Repubblica 31.10.18
Rossana Rossanda
"Colpa nostra se vince Salvini, la sinistra ha deluso le speranze"
Intervista di Concetto Vecchio
A luglio ho deciso di tornare in Italia, assalita dal bisogno di capire. Da Parigi, dove vivevo da dodici anni, seguivo Salvini in tv e mi prendeva vergogna per quel che vedevo. "È anche colpa mia, colpa della nostra parte", mi ripetevo. Avevo passato la vita a fare politica e reputavo la mia lontananza come un abbandono del campo. Mio marito è scomparso tre anni fa, non avevo più nessuno in Francia, qui a Roma i compagni di una vita non ci sono più, Lucio Magri, Luigi Pintor, Valentino Parlato sono tutti morti, e anche io sono molto vecchia ormai».
Rossana Rossanda, 94 anni, giornalista, scrittrice, partigiana, "la ragazza del secolo scorso", come titolò la sua famosa autobiografia, sta sfogliando nel salotto di casa i primi numeri della collezione de il manifesto, il giornale da lei fondato nel 1969. «Voglio rileggermi le cronache delle lotte operaie di allora, i lavoratori si sono battuti per i loro diritti e hanno vinto».
Che Italia ha trovato?
«Un Paese irriconoscibile, senza spina dorsale. Mi fa paura vedere quel che sta diventando».
Le fa più paura Salvini o Di Maio?
«Salvini, perché sa quello che vuole, Di Maio è sempre lì che ride».
Cosa la spaventa in Salvini?
«La prepotenza. Ho studiato a fondo il decreto sulla sicurezza, non capisco come Mattarella abbia potuto firmarlo».
Le sembra razzista?
«Lo è. Il migrante è visto soltanto come un potenziale criminale».
Che potere è questo al governo?
«È la deriva razzista del populismo. Di Maio e Salvini sono entrambi populisti, ma in maniera diversa, perché nel governo prevalgono soprattutto le idee del leghista. I Cinquestelle non riesco a prenderli sul serio».
Hanno avuto il 32 per cento, come fa a dire che non vanno presi sul serio?
«Forse è un modo sbagliato di dire. Voglio dire: non riesco a capirli. Mi dicono che molti di sinistra hanno votato per loro, ma i Cinquestelle di sinistra non hanno proprio niente».
Moltissimi ex extraparlamentari hanno votato per l’M5s. Come lo spiega? Con una proposta di radicalità che la sinistra riformista non offriva più?
«Mi sembra evidente. Hanno cercato un cambiamento vendicativo dopo che le loro speranze sono andate deluse».
Cosa ci dice questo della sinistra italiana?
«Milioni di persone votavano a sinistra perché nel suo Dna c’era la difesa dei più deboli. Questo non lo pensa più nessuno».
Questa mutazione quando avviene?
«Direi che inizia con il cambio del nome di Occhetto. Cambiare nome significa mutare la propria identità. Da allora di nomi ne hanno cambiati tre o quattro e ogni volta si sono allontanati un pezzetto dalla loro base. Veltroni è arrivato a dire che non era mai stato comunista».
Lei è ancora comunista?
«Io sì».
Per chi voterebbe oggi?
«Non saprei. Prenda i candidati segretari del Pd: Zingaretti, Minniti, Martina, Boccia, Richetti. Non li distinguo. Mi dicono che Delrio è bravo. Non dubito. Ma qual è la sua visione del mondo? Quando ero giovane a Milano ho conosciuto bene la sinistra dc, quella di Marcora e Granelli: le loro voci si distinguevano nettamente da quelle delle altre correnti.
Prenda il democristiano Fiorentino Sullo, le sue battaglie contro le speculazioni edilizie si ricordano ancora adesso».
È stupita che gli operai votino per la Lega?
«Quella è un’altra storia, più vecchia. Succedeva già 15 anni fa. Tessera Cgil e voto per la Lega».
Perché è accaduto?
«La Lega forniva spiegazioni semplici. "Se perdi il lavoro te l’ha portato via l’immigrato, e prima ancora il meridionale, il terun. Non è colpa tua. Non è colpa del sistema". Si è offerto allo stesso tempo un nemico e una consolazione».
Lei è preoccupata dello spread?
«In sé non mi pare un’indicazione di rovina, mi pare più grave fare una manovra che non porterà alcuna crescita, non porterà lavoro».
È favorevole al reddito di cittadinanza?
«In linea di principio sì, è giusto sostenere i poveri, ma poi cosa resterà? Bisogna creare lavoro. E qui sono d’accordo con quel proverbio cinese che dice: dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita».
Come si schiererà alle Europee?
«Darò un voto pro Europa, contro i pericoli fascisti che vedo in giro. Il fascismo me lo ricordo bene, perciò mi fa paura».
Ma che strade restano alla sinistra stretta tra populismo e austerità?
«A quelli che dicono che non ci sono alternative, dico guardate Sanchez e Podemos in Spagna o il piccolo Portogallo: fate come loro».
È colpita dalla semplificazione del dibattito politico?
«Sono colpita dalla volgarità.
L’altro giorno ho visto in tv una trasmissione dove tutti ripetevano "non me ne frega un cazzo", se parlavo così mio padre mi mollava come minimo una sberla».
Rimpiange di non avere avuto figli?
«Sì. Adesso mi sentirei meno sola e soprattutto avrei la percezione di avere tramandato qualcosa di me».
Perché non li ha avuti?
«Avevo molto da fare».
Come sono stati i suoi due matrimoni?
«Grandi amori. Erano entrambi molto simpatici. C’era sempre tra noi la voglia di stare assieme, non c’è niente di più bello, non trova?».
Come guarda al futuro?
«So che non ne ho più molto e in fondo non mi dispiace. Ho avuto una vita molto fortunata, ho conosciuto gente interessante».
Le figure più importanti?
«Mio suocero, il mio maestro Antonio Banfi, Sartre».
Com’era Sartre?
«Un raro caso di francese disponibile, aperto. Veniva a Roma tutti gli anni, amava l’Italia, era curioso, la de Beauvoir era più rigida».
Qual è l’ultimo libro letto?
« Le assaggiatrici di Rosella Postorino, interessante. Vorrei leggere Scurati su Mussolini».
Non sta sui social?
«Li detesto. Voglio passare all’altro mondo senza aver dato un solo euro a Zuckerberg».
Nel bilancio della sua vita prevalgono più le ragioni o i torti?
«Ho cercato di fare prevalere le ragioni, ma ho avuto grandi torti, del resto chi può negare di sé di non averne avuti».
Qual è il torto più grande?
«Non glielo dico. Lo dico con fatica anche a me stessa».
Repubblica 31.10.18
Corsi e ricorsi
Nominare (e sopportare) l’Italia invano
di Natalia Aspesi
Storie, storielle, aneddoti, misteri e rivelazioni. Filippo Ceccarelli racconta in un volume di mille pagine la politica e i politici protagonisti di una lunga stagione dal dopoguerra a oggi. "Da De Gasperi a questi qua"
C’è da chiedersi con una certa apprensione come da questo immenso e alla fine pacificante prodotto dell’ingegno, il suo autore ne sia uscito indenne di fisico e di mente: tanto risulta essere frutto di un impegno riconducibile a un Alfieri dei ritagli, degli appunti e dei sussurri, a una vita dedicata al collezionismo compulsivo del massimo effimero che ha governato e ancor più governa oggi l’Italia; il tutto rimpinzato in un archivio composto da 1500 cartelle e 334 raccoglitori, che un tir strapieno ha transumato nella biblioteca della Camera dei Deputati nell’Insula Domenicana di San Macuto, per consegnare alla stessa gli stupefacenti graffiti della nostra Storia (o storia), che sarebbe non così vecchia se non fosse morta; ma anche, ed è il buon cuore a suggerirlo, per consentire ai conviventi di un simile impressionante collezionista, di ricuperare da montagnole di carta ingiallita l’uso dei letti e delle vasca da bagno. Lui stesso, cioè il (non solo da me) venerato Filippo Ceccarelli, quella sua temeraria appendice la definisce "malloppone", come se gli sembrasse minaccioso e ingannevole chiamarla per quello che è alla sua massima potenza, un libro, anzi un librone, un’antologia del nostro recente e come sempre tribolato e tuttavia sinistramente allegro passato. Un parallelepipedo di carta e parole, cm.21x12x4, 797 gr., 962 pagine, 848 storie o forse allucinazioni, una bibliografia fittissima di ben 52 pagine, la copertina di innocente candore cresimando e il titolo in grandi caratteri rossi, incoronato dalle figurine disegnate di nostri noti 15 molestatori politici non tutti defunti, più un misterioso cagnolino, probabilmente Dudù: Invano (Feltrinelli), una parola sconsolata, fatale, come una vecchia canzone della nostra mai dimenticata Nilla Pizzi, forse non un rimpianto ma almeno un sospiro, perché alla fine poteva davvero andare meglio, non ribaltare in un baleno tutto quanto. Così nell’insieme, più che un forziere di documenti da nascondere e dimenticare, più di un portagioielli strapieno di brillante paccottiglia, pare un carillon apparentemente vuoto, da cui sibilano le note di un requiem contemporaneo particolarmente tenebroso, suggeriscono all’uopo i musicologi, del giapponese Takemitsu o dell’ungherese Ligeti. Per dire che la Storia vista da Ceccarelli si arricchisce senza sosta di storielle, aneddoti, ipotesi, gossip, ritratti, misteri, bugie, sussurri, lamenti, rivelazioni, gestacci, fotogrammi e ologrammi: tutto quel che rimane, del nostro recente molto gridato passato, già scivolato verso l’estinzione con armi bagagli e grandi personaggi via via sempre più nebbiosi. Ma Invano esiste ormai immortale, e con tutta la sua affabulazione lascerà sgomenti gli eventuali nostri posteri, sempre che ci siano dopo l’attuale tabula rasa (è già novembre ma Salvini per i suoi fan si fa ancora fotografare in spiaggia in mutande, con pancia, figliolina e prova del cuoco, mentre intanto il Popolo Italiano…): ed esiste perché non si è stati abbastanza lesti a seppellire tutti quei fatti, prima che il Ceccarelli setacciasse non solo le pepite d’oro ma anche i sassolini più insignificanti, che ha assemblato come in un leggiadro e pure truculento puzzle diventandone il creatore: e del librone quindi, il protagonista neanche tanto nell’ombra, con tutto l’ armamentario frutto della sua "febbre raccoglitrice e ordinatoria" che gli ha impedito di scartare persino un bigliettino raccattato in un cestino, un foglietto abbandonato su una bancarella, un’agendina dimenticata, una pubblicità, un necrologio, un ricordo sempre appuntato su un quadernino. Non mancano certo gli atti giudiziari, per esempio una intercettazione, Capodanno 1987, di una telefonata innocente in cui Berlusconi si lamenta con Dell’Utri: due ragazze di Drive-In li hanno bidonati, anche Craxi è furibondo, perché se comincia così poi per tutto l’anno non si scopa più!
Per capire la grandezza ceccarelliana, e per esempio la sua personale berluscomania tra berluscofobi e berluscolatri d’antan, è lui stesso a informare di «aver raccolto sul Cavaliere 34 faldoni densi e pesanti con 127 cartelline a loro volta piene di migliaia e migliaia di ritagli…e dopo aver riempito diversi scaffali di libri e opuscoli anche rari e introvabili…ulteriore materiale berlusconiano faceva cuccù dai cassetti…». Basta, adesso se ne parla sempre meno, quasi niente, come è scomparsa ormai da tempo la potentissima Dc che pareva eterna e pure il Psi da bere e il Psdi e il Liberale e il Repubblicano e l’Msi e la Lega Nord ladrona; il Pd adesso è surgelato e in sonno o come nel Padrino "sui materassi", e chissà mai se tornerà in vita, e di tutti i protagonisti di tempi che per chi li ha vissuti parevano epocali non è rimasto niente e se i tuttora in vita tentano di far capolino da qualche anfratto nessuno li prende in considerazione. E meno male che ne conserva la memoria l’archivio Ceccarelli, amabilmente condensato nel malloppone.
E il presente? L’autore affranto non ne voleva sapere. «Mi dava sollievo restare al passato, più passava, meglio era». Ma poi a un epilogo non ha resistito, perché tutto ciò che Invano racconta «ha condotto a questi qua», a quelli che definisce i ragazzotti del cambiamento, Renzi, Salvini, Di Maio, il primo momentaneamente o forse per sempre bruciato in tre anni, gli altri due un trionfo sempre più tale. Per ora. Ma si sa, la speranza non è mai morta e infatti «nell’era della istantaneità il consenso è volatile e la ruota gira. È brutto dirlo, ma questa particolare velocità, per una volta, suona come motivo di speranza e consolazione».
Lo sconcerto è che davvero il passato non c’è più, neppure per quelli che c’erano, e «che ha condotto alla regressione del sistema politico». Ma che sollievo ritornare a quei tempi oltre lo sferragliare dei partiti e le trame dei potenti, guidati da una ordinata sequenza di momenti e ritratti speciali di una storia arricchita dall’assenza del web: «Visto da vicino Andreotti non colpiva tanto per la gobba… Fanfani era detto "il Piccoletto" ma anche e significativamente "il Motorino" e "il Rieccolo"…. A poker Craxi sapeva farci davvero…In De Michelis ciò che più impressionava erano i capelli che portava lunghi - e per taluni anche unti…All’ingresso di casa Cossiga una targhetta raccomandava di non lasciare pistole incustodite… Umberto Bossi mosse i suoi primi passi e poco più che ventenne, con il nome d’arte di Donato…». Risulta al lettore una forma di affetto, di accoglienza, di perdono, persino di pena da parte del gentile autore per questi personaggi del passato tanto rumorosi e perduti.
Invece c’è una blanda lontananza, un certo fastidio, un’educata antipatia, un lampo di stizza verso i nuovi giovanotti, diciamo ormai solo due più il povero Conte. Che per la signora Letizia, madre del Ceccarelli «sembra un commesso di Cenci», un celebre negozio di abbigliamento dietro la Camera dei Deputati. Certo l’autore non rimpiange gli uomini, o donne, del nostro passato politico, se non per il contributo meraviglioso al suo archivio e di conseguenza al suo libro. Ma questi qua, quelli di adesso, vivono come i personaggi di un ininterrotto reality, in pubblico. Non c’è nulla da scoprire, da farne gossip. «Divi comuni, la socialità elettronica gli impone di mostrarsi alle moltitudini con le fidanzate o quando portano a cavalluccio i figli… Fotografano quello che mangiano, anche due uova al tegamino e lo mettono in rete…».
Però mangiare si è sempre mangiato, ma pare che manchino le immagini «di tutte le gozzoviglie, di tutte le abbuffate terminali di cui la più fiabesca nel mare cristallino della Sardegna».
Sulla maestosa imbarcazione Zeus dell’onorevole dc Leccisi, invitati Forlani, Prandini, Merloni, i fratelli Berlusconi, le zuppiere di pasta e fagioli, i tegami di orecchiette, pugliesi, le teglie di parmigiana di melanzane, di insalata di riso, di cannolicchi alla checca e avanti…
Repubblica 31.10.18
Camilleri "Come Tiresia la cecità mi rende più acuto"
Dal 5 al 7 novembre nei cinema lo spettacolo andato in scena in un’unica serata al Teatro Greco di Siracusa, regia di Roberto Andò. Protagonista lo scrittore
Intervista di di Silvia Fumarola,
ROMA Ora mi chiederanno di andare a Hollywood a fare l’attore?». Andrea Camilleri fa una di quelle sue risate roche irresistibili. L’aria rilassata, spegne una sigaretta e ne accende un’altra. Ha la scorta in un armadio, e lo sciroppo per la tosse sulla scrivania. «La passione per Tiresia, aver vinto la sfida di recitare, mi ha fatto venire voglia di fare altre cose» racconta seduto nel suo studio. «Il produttore Carlo Degli Esposti dice che andare in scena mi ha fatto diventare più giovane. Non è così, io dico che mi ha fatto crescere».
Conversazione su Tiresia con la regia di Roberto Andò (e le riprese in alta definizione di Stefano Vicario), di cui è stato protagonista per un’unica serata al Teatro Greco di Siracusa approda nei cinema (300 sale) con Nexo dal 5 al 7 novembre. In scena nei panni dell’indovino cieco Tiresia («cieco come me»), a 93 anni, per parlare del passato e del futuro, con l’ironia caustica che è il suo marchio di fabbrica.
Camilleri, lei ironizza ma sa che ha commosso tutti?
(Ridacchia) «Ma sì perché avevo detto quella frase finale un po’ ruffiana: "Spero che tra cent’anni ci ritroveremo qui". Mi è stata suggerita dall’idea dell’eternità».
In scena da solo al Teatro Greco ha avuto paura?
«La paura è fondamentale per trovare il coraggio. Rivolsi a mio padre la stessa domanda: "Quando andavi all’assalto avevi paura?".
Faceva parte della Brigata Sassari, papà era tenente e fascista, Emilio Lussu, antifascista, era il suo colonnello. Gli chiesi: papà come la metti? Mi rispose: "Lussu poteva permettersi parecchie cose"».
La cosa che colpiva di più era il silenzio.
«Ha colpito anche me, l’unico momento di vera tensione, quasi di spavento, è stato proprio quel silenzio iniziale in cui malgrado avessi un orecchio tappato dall’auricolare per ricevere i suggerimenti — di cui non ho avuto bisogno — sentii le cicale. Ho pensato: non è possibile, sto cominciando a dare i numeri.
Quella sera gli animali hanno avuto una parte importante».
In che senso?
«In camerino ho sentito qualcosa che mi sfiorava le gambe: era un gatto, che poi ha attraversato il palcoscenico mentre parlavo ed è venuto a salutarmi alla fine.
Quello per me era il Genius loci. Mi ha rinfrancato».
Quanto si è preparato per il debutto da attore?
«Ho lavorato tutti i giorni: non lavorare tutti i giorni è come avere la barba lunga, mi fa sentire in disordine. Ma guardi che non è stato il mio debutto».
Come no?
«Avevo fatto teatro nel 1950: Il poverello di Assisi, con la regia di Orazio Costa. Facevo una parte più lunga di Enrico Maria Salerno.
Lui diceva: "E il Papa?". Tre parole. La mia battuta era: "Senza il più piccolo libro?", che sono cinque.
Poi non sono mai più apparso in palcoscenico».
È disciplinato quando lavora?
«Disciplinatissimo. Scrivo tutte le mattine, detto appunti. Ma ad agosto, quando è venuta la ragazza a cui detto le mie cose, non ce l’ho fatta. Mi sono riposato un mese, dopo Tiresia. Mi ha svuotato. A settembre mi era tornata la voglia di lavorare».
Mai avuto dubbi sull’idea di andare in scena?
«Mai. Quando Andò ha parlato con la mia curatrice Valentina Alferj ho detto subito di sì, l’ho considerata una sfida con me stesso, con la memoria e i miei 90 anni passati: è stato un modo per assicurarmi di essere vivo. Mi è venuto subito in mente Tiresia per la cecità. Ma da quando ho perso la vista ho la sensazione di vedere con più chiarezza. Poi ho chiesto a Laura, la mia aiutante, di fare una ricerca su Tiresia. Era incinta e doveva stare a riposo. Deve sapere che avverto sempre le ragazze che vengono qui a lavorare: questa stanza aumenta la fertilità.
Credevo che mi avrebbe mandato una ventina di pagine, invece erano quattro faldoni».
Il dono della preveggenza è una condanna?
«Penso di sì, perché di ogni persona vedi dolori e dispiaceri.
Ma in certi casi avere un po’ di lungimiranza aiuterebbe».
Cosa l’ha affascinata in Tiresia?
«L’ambiguità. Per sette anni è stato compiutamente donna, poi è tornato uomo. Mi affascina l’idea.
Da scrittore sono entrato nella testa delle donne ma spero di non incontrare quelle dei miei libri, sarei imbarazzato dopo averle possedute, create e molte uccise.
In Montalbano c’è una frase sul femminicidio che risale a sette anni fa. Non bisognava essere Tiresia per prevedere quegli sviluppi. Da ex uomo, penso che si debbano cedere le armi alle donne. È ora che il pensiero femminile domini il mondo».
Che effetto le fa l’idea che il teatro conquisti il cinema?
«Ho risentito tutto lo spettacolo.
Ascoltare le mie parole e non vedere nulla del pubblico è terribile. Ma lo sentivo respirare, percepivo i respiri. Una delle mie necessità quando parlo in pubblico è scegliermi una faccia per vedere le reazioni. Non posso più farlo, non ho più quella risposta, ma avevo quella uditiva.
Una grande emozione».
Il momento più forte?
«Gli applausi. Ma la cosa folle è che mi avevano messo una giacca di lana cotta temendo che sentissi freddo. E il calore aumentava con gli applausi».
Si capisce che quella di Tiresia non resterà un’esperienza isolata.
«Sto pensando a una storia da almeno dieci anni, quella del condottiero spagnolo Álvar Núñez Cabeza de Vaca che intorno al 1500 parte per l’America con una spedizione e torna dopo nove anni da prigioniero degli indigeni.
Quando ritrova i compagni è incapace di vestirsi con gli abiti europei, non sa più dormire in un letto ed è diventato uno sciamano. Da conquistatore viene conquistato. Dimentica la civiltà».
Oggi manca un Tiresia?
«Se in Italia ci fosse una persona lungimirante non saremmo con lo spread a 300. Si sente una forte assenza di Tiresia perché al governo si ragiona con un’ampiezza di vedute che va da oggi a 24 ore. Da che dipende?
Dalla presunzione. E poi questo seminare odio è inaccettabile. Il discorso della senatrice Liliana Segre sulle parole che possono diffondere l’odio è bellissimo, Tiresia non usa mai la parola odio. Vendetta sì».
Il complimento più bello?
«Quello di Michele Riondino: "Andrea non sta recitando, sta testimoniando"».
Repubblica 31.10.18
L’inchiesta
L’ultima caccia alla materia invisibile
La tela oscura dell’Universo Dalla Nasa a Frascati, gli scienziati studiano la materia invisibile
di Elena Dusi
È il 22% dell’universo e tiene insieme le galassie. Ma è così oscura da sfuggire a ogni test. Ci riprova un team italiano di FRASCATI.
È un filamento invisibile, ma sposta luce e materia. Infrange le regole note della fisica. Se con una mano lascia una traccia, con l’altra si affretta a negarla. In tanti affermano di aver percepito la sua presenza, ma nessuno ha fornito le prove. Il fisico di Princeton Cristiano Galbiati, coordinatore dell’esperimento DarkSide ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso, nel libro appena uscito Le entità oscure la paragona alla «nebbia di Totò e Peppino», che c’è e non si vede. Poi riprende il contegno e si rivolge a lei con la giusta gravità: si tratta di una « divinità ctonia » la cui « caccia è appena cominciata. E nessuno sa predire quando saranno cantate le gesta dei cacciatori » . La materia oscura, il fantasma dell’universo, è mistero troppo affascinante per non avere una giornata mondiale, con eventi e conferenze ( www. darkmatterday. com). E questa giornata non poteva che coincidere con il 31 ottobre: Halloween, la celebrazione dell’occulto per eccellenza.
Da inizio ottobre, intanto, in una sala dei Laboratori di Frascati dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), potrebbe aggirarsi una particella chiamata “fotone oscuro”. A produrlo sarebbe un fascio di elettroni positivi (positroni) sparati contro un diamante artificiale spesso un decimo di millimetro. A guardarlo, l’apparato può ricordare la macchina del tempo del film The time machine, del 1960. È costruito anche con pezzi riciclati di esperimenti dismessi, né gli scienziati hanno perso tempo a lucidarlo, prima di accenderlo. Eppure, se la loro teoria è giusta, qui potrebbero spalancarsi le porte del mondo nascosto. «L’ipotesi è che esista un universo parallelo al nostro, ma oscuro, composto da particelle che non conosciamo » , suggerisce Pierluigi Campana, direttore dei Laboratori di Frascati. «Il fotone oscuro, fungerebbe da ponte tra i due mondi. Ma se ci sbagliassimo, potrebbe voler dire che fra i due universi non ci sia comunicazione».
La scommessa è ad alto rischio, un po’ come se gli scienziati avessero comprato un biglietto della lotteria. Il premio sarebbe la soluzione di un mistero nato nel 1933, quando il nome Dunkle Materie venne coniato dall’astronomo svizzero Fritz Zwicky. Alla velocità a cui si spostano – notò perplesso – le galassie della Chioma di Berenice dovrebbero divergere. Invece restano unite. Cosa esercita una forza di gravità così intensa? All’epoca però la fisica aveva altri problemi per la testa. Perché la materia oscura si imponga, occorre che si esaurisca l’impegno nucleare e che telescopi abbastanza potenti decifrino la danza degli oggetti celesti. Alla fine degli anni ’ 70 si conferma che la coreografia degli astri è incompatibile con la fisica di Newton. Si ipotizza la presenza di una massa invisibile, capace di esercitare la sua forza di gravità su stelle e galassie, ma non di interagire con la forza elettromagnetica (generando luce). Oggi sappiamo che la materia oscura “pesa” per il 22% dell’universo. L’ancor più arcana energia oscura rappresenta il 73% della massa del cosmo. Ci resta in mano un misero 5%. È tutto quel che possiamo conoscere: la materia fatta di quark, elettroni, protoni, atomi. I libri di fisica spiegano solo la punta dell’iceberg.
Al di sotto, associata al fotone oscuro, potrebbe esserci anche la fantomatica “ quinta forza” ( oltre alle quattro già note: forte, debole, elettromagnetica e gravitazionale). Non a caso il nome Padme rimanda a una regina di Guerre Stellari. «A differenza del fotone ordinario, quello oscuro sarebbe dotato di una piccola massa», spiega Mauro Raggi coordinatore di Padme, ricercatore dell’Infn e dell’Università La Sapienza. « Potrebbe nascondersi tra i fotoni normali. Per scovarlo serve uno sguardo molto attento». I positroni, spiega Paolo Valente, anche lui coordinatore di Padme, ricercatore di Infn e Sapienza. « incontrano gli elettroni del diamante e si annichilano » . Le collisioni si succedono al ritmo di un milione al secondo. « Dall’interazione si formano un fotone luminoso e uno oscuro » . Cogliere la presenza di quest’ultimo è impossibile. L’unica soluzione è catturarne l’assenza. «Alla fine del percorso – prosegue Raggi – misuriamo l’energia dei fotoni ordinari. Se è inferiore a quella immessa con i positroni, la quota mancante appartiene ai fotoni oscuri». Con lo stesso metodo di prova indiretto, in fondo, fu confermata l’esistenza di un’altra particella forastica: i neutrini.
I fotoni oscuri sono un’idea che risale agli anni ’80. Ma solo oggi, dopo il mancato successo di tutte le “strategie di caccia”, la strana ipotesi è stata ripescata. A mani più o meno vuote infatti stanno restando tutti i tentativi di “cattura diretta” delle presunte particelle di materia oscura, dal Gran Sasso al Polo Sud, passando per le miniere di Usa, Corea del Sud e Cina. Un contributo decisivo non è arrivato nemmeno dai rivelatori dello spazio: satelliti come l’italiano Pamela o quello della Nasa Ams- 02. Certo, dei circa 50 esperimenti in corso per catturare il “fantasma dell’universo” alcuni hanno trovato indizi abbastanza suggestivi da motivare i ricercatori ad andare avanti. Ma mai abbastanza nitidi da “ illuminare” la strada giusta. Prendiamo l’esempio di Dama-Libra, un rivelatore dell’Infn al Gran Sasso. Dal 1998 osserva un eccesso di quelle che ritiene essere particelle di materia oscura in estate, quando la direzione del moto della Terra attorno al Sole si somma a quella del Sole attorno al centro della galassia. Il nostro pianeta è sottoposto così a un flusso più intenso di (presunta) materia oscura. Nessun altro esperimento, è il problema, è mai riuscito a replicare (e quindi convalidare) i dati di Dama-Libra. In orbita, Pamela prima e Ams-02 poi hanno misurato un “vento” di positroni che potrebbe provenire dall’annichilamento di particelle di materia oscura. Ma avrebbero dovuto incontrare un flusso analogo di antiprotoni. Perché il “ fantasma” avrebbe deciso di rivelarsi solo a metà? Né Lhc, l’acceleratore di particelle del Cern, è riuscito a catturare una delle tante particelle ipotizzate come i “ mattoni” della materia oscura. Tanto che fra i fisici ora c’è chi ipotizza che le “divinità ctonie” non esistano affatto. Sono le leggi degli “ dei della fisica”, Newton e Einstein, a dover essere riviste.
Gli indizi sulla materia oscura raccolti in 30 anni di ricerche sono che le sue particelle ( se esistono) non hanno carica elettrica, si muovono lentamente e sono distribuite in filamenti: le vie di aggregazione lungo le quali si formano stelle e galassie. Come tutti i fantasmi, sono longeve: si stima che si siano formate ai tempi del Big Bang. Da poco abbiamo scoperto come apparirebbe il cosmo senza la parte sommersa dell’iceberg. La galassia della Balena è l’unico oggetto celeste noto privo di materia oscura: si presenta come una zuppa di gas scialba e gelatinosa, povera di astri, molto diversa dalla Via Lattea. Ci avevano spiegato che siamo polvere di stelle, ma era solo una parte della storia. Fra tre mesi potremmo saperne di più, se Padme avrà vinto la sua lotteria di fine anno.
Repubblica 31.10.18
È ora di centrare il bersaglio
Ecco perché, dopo trent’anni, ha senso continuare a cercare
di Gianfranco Bertone
Un’inquietudine agita gli scienziati che studiano l’origine e l’evoluzione dell’universo. La soluzione di uno dei più impenetrabili misteri della scienza moderna, la materia oscura, sembrava a portata di mano. Invece, nonostante decenni di tentativi, il mistero resta fitto. E in tanti cominciano a sospettare di avere seguito troppo a lungo una falsa pista.
Tutto è cominciato negli anni ‘80. Una serie di scoperte aveva svelato l’esistenza di una misteriosa forma di materia che sembrava sostenere, come un’invisibile impalcatura, le galassie dell’universo. Fu chiamata materia oscura perché invisibile ai telescopi e si capì presto che si trattava di qualcosa di diverso dalla materia a noi familiare, fatta di atomi. Gli astronomi credettero di poterne spiegare gli effetti, ipotizzando che nelle periferie delle galassie si nascondessero popolazioni di stelle deboli o spente. O cumuli di gas freddo e oscuro. O gigantesche nuvole di neutrini. Ma queste ipotesi ebbero vita breve, e divenne chiaro che erano incompatibili con le osservazioni. Come diceva Sherlock Holmes “ eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”: la materia oscura doveva essere composta di una forma nuova di materia!
Per una strana coincidenza, in quegli anni i fisici teorici stavano cercando una risposta ad alcune domande: perché le forze fondamentali della natura sono così diverse tra loro? È possibile che derivino da una stessa teoria “ unificata” della natura? Le teorie proposte prevedevano l’esistenza di nuove particelle elementari. E le proprietà di queste particelle coincidevano con quelle della materia oscura.
Sembrava una soluzione perfetta: le particelle proposte per risolvere dei problemi di fisica fondamentale potevano spiegare la materia oscura. Un duplice vantaggio, ma anche un ponte tra micro e macro- cosmo. È partita cosi una caccia alle particelle di materia oscura che ha impegnato, e impegna tutt’oggi, migliaia di ricercatori. E che si avvale di spettacolari apparati sperimentali, come il grande acceleratore di particelle del Cern di Ginevra, gli esperimenti dei laboratori nazionali del Gran Sasso e di altri laboratori sotterranei, e numerosi satelliti scientifici in orbita.
Ma nonostante più di trent’anni di sforzi da parte dei fisici teorici e sperimentali, nessuno è riuscito a catturare questo tipo di particelle. Questo comincia a insospettire anche i più strenui sostenitori di questa ipotesi. Dobbiamo continuare a cercare? Fin dove ha senso spingersi? E se queste particelle non esistessero, e la spiegazione fosse completamente diversa?
In questa situazione di inquietudine, gli scienziati fanno quello che sanno fare meglio: propongono idee alternative e provano a verificarle sperimentalmente. I fisici delle particelle hanno così cominciato a esplorare nuove strade, che includono anche l’esperimento Padme da poco inaugurato a Frascati.
E intanto la ricerca della materia oscura contagia altre comunità di scienziati. Gli astronomi avranno presto molto da dire sul comportamento della materia oscura e sulla validità delle teorie attuali grazie ad una serie di nuove campagne di osservazione – i cosiddetti survey astronomici – che forniranno una valanga di dati preziosi. Il Large Synoptic Survey Telescope, ad esempio, produrrà una mappa dettagliatissima di 25’ 000 gradi quadrati del cielo, più di metà della volta celeste, generando più di 20 Terabytes di dati ogni notte!
Altre informazioni potrebbero arrivare da una nuova branca della fisica e dell’astronomia: le onde gravitazionali. Rivelate direttamente per la prima volta nel 2016, ci permettono di ‘ ascoltare’ fenomeni che resterebbero avvolti nelle tenebre dell’universo profondo. Potremo verificare una delle idee più interessanti di Stephen Hawking, secondo cui la materia oscura potrebbe essere costituita da buchi neri “ primordiali” creati nei primissimi istanti dell’universo. E potremo cercare la “firma” che le particelle di materia oscura lasciano sulle onde gravitazionali. Ci sono buoni motivi per essere ottimisti. Per una teoria che vacilla, ce ne sono altre che emergono. È così che procede la scienza. Ed è in queste situazioni di crisi ed incertezza che spesso avvengono le rivoluzioni.
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