino. In ballo c’erano i miliardi che la criminalità aveva investito nello Ior, dovevano rientrare con il 20 per cento di interessi invece erano spariti nel crac dell’Ambrosiano. Sembra che al boss sia stata riconosciuta una certa abilità nella trattativa, e forse la bella sepoltura è stato un segno di riconoscenza, ma alla fine l’inchiesta è stata archiviata dal procuratore Pignatone. Mancanza di prove, valle a trovare le prove in una storia come questa. Anche Emanuela era sepolta lì? I suoi resti furono a lungo cercati nell’ossario adiacente alla cripta, ma il Dna dimostrò che appartenevano a morti antichi: preti, viandanti, pellegrini.
Diversa è questa storia dei due scheletri occultati sotto il pavimento della Nunziatura. Quando? Sono ben conservati, per questo si indaga per omicidio. Mirella viveva sulla Nomentana, quando è sparita il 7 maggio dello stesso anno aveva detto che aveva un appuntamento a Porta Pia, a poche centinaia di metri da via Po. La madre per anni ha accusato un vicino di casa, un uomo molto più grande che si tratteneva con Mirella e una sua amica nel bar sotto casa. Non era uno qualunque, ma un pezzo grosso della Gendarmeria vaticana, a lungo indagato e poi prosciolto. Mancanza di prove. C’è poi una foto di Mirella, raggiante, al fianco del Papa durante un’audizione. Sono storie che si intrecciano quelle di Emanuela e Mirella, difficile immaginare che il mistero della loro scomparsa possa trovarsi sotto il pavimento della Nunziatura asfaltato da segreti tanto più grandi di loro.

La Stampa 1.11.18
“Ad ora non c’è alcun legame tra Emanuela  e quei corpi”


«Ma perché alla scoperta delle ossa si è parlato subito di un collegamento con la scomparsa di Emanuela?». A chiederselo è Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, che ieri mattina si è recato a piazzale Clodio con il suo legale, l’avvocato Laura Sgrò, per avere «notizie dai magistrati» sul legame tra sua sorella e le ossa trovate nell’edificio di pertinenza di Villa Giorgina, sede della Nunziatura Apostolica, in via Po a Roma.
1Pietro, cosa vi hanno detto gli inquirenti?
«Ci hanno spiegato che le indagini sono in corso e per ora è prematuro parlare. Procura e polizia sono al lavoro e noi speriamo di avere molto presto novità. Lo dobbiamo a mia sorella».
2Ma come mai questo accostamento con la scomparsa di Emanuela e con quella di Mirella Gregori (sparita anche lei nel 1983)?
«Questo è un punto interrogativo anche per me. Non capisco come una notizia del genere possa essere uscita dal Vaticano. Me lo sono chiesto e non so darmi una risposta».
3Ma voi non eravate a conoscenza del ritrovamento?
«Noi fino a due giorni fa non sapevamo nulla, ma teniamo presente che ad ora non c’è legame ufficiale tra mia sorella e quei corpi».
4Pensate di avere risposte già questa settimana?
«Noi speriamo di sì, ma è complicato. Ci vorrà qualche giorno per avere gli esiti dell’esame del Dna». E. I.

Corriere 1.11.18
Sono ossa di donna
Quel pavimento posato negli anni 80
Il caso Orlandi e i resti trovati alla Nunziatura
di Fiorenza Sarzanini


Roma Appartiene a una donna lo scheletro ritrovato sotto il pavimento nel seminterrato della Nunziatura apostolica a Roma. È questa la convinzione del medico legale che ha svolto un primo esame su quelle ossa messe poi a disposizione della polizia scientifica. Adesso si va avanti per ottenere la datazione e soprattutto il Dna da confrontare con quello di Emanuela Orlandi, ma anche di Mirella Gregori. Accanto allo scheletro ci sono infatti altri resti e ciò fa pensare che in realtà le persone sepolte sotto Villa Giorgina — dove si trova la sede diplomatica della Santa Sede in Italia — possano essere due. Secondo i primi accertamenti il pavimento è stato rifatto più volte, anche negli anni ’80 ci sono stati lavori di ristrutturazione, e dunque potrebbe essere possibile che il corpo delle ragazze sia stato sepolto lì sotto. Ma per comprendere che cosa sia davvero accaduto bisognerà attendere l’esito di tutti gli accertamenti e soprattutto le verifiche affidate dal procuratore aggiunto Francesco Caporale alla squadra mobile di Roma. E dunque per comprendere il mistero bisogna ripercorrere anche che cosa è successo nell’ultima settimana.
La consegna dei resti
L’ispettorato di pubblica sicurezza del Vaticano guidato da Luigi Carnevale viene allertato lunedì mattina. La gendarmeria chiede «collaborazione» perché alcuni operai chiamati a isolare il pavimento dello scantinato della guardiania della Nunziatura hanno trovato uno scheletro e alcune ossa. Sono intervenuti con il martello pneumatico e subito hanno notato i resti di un cadavere. Un primo esame dei reperti è stato affidato dalle stesse autorità ecclesiastiche al professor Giovanni Arcudi e poi si è deciso di chiedere l’intervento della polizia italiana. Quando la Scientifica arriva effettua la catalogazione di tutte le ossa, compreso il cranio con l’arcata dentale. Ufficialmente viene escluso che ci fossero altri oggetti (indumenti o monili), però quando la notizia diventa pubblica il ritrovamento dei resti viene subito collegato alla sparizione di Emanuela Orlandi, come se potesse esserci un indizio che riporta alla sua vicenda. Le ossa vengono dunque trasferite nei laboratori e intanto gli investigatori guidati da Luigi Silipo avviano le verifiche sui lavori compiuti in quella villa costruita in via Po nel 1920, donata al Vaticano nel 1949 e dieci anni dopo, dunque nel 1959, diventata sede della Nunziatura.
Le ristrutturazioni
Da allora nel palazzo sono stati effettuati diversi lavori. Il pavimento è stato cambiato anche negli anni ’80 e dovranno essere rintracciate le ditte che hanno compiuto le varie ristrutturazioni anche per stabilire le modalità di intervento e dunque accertare chi possa aver sepolto uno o due corpi in quel luogo. Le ossa si trovavano infatti appena sotto il pavimento e questo porta a escludere — almeno fino a che le analisi di laboratorio non dovessero smentire questa eventualità — che si tratti di resti molto datati. «Se così fosse — sottolineano gli investigatori — sarebbero state infatti ritrovate già in passato, visto che altri operai erano intervenuti con le stesse modalità, vale a dire un martello pneumatico per sostituire il pavimento».
L’omicidio volontario
Anche se non si trattasse di Emanuela Orlandi o di Mirella Gregori bisognerà stabilire a chi appartengono i resti e soprattutto quale sia la causa della morte. La Procura procede per omicidio e gli specialisti della Scientifica sono fiduciosi rispetto alla possibilità di poter ottenere un risultato attendibile attraverso l’esame dei reperti. Per quanto riguarda le comparazioni, non c’è a disposizione il Dna delle due ragazze, ma la verifica può essere effettuata grazie al codice genetico della mamma e dei fratelli delle due giovani. Un test che si svolgerà nei prossimi giorni, quando saranno state effettuate le analisi preliminari e soprattutto sarà stato estratto il Dna dal midollo delle ossa.
L’istanza ai pm
Ieri mattina Pietro Orlandi e la sua avvocatessa Laura Sgrò sono stati in Procura per chiedere di essere informati subito dell’esito degli esami. La legge impedisce che possano partecipare con un loro perito alle verifiche, almeno fino a che non dovesse esserci almeno un elemento che avvalori l’ipotesi che i resti sono di Emanuela. «Ma la famiglia — chiarisce Sgrò — attende da 35 anni di conoscere la verità e dunque anche un minimo appiglio diventa fondamentale. Per questo vogliamo sapere come mai, appena ritrovate le ossa, sia stato fatto subito il collegamento con la vicenda. Come mai in Vaticano abbiano subito pensato che potesse essere proprio lei».

Il Fatto 1.11.18
Accuse di abusi su minori: rimosso vescovo di New York


Un vescovo ausiliare di New York, monsignor John Jenik, è stato accusato di molestie sessuali nei confronti di un teenager e rimosso dai suoi incarichi pubblici. Lo ha annunciato l’arcidiocesi, che attraverso il cardinale arcivescovo di New York Timothy Dolan ha chiarito: “Anche se le accuse risalgono a decenni fa, il Consiglio di Revisione dei Laici ha concluso che gli elementi sono sufficienti per giudicarle credibili”. Monsignor Jenik ha negato le accuse, che risalgono agli anni Ottanta. Per vederci chiaro, lo Stato di New York ha avviato un’indagine sulle sue otto diocesi. Lo scandalo arriva proprio mentre l’Fbi sta indagando su un presunto “traffico di minori attraverso i confini dello Stato al fine di compiere abusi sessuali” che porterebbe a Buffalo. A far partire l’inchiesta sarebbe stata una donna che accusa di essere stata abusata da un sacerdote della diocesi, sempre nei primi anni 80. Grazie all’aiuto di una talpa, gli investigatori avrebbero scoperto come la stessa diocesi di Buffalo abbia nascosto i nomi di decine di preti molestatori.

il manifesto 1.11.18
La disoccupazione torna sopra quota 10 per cento
Rapporto Istat. L’occupazione cala soprattutto a causa della performance negativa del lavoro dipendente a tempo indeterminato. Sale ancora la disoccupazione giovanile. Gentiloni: stavolta nessuno a balcone di palazzo Chigi. Di Maio: è la coda avvelenata del Jobsact
di Nina Valoti


Nel su e giù dei decimali la disoccupazione a settembre è tornata ad un aumentare: di 0,3 punti su agosto risalendo al 10,1% e oltrepassando nuovamente la soglia psicologica della decina. Se la politica si accapiglia sui possibili effetti del decreto Dignità – in realtà inesistenti: ci saranno da novembre -, più interessanti sono le tendenze di lungo periodo. L’occupazione è diminuita (al 58,8%) soprattutto a causa della performance negativa registrata dal lavoro dipendente a tempo indeterminato.
La situazione del mercato del lavoro resta improntata a una grande incertezza con il lavoro dipendente a tempo indeterminato che crolla (- 77.000 occupati fissi su agosto, -184.000 in un anno) e quello a termine che avanza a grandi passi (+368.000 rispetto a settembre 2017, si supera quota 3,18 milioni). In pratica la percentuale di coloro che hanno un contratto a termine è passato in un solo anno dal 15,8% al 17,7% del totale dei lavoratori dipendenti. Negli ultimi due anni i lavoratori a termine sono aumentati di oltre 750.000 unità mentre quelli stabili sono diminuiti di oltre 150.000 unità. Gli indipendenti crescono lievemente e sono 5.342.000 a fronte di 23,3 milioni di occupati totali.
Torna a salire anche il tasso di disoccupazione giovanile (al 31,6%) anche se resta più basso di tre punti percentuali rispetto all’anno scorso. Questo dato è ancora più brutto perché coincide con una diminuzione del tasso di inattività dello 0,2%: settembre è mese di riattivazione per chi cerca lavoro.
Gli occupati in questa fascia di età sono sostanzialmente stabili a 1.019.000. La fascia di età che perde più occupati è quella tra i 35 e i 49 anni (-154.000 unità rispetto a settembre 2017) soprattutto a causa del passaggio nella fascia più anziana senza adeguati «rimpiazzi» da quella più giovane. Fra i generi a settembre il calo si distribuisce più sulle donne (-24mila) che sui maschi (10 mila).
La popolazione lavorativa invecchia sia a causa del cambiamento demografico, con la generazione dei baby boomers che ormai è nella fascia over 50 sia della stretta sull’accesso alla pensione. Nel 2018 si è concluso il percorso di avvicinamento dell’età di vecchiaia tra uomini e donne (a 66 anni e sette mesi) mentre l’anno prossimo dovrebbe scattare il nuovo scalino di cinque mesi portandola a 67 anni. I lavoratori over 50 a settembre sono cresciuti sia sul mese che sull’anno (+333.000) arrivando alla quota record di 8.546.000 unità (quasi tre milioni in più rispetto a 10 anni fa).
«È l’ultimo colpo di coda del Jobs act – attacca Di Maio – , da domani (oggi, ndr) entra in vigore la nostra norma». Il decreto dignità infatti dal primo novembre finisce il periodo transitorio che permetteva alle aziende di non modificare la normativa attuale.
Da oggi invece la durata massima complessiva dei contratti a tempo determinato scende da 36 a 24 mesi; il numero dei rinnovi possibili passa da 5 a 4 in 2 anni; compare l’obbligo, per il datore, di indicare dopo i primi 12 mesi una causale di lavoro specifica per giustificare il rinnovo del rapporto.
E proprio da oggi si hanno notizia dei primi licenziamenti a causa del decreto Dignità. A Taranto il Nidil Cgil denuncia come sessanta lavoratori somministrati del call center Teleperformance perderanno il posto. Un numero che può salire fino a trecento persone se contiamo tutti i contratti in scadenza. E le ripercussioni potrebbero allargarsi fino a mettere in discussione la commessa Enel.
Nelle intenzioni di Di Maio invece il limite ai rinnovi dei contratti precari incentiverà il tempo indeterminato. Ma per adesso in alcuni casi, come quello della multinazionale francese con sede in Puglia, si ottiene l’effetto opposto.
La risposta arriverà con i dati di novembre dell’Istat e quindi fra due mesi. Anche se sarà il lungo periodo a dire la verità. «Se la produzione industriale si ferma e il Pil stagna è normale si fermi la crescita occupazionale», spiega Di Maio. Ma l’ex premier Paolo Gentiloni twitta: «Istat, l’aumento della disoccupazione è allarmante. La crescita zero è grave. Il balcone di Palazzo Chigi è tristemente vuoto».

il manifesto 1.11.18
A Milano Landini unisce la Cgil: «Mescoliamoci»
Congresso. Dopo il rischio spaccatura, il "candidato" segretario di Camusso riceve la standing ovation della platea: «Impariamo a volerci bene. La Cgil è collettiva o non è, abbiamo bisogno dell’intelligenza di tutti»
di Massimo Franchi


«Questo congresso è sfortunato perché arriva dopo il direttivo di sabato». Il momento della Cgil era sintetizzato dalla battuta del segretario dei pensionati dello Spi di Milano Sergio Perino. E invece nella città di Susanna Camusso (presente in sala), proponendo come segretario quel Massimo Bonini che sabato aveva sottoscritto il documento dell’area pro-Colla, Maurizio Landini ha conquistato la platea della camera del lavoro più antica e importante d’Italia, ricostruendo quell’unità che pareva a rischio.
Dopo l’intervista-appello di Sergio Cofferati di ieri al manifesto, il clima in Cgil sembra improvvisamente migliorato. E ieri Landini nel suo intervento – terminato con una «standing ovation» – ha per la prima volta parlato in pubblico dell’indicazione ricevuta da Camusso nella segreteria di ormai tre settimane fa. «L’unità della Cgil c’è, non la dobbiamo costruire: è nel 98 per cento dei voti al documento “Il lavoro è” che è merito di tutti e che prevedeva un percorso fatto insieme, compresa la proposta fatta da Susanna che non riguarda solo una proposta nominativa ma è più complessiva a partire dalla contrattazione inclusiva e dalla necessità di cambiare in un processo di continuità».
Sulla nomina Landini spiega: «La Cgil mi ha insegnato a comportarmi in un certo modo, non mi sono mai candidato a nulla. Quando la segretaria generale ci ha informati sono stato felice cinque minuti ma poi non vi nascondo che la notte non ho dormito», racconta tra le risate.
Poi arriva l’invito a tutti: «La Cgil è collettiva o non è, abbiamo bisogno dell’intelligenza di tutti, di mescolarci: è questa la nostra forza». Poi ha concluso citando una frase della stessa Camusso: «All’assemblea nazionale delle donne ha detto una cosa rivolta a tutta l’organizzazione che noi uomini facciamo fatica a fare: “Imparare a volersi bene”. Mi ha fatto pensare che non ci sono cose personali che vengono prima dell’interesse della Cgil, sapendoci dire la verità. Sono sicuro che siamo persone intelligenti e se ci vogliamo bene saremo in grado di fare un grande congresso e dare un messaggio a tutto il paese», ha concluso.
Il congresso di Milano si è chiuso con la conferma del giovane Massimo Bonini, votato da tutti (114 voti a favore, 10 contrari, 9 astenuti e tre schede nulle): l’abbraccio con Landini e Camusso pare un buon viatico per una ricomposizione. Il direttivo di domenica 11 novembre dovrebbe suggellarlo.

Corriere 1.11.18
Landini corre per il dopo-Camusso:
«La Cgil è collettiva o non è»
di Enr. Ma.


La scelta del segretario generale della Cgil che dovrà prendere il posto di Susanna Camusso il cui mandato scade sabato prossimo sta lacerando la confederazione. Con una mossa a sorpresa Camusso, dopo aver consultato le strutture di categoria e territoriali, ha proposto l’ex leader della Fiom (metalmeccanici) e ora membro della segreteria confederale, Maurizio Landini. Ma questa indicazione ha provocato la rivolta di importanti strutture della Cgil. Sabato scorso, nella riunione del direttivo, cioè il parlamentino della confederazione, la spaccatura è venuta fuori in tutta la sua drammaticità. Per evitare che la situazione precipitasse dopo che erano stati presentati due ordini del giorno contrapposti, uno della segreteria confederale, e uno da parte di sostenitori di Vincenzo Colla, ex leader dell’Emilia Romagna, e anche lui attualmente membro della segreteria, la riunione del direttivo è stata interrotta prima che i due documenti fossero votati e rinviata. Il nuovo appuntamento è fissato per l’11 novembre. Landini, secondo Camusso sarebbe sostenuto da un’«ampia maggioranza», ma con Colla sono schierati pensionati, chimici, edili, e diversi territori. Ieri Landini ha rotto gli indugi e ha formalizzato la sua candidatura, cosa che invece Colla non ha ancora fatto. La mossa del primo può essere interpretata come un segnale di forza. Ma ora Landini ha il problema di evitare che il sindacato si spacchi: «La Cgil o è collettiva o non è», ha detto ieri.

il manifesto 1.11.18
Dopo il liceo Mamiani la staffetta contro il governo passa al Virgilio
Roma. La protesta delle scuole, le occupazioni 'coordinate' degli studenti. Si torna in piazza il 9 novembre
di Giansandro Merli


ROMA Davanti al portone di legno scuro del liceo classico Virgilio, a Roma in via Giulia, ci sono due tavoli. Sette ragazze e un ragazzo presidiano l’ingresso dell’unica scuola rimasta aperta durante il nubifragio di lunedì, nonostante l’ordinanza della sindaca Virginia Raggi. L’edificio era stato occupato il giorno prima, per dare seguito a una decisione «quasi unanime» dell’assemblea d’istituto. La protesta non è un caso isolato, ma fa parte di una vera e propria staffetta tra le scuole superiori romane.
«Abbiamo occupato contro questo governo – dice secco Sebastiano, studente del quinto anno – E perché non ci sentiamo rappresentati da nessuna opposizione, soprattutto quella del Partito Democratico, contro cui ci siamo battuti fino a poco tempo fa». Continua: «Si è deciso di organizzare le occupazioni su un piano cittadino perché i problemi sono di natura politica, non riguardano le singole scuole. Dopo di noi, toccherà a un altro istituto. Vogliamo che nei prossimi due mesi ci sia sempre una scuola occupata, per mantenere uno stato di agitazione permanente che sostenga le iniziative di opposizione al governo».
La staffetta è iniziata la settimana scorsa al Mamiani, un altro liceo storico della capitale. La mobilitazione è coordinata da un’assemblea cittadina, che riunisce quindici scuole e sta scrivendo un manifesto con le rivendicazioni degli studenti.
«Di fronte a un nemico più grande non si possono fare passi indietro – dice Zeudi, che frequenta il quarto anno – Bisogna portare la sfida su un piano più alto. Non avevamo fiducia neanche nei governi precedenti, ma il fatto che un partito razzista e xenofobo sia al governo costituisce un grave pericolo. Si moltiplicano le aggressioni contro i migranti, mentre il ddl Pillon e le mozioni contro il diritto all’aborto provano a riportare indietro di cinquant’anni la condizione delle donne. Non vogliamo crescere in un Paese simile. Stiamo protestando per questo».
Nella scuola occupata si tengono corsi, dibattiti e assemblee. Si affrontano tematiche locali e di politica internazionale, dal referendum su Atac alla questione palestinese. Attraverso l’autogestione delle lezioni e degli spazi si formano nuovi punti di vista critici.
Elena è al primo anno, frequenta il Virgilio da un mese e mezzo: «Quest’occupazione mi ha reso orgogliosa della mia scuola. Ho partecipato a tutti i corsi. È importante discutere insieme, tra noi studenti, di quello che sta accadendo. Ad esempio sul piano del razzismo: non capisco come un essere umano possa permettere che uomini e donne perdano la vita in mezzo al Mediterraneo».
Ieri Gildo de Angelis, direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio, ha invitato la polizia a identificare gli studenti. La Questura di Roma, però, ha precisato di non aver ricevuto richieste di intervento dalla vicepresidenza del liceo, che si è limitata a denunciare l’occupazione. Gli studenti, comunque, continueranno la protesta. Il prossimo appuntamento di piazza è previsto per il 9 novembre.

il manifesto 1.11.18
La «bomba» etnica esplode a destra. Ucraina e Ungheria ai ferri corti
Questione magiara. Scontro sulla Transcarpazia. Kiev: «È aggressione». Orbán pone il veto per la Ue e la Nato. Da Budapest passaporto ai cittadini ucraini di origine ungherese
di Yurii Colombo


MOSCA C’è una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in Europa orientale su cui paesi e stampa europea sembrano voler chiudere gli occhi. Si tratta della guerra sotterranea che oppone l’Ungheria di Viktor Orbán all’Ucraina di Petr Poroshenko. I rapporti tra i due paesi sono improvvisamente peggiorati nel 2017, dopo la decisione del governo di Kiev di impedire l’insegnamento nelle scuole di Stato delle lingue delle minoranze nazionali presenti nel paese.
L’iniziativa era indirizzata principalmente con le popolazioni di etnia russa nell’Ucraina Orientale ma ha finito per coinvolgere le minoranze delle regioni occidentale e in particolare quelle rumene, polacche e ungheresi.
Se le proteste di Bucarest e Varsavia si sono per ora limitate alla dimensione diplomatica, le relazioni tra Budapest e Kiev sono giunte al punto di rottura. La scorsa primavera i rappresentanti ungheresi a Bruxelles hanno posto il veto «all’ingresso dell’Ucraina nella Ue nella Nato fino a quanto questa non rispetterà i diritti civili e umani»: posizione assai originale per un paese non certo alfiere delle liberà civili al pari della stessa Ucraina. La partita della Transcarpazia (regione ucraina abitata da oltre 150mila persone di origine ungherese passata all’Unione sovietica al termine della Seconda guerra mondiale) si trasforma ogni giorno di più nello scontro tra due paesi iper-nazionalisti e reazionari che dimostra quanto il «sovranismo» sia unito solo dalla fobia per l’Europa.
IL GOVERNO ungherese ha deciso inoltre di fornire il passaporto ungherese a tutti i cittadini ucraini di origine magiara che ne faranno richiesta. Un provvedimento che permette a chi ne fa richiesta di diventare cittadino dell’Unione e di poter circolare liberamente in Europa. A settembre a seguito dello «scandalo dei passaporti ungheresi» per i cittadini ucraini presso il consolato della città di Beregovo, Kiev ha rispedito a casa il console ungherese di Beregovo giudicata «persona non grata», Budapest, a sua volta, ha risposto con misure speculari. Il 3 ottobre scorso il ministro degli esteri ucraino Pavel Klimkin dopo un incontro a New York, conclusosi con un nulla di fatto, con il suo omologo magiaro Peter Siyarto ha accusato Orbán di «stare preparando l’annessione della Trascarpazia e ha definito Budapest «paese aggressore», accusa che fino ad oggi era stato riservata solo alla Russia. A Kiev si teme stia iniziando un processo di balcanizzazione del paese sotto l’egida di Putin e Orbán. Questi ultimi due divenuti improvvisamente alleati nel 2015 dopo che la Russia decise di garantire uno sconto del 50% sulla bolletta del gas e del petrolio ungheresi, ora potrebbe voler chiudere in una tenaglia il paese slavo.
PER LA POLITOLOGA Olga Rykova «Orbán dichiara che l’Ucraina non diventerà membro dell’Ue e della Nato, perché la Russia non lo permetterà. Ma ciò non è fatto gratuitamente, visti i segreti investimenti che giungono in Ungheria dai circoli oligarchici russi. E non importa cosa si dica a Budapest: questa politica è vantaggiosa per loro come per il Cremlino».
Kiev potrebbe perdere la Transcarpazia in futuro, conferma Georgy Tuka, vice capo del Ministero per i territori temporaneamente occupati dell’Ucraina, in un’intervista al portale ucraino Observer. «A differenza della Crimea e del Donbass, la Transcarpazia non l’abbiamo ancora persa, ma sono assolutamente d’accordo sul fatto che la stiamo perdendo perché manca una politica del governo centrale» ha accusato Tuka. Da parte ucraina si accusa anche lo Stato maggiore magiaro di aver ammassato reparti al confine in attesa di «trovare un pretesto per intervenire e provocare un conflitto». Una accusa respinta dalla controparte la quale invece accusa «i nazionalisti ucraini di estrema destra di azioni di guerriglia con lanci di bombe a mano e molotov in Transcarpazia».

La Stampa 1.11.18
L’Austria esce dal patto Onu per le migrazioni: “Limita la sovranità del nostro Paese”
L’accordo internazionale che punta a difendere i diritti dei rifugiati entrerà in vigore a dicembre. Prima di Vienna, anche Usa e Ungheria si sono sfilati. Il governo Kurz: “Migrare non è un diritto fondamentale”
di Letizia Tortello

qui

La Stampa 1.11.18
La sfida di Kurz
“Non firmerò il patto Onu sui migranti”
di Walter Rauhe


La piccola Austria sfida il resto del mondo e non firmerà il patto sui migranti delle Nazioni Unite approvato nel luglio scorso da 192 Paesi e che verrà formalizzato ufficialmente il prossimo 11 e 12 dicembre a Marrakesh.
A comunicarlo è stato ieri a Vienna il cancelliere austriaco Sebastian Kurz che ha tentato di giustificare la decisione con i «rischi attorno alla sovranità dei singoli Paesi membri e all’ingerenza nella loro autonomia da parte delle Nazioni Unite».
Con questo annuncio Vienna si schiera dalla parte dell’amministrazione statunitense di Donald Trump che aveva già annunciato di non voler firmare il documento e si è allineata all’Ungheria di Orban che ha cestinato le 34 pagine del patto dopo averlo approvato. Al tempo stesso la mossa di Kurz ha ottenuto l’applauso entusiasta dei leader della destra populista di mezz’Europa. «Congratulazioni a quelle nazioni che difendono la loro sovranità in materia di immigrazione. Il buon senso è di ritorno in Europa», ha dichiarato la leader del Ressemmblement National (ex Front National), Marine le Pen, mentre l’esponente della tedesca Alternative für Deutschland, Alice Weidel ha commentato così la decisione del governo austriaco. «È una decisione logica che va nell’interesse del popolo. Anche la Germania non dovrebbe firmare questo penoso lavoro».
L’obiettivo del patto, portato avanti da Svizzera e Messico sotto l’egida del presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, in realtà non è certo quello di promuovere in qualche modo la migrazione, bensì quello di favorire politiche globali per l’organizzazione e gestione di una migrazione sicura, controllata e ordinata. Fra i 10 punti principali contenuti nel patto, figura anche quello che assicura a tutti i Paesi membri il «diritto sovrano di definire autonomamente la propria politica migratoria», cosa che rende ancor più sorprendente la decisione di Kurz.
Il patto inoltre non è vincolante ma rappresenta «solamente» una sorta di dichiarazione d’intenti.
Commissione europea, Onu e numerosi Paesi compresa la Germania hanno reagito con rammarico all’annuncio del governo austriaco composto dai Popolari di Kurz e dall’estrema destra dei «Freiheitlichen» del vice cancelliere nonché ministro del Servizio civile e dello Sport Heinz-Christian Strache che si oppone con veemenza al riconoscimento della migrazione come un «diritto umano».
L’Austria del resto potrebbe essere presto in «buona» compagnia. Oltre all’Ungheria anche la Polonia potrebbe a breve seguire un atteggiamento simile a quello austriaco.

Repubblica 1.11.18
L’operatrice tv ungherese
Prese a calci un bimbo migrante: assolta
di Andrea Tarquini


BERLINO, GERMANIA Per la giustizia ungherese prendere a calci bambini e i loro genitori non è reato. È la sentenza emessa ieri dalla Corte suprema magiara, che ha assolto Petra László, l’operatrice televisiva ungherese divenuta tristemente nota in tutto il mondo perché nel settembre 2015, riprendendo la fuga in massa dei migranti prese a calci due bimbi siriani e il padre di uno di loro, allenatore di calcio che poi trovò lavoro in Spagna.
Petra László stava lavorando per una rete tv riprendendo i migranti che entravano in Ungheria dal confine con la Serbia presso la città di frontiera magiara di Röszke. Passavano ancora, affollarono Budapest ammassati nella Keleti Palyaudvár, la maggiore stazione ferroviaria di Budapest, per poi proseguire verso l’Austria.
Fu allora che il premier sovranista ungherese Viktor Orbán decise di blindare il confine serbo-magiaro con una recinzione doppia di filo spinato e lame di rasoio alta quattro metri, sempre vegliata da sensori, telecamere, agenti di polizia e forze speciali. In mezzo alla marea che correva nei campi, Petra László con la telecamera in spalla prese a calci un uomo e i suoi due bimbi. Il caso divenne uno scandalo internazionale, l’operatrice tv – che si diceva simpatizzante di Jobbik, il partito di estrema destra all’opposizione contro Orbán – fu licenziata a causa della pressione dell’opinione pubblica globale. E nel 2017 in un processo di prima istanza fu condannata per violenze a tre anni con la condizionale.
Presentò ricorso, e adesso ha definitivamente vinto, in un paese dove il controllo politico sulla magistratura è ad alto livello.
Secondo la Corte suprema il comportamento della signora László è illecito e scorretto, ma non criminale. E va anche considerato, proseguono i giudici, nel contesto in cui è avvenuto: l’atmosfera tesa di una marea umana di migranti che fugge da un intervento della polizia dopo aver rotto un cordone degli agenti. «Avevo paura», disse l’operatrice. Uno dei due bimbi presi a calci divenne famoso in Spagna per immagini in tv su un campo di calcio mano nella mano con Cristiano Ronaldo.

Il Fatto 1.11.18
Trump contestato a Pittsburgh: il voto fa sempre più paura
Elezioni di Midterm - I pronostici danno favoriti i democratici alla Camera. Sindaco e deputati locali lasciano da solo Donald
di Giampiero Gramaglia


Negli Usa, i sondaggi nel 2016 ci hanno buggerato tutti e di brutto: “Calma!, vince Hillary”, dicevano unanimi alla vigilia; e ci ritrovammo Donald Trump alla Casa Bianca. Quindi, adesso, prendiamoli con beneficio d’inventario. Ma Nate Silver, il ‘mago delle previsioni’ negli Usa, l’uomo del sito FiveThirtyEight che è la bibbia delle elezioni, calcola che i democratici abbiamo oggi tra il 78 e l’85% di probabilità di conquistare la Camera, mentre il Senato resterà quasi sicuramente repubblicano – c’è una chance su 6 che i democratici ribaltino la situazione – È strano, visto che alla Camera i democratici devono ‘ribaltare’ una ventina di seggi per rovesciare la maggioranza, mentre al Senato ne basterebbero due o tre. Ma i seggi in palio al Senato sono solo 33 e per due terzi dem.
Nonostante i pronostici sfavorevoli il presidente Donald Trump s’affanna, con un forcing di comizi, a chiamare a raccolta i suoi sostenitori e fa fuochi d’artificio per galvanizzarli: militari alla frontiera – ben 5200 – per fermare la carovana di migranti che da Honduras e Guatemala risalendo il Messico s’avvicina al Rio Grande; e il progetto di limitare lo ius soli, escludendone i figli dei clandestini. Ma la spirale di violenza che s’è innescata sulla campagna gioca contro Trump: le lettere esplosive mandate dall’“Usabomber” Cesar Sayoc, un suo fan di 56 anni, a una dozzina di suoi oppositori; e la strage anti-semita nella sinagoga di Pittsburgh “L’Albero della Vita” – 11 le vittime di un razzista di 46 anni, Robert Bowers – sono addebitate al linguaggio divisivo e provocatorio del presidente, che ha sdoganato coi suoi commenti suprematisti e sovranisti, dicendosi populista e nazionalista.
Sui luoghi della sparatoria di Pittsburgh, Trump s’è fatto accompagnare dalla famiglia – c’era pure Jared Kushner, il “primo genero”, marito della “prima figlia” Ivanka, un finanziere ebreo -: fiori e preghiere. Ma il presidente è stato bersaglio di contestazioni; né il sindaco Bill Peduto, democratico, né gli eletti locali si sono fatti vedere al suo fianco.
Dalla sinagoga, Trump è andato in ospedale a incontrare alcuni dei feriti. Il suo corteo ha dovuto cambiare percorso per evitare la protesta: centinaia di persone agitavano cartelli anti-presidente. Solo il ministro israeliano Naftali Bennett lo difende, ricordandone l’amicizia per Israele: l’ambasciata trasferita a Gerusalemme val bene un elogio. Nelle elezioni presidenziali la Pennsylvania è uno Stato sempre democratico dal 2000, ad eccezione del 2016: le promesse di Trump di riportare negli Usa i posti di lavoro dell’industria manifatturiera – Pittsburgh è una capitale dell’acciaio – fecero breccia in un elettorato che pare ora disilluso. Però, il tasso di gradimento del presidente non è ai minimi: il 42% degli americani ne approva l’operato, il 53% lo boccia.
Che la posta in palio il 6 novembre sia alta lo conferma il fatto che le elezioni saranno le più costose della storia Usa. Candidati, comitati e partiti hanno già speso 4,7 miliardi di dollari. Il Center for responsive Politics calcola che, a urne chiuse, la cifra supererà i 5,2 miliardi di dollari, con un balzo del 35% rispetto al 2014. Alla Camera, i democratici fanno meglio dei repubblicani nella raccolta fondi: 951 milioni di dollari contro 637. Anche l’andamento del voto anticipato indica interesse e partecipazione: nell’ultima settimana, sono più che raddoppiati i suffragi espressi con l’early voting, fino a raggiungere i 20 milioni (specie donne e over 65). C’è chi, a questo punto, pronostica un’affluenza record per un voto di midterm, normalmente meno partecipato delle presidenziali. “Vinceremo”, dice la leader dem alla Camera Nancy Pelosi che aspira a fare di nuovo lo speaker della Camera.

il manifesto 1.11.18
Netanyahu presto da Bolsonaro, è già alleanza tra Brasile e Israele
di Michele Giorgio


Benyamin Netanyahu parteciperà il 1 gennaio alla cerimonia di investitura del presidente brasiliano eletto Jair Bolsonaro e sarà il primo premier israeliano a visitare il paese sudamericano. Netanyahu sente che è giunta la fine dell’era del sostegno offerto dalla sinistra brasiliana alle rivendicazioni dei palestinesi. Bolsonaro, un cristiano evangelico, giudica con favore le politiche del governo di destra in Israele. In passato ha affermato che da presidente trasferirà subito l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ed effettuerà la sua prima visita all’estero nello Stato ebraico. Secondo il quotidiano Folha di San Paolo, Netanyahu ha comunicato a Bolsonaro la sua intenzione di partecipare alla cerimonia del giuramento durante la telefonata di congratulazioni fatta lunedì al neopresidente. «Mi sono congratulato con lui per la sua vittoria – ha twittato Netanyahu – gli ho detto che la sua elezione porterà a un rafforzamento dei legami tra Brasile e Israele e che aspettiamo la sua visita in Israele». (mi.gio)

La Stampa 1.11.18
Israele, i laburisti conquistano le grandi città, sconfitta per Netanyahu
di Giordano Stabile

qui

il manifesto 1.11.18
Il Pakistan non giustizierà Asia Bibi, l’ira degli islamisti
Asia. L’Alta corte annulla la condanna per blasfemia, protestano i gruppi religiosi radicali. Il premier Imran Khan in tv difende i giudici e minaccia reazioni: «Lo Stato va rispettato»
di Emanuele Giordana


L’assoluzione dal reato e la liberazione di una donna da otto anni nel braccio della morte con l’accusa di blasfemia e ritenuta innocente dall’Alta Corte del Pakistan. La reazione, verbalmente violenta e con manifestazioni di piazza di gruppuscoli islamisti radicali. La presa di posizione forte in difesa della magistratura da parte del neo premier Imran Khan. Sono, in questa sequenza, i tre fatti che hanno ieri connotato una delle giornate più calde che il nuovo esecutivo pakistano si è trovato ad affrontare e che raccontano con quanta difficoltà stia cambiando il Paese dei puri. Il caso è quello di Asia Bibi.
Cristiana di 53 anni, madre di cinque figli (che vivono a Londra), era nel braccio della morte dal 2010 accusata di aver commesso blasfemia nel 2009 e condannata in primo grado alla pena capitale, in seguito confermata dall’Alta corte di Lahore. Accusata da due musulmane di aver offeso il profeta, Asia Bibi diventa un caso internazionale che vede impegnati dai gruppi per i diritti umani al Vaticano.
Ma anche in Pakistan si discute. Più che animatamente. Gli islamisti più radicali plaudono. Altri si oppongono. Nel 2011 l’ex governatore del Punjab Salman Taseer, che ha preso posizione a sostegno di Bibi, viene ucciso in pieno giorno a Islamabad. E mentre nel 2015 i legali della donna tentano l’ultimo appello alla Corte suprema chiedendo l’abrogazione della condanna, l’assassino di Taseer, Mumtaz Qadri giustiziato nel 2016 per omicidio, diventa il protagonista di un altro caso e di altre proteste. Ieri la sentenza di assoluzione riscalda nuovamente gli animi.
La reazione degli islamisti è immediata e diffusa: Islamabad, Peshawar, Karachi, Lahore. Il volano della protesta è il gruppo Tehreek-e-Labbaik Pakistan (Tlp) guidato dal religioso Khadim Hussain Rizvi, uno dei maggiori fautori della morte di Bibi e difensore di Qadri.
L’islamista in sedia a rotelle per infiammare la folla sceglie parole forti: dice che i giudici della Corte suprema meritano di essere uccisi. Passa il segno. Con tutto il suo peso politico entra allora in azione senza esitazioni il premier Imran Khan. Accusa «segmenti» della popolazione di usare un linguaggio che viola le più elementari regole della convivenza del Paese e di attaccare ingiustamente la magistratura il cui operato deve sempre essere rispettato.
Imran Khan sceglie la tv per difendere i pilastri del diritto con una mossa che non ha molti precedenti in un Paese dove i gruppi islamisti hanno spesso mano libera, tollerati quando non sostenuti più o meno direttamente. L’uomo nuovo della politica pakistana, che si porta dietro l’appellativo di «Taleban Khan» per la sua fedeltà ai principi dell’islam e l’attacco all’ingerenza americana in Afghanistan e nel suo Paese, sembra aver voluto chiarire che con lui le cose cambieranno. E che essere buoni musulmani non significa ignorare le regole dello stato di diritto. Mette in guardia chi tira troppo la corda: se necessario lo Stato reagirà. Lo fa con la mobilitazione delle forze dell’ordine nei luoghi sensibili per prevenire violenze.
Il Punjab ha scelto di tenere oggi le scuole chiuse. E per domani ci si aspettano altre manifestazioni. Forse un messaggio televisivo non basterà a calmare le acque. Ma è un segnale importante in un Paese dove, ricorda Al Jazeera, oltre 70 persone sono state uccise in violenze legate ad accuse di blasfemia e dove una corte può ancora comminare la pena di morte per questo reato anche se poi, nell’80% dei casi, l’imputato viene assolto. I condannati sono per ora, com’era per Bibi, nel braccio della morte in attesa che la sentenza venga eseguita.

La Stampa 1.11.18
Effetto Brexit
Boom di richieste di passaporti dell’Irlanda
di Alessandra Rizzo


L’incertezza sulla Brexit sta spingendo decine di migliaia di cittadini britannici a cercare di ottenere un secondo passaporto di un Paese della Ue: le richieste per quello irlandese sono praticamente raddoppiate rispetto al periodo precedente al referendum del 2016; i discendenti dei cittadini scappati dai nazisti fanno domanda per diventare tedeschi; e anche l’interesse per la cittadinanza italiana è cresciuto enormemente.
I dati attestano i timori dei britannici per il futuro del Paese: un mancato accordo sul divorzio da Bruxelles potrebbe comportare il rischio di una lunga recessione, secondo l’agenzia di rating Standard & Poor’s. Molti voglio mantenere la possibilità di muoversi e lavorare liberamente nel blocco del 27, o temono di dover sottostare a lunghe code agli aeroporti.
Solo nei primi sei mesi di quest’anno la Repubblica d’Irlanda ha ricevuto quasi 45 mila richieste - praticamente lo stesso numero registrato in tutto il 2015, l’anno prima del referendum. I numeri danno la dimensione del boom: nel 2016, hanno fatto richiesta in oltre 63 mila; l’anno scorso 80.750. Quest’anno, se la tendenza sarà confermata, potrebbe segnare un picco. «Non c’è alcun segnale che questa corsa ai passaporti irlandesi stia scemando», ha detto al Times, che ha pubblicato i dati, il presidente della commissione Brexit del Senato irlandese Neal Richmond. I legami tra Irlanda e Regno Unito sono unici. Basta avere un genitore o un nonno irlandese per avere diritto alla cittadinanza - secondo Richmond si tratta del 10% della popolazione.
In Italia e Germania
Ma non è l’unico dato a confermare la tendenza. Cresciuti, sebbene restino più modesti, anche i numeri relativi alla Germania: nel 2015 solo 43 discendenti di profughi ebrei in fuga dai nazisti avevano fatto richiesta di cittadinanza, avvalendosi di una legge varata appositamente per riparare alle persecuzioni. Nel 2016 sono diventati 684 e l’anno scorso addirittura 1.667. Anche le richieste di informazioni su come ottenere la cittadinanza italiana sono aumentate: da circa una decina l’anno a più di mille dopo il referendum. Ma fonti diplomatiche sottolineano che solo una piccola percentuale si traduce in una domanda di passaporto (la procedura è complessa, ma chi persiste e ha successo può mantenere entrambi i passaporti). Per gli altri sudditi di sua Maestà, tornerà presto il tradizionale passaporto blu e oro introdotto per la prima volta oltre 100 anni fa. Per la gioia dei nostalgici.

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