La Stampa TuttoLibri 17.11.18
La bambina cresciuta nei campi nazisti
vuole ritrovare l’albero genealogico sfortunato
di Luigi Forte
Precipitare
nel buco nero delle proprie origini è stato per Natascha Wodin un
viaggio ai confini della realtà, alla ricerca di volti e figure in
perenne dissolvenza. A cominciare da sua madre il cui destino ha pesato
senza sosta sulla sua vita. Era nata in Ucraina nel 1920, nel bel mezzo
della guerra civile, del terrore, delle persecuzioni e della fame.
Proveniva da una famiglia di nobili origini, un crimine a quel tempo,
causa di costante instabilità psicologica e sociale. Poi la guerra e la
deportazione col marito in Germania in un campo di lavoro forzato. E
infine il suicidio a trentasei anni. Una delle tante drammatiche
biografie avvolte dal buio di un secolo sanguinario, che la figlia
Natascha cerca di portare alla luce, fra interrogativi e risposte,
ipotesi e testimonianze nel suo intenso e composito romanzo Veniva da
Mariupol proposto dall’ editore L’ Orma nella bella traduzione di Mario
Federici Solari e Anna Ruchat.
La tragica storia di un destino si
trasforma in un viaggio a ritroso verso l’Ucraina e la città multienica
di Mariupol sul Mar d’Azov, dove convivevano ebrei e russi, polacchi e
turchi, italiani e tedeschi. Senza esitazioni o timori, con l’acribia di
un detective, la Wodin ripercorre, nel desolato paesaggio di decenni
disperati, le sue stesse drammatiche esperienze alla ricerca, anche
attraverso internet, di una fitta trama familiare. Lei stessa, nata come
la sorella più giovane in un campo di lavoro bavarese, ebbe un’infanzia
difficile a contatto con genitori distrutti dalla fatica e dalla fame:
il padre spesso ubriaco e la madre affetta da disturbi psichici e da una
profonda nostalgia di casa. Tuttavia, più tardi, Natascha trovò la sua
strada: divenne interprete, poi traduttrice letteraria e dal 1980 iniziò
a scrivere romanzi stabilendosi infine a Berlino. Era inevitabile che
dalle sue pagine affiorasse la sensazione di sradicamento e il bisogno
costante di ritrovare una patria, anche linguistica. Con i suoi parlava
russo, ma insisteva a imparare il tedesco che le pareva «una corda
sicura e resistente a cui aggrapparsi per saltare dall’altra parte». E
ora, a distanza di anni, quel mondo di sofferenza che voleva lasciarsi
alle spalle, riemerge irrisolto e assillante.
Veniva da Mariupol
stempera il trauma della piccola Natascha in bilico sull’abisso della
vita con i volti e i destini di una folla di parenti dispersi fra
Ucraina e Russia, Germania e Italia che la matura scrittrice Wodin
trasforma in curiosi e tragici attori di una pièce del terrore: un nonno
socialista mandato in esilio per vent’anni dallo zar, la zia Lidija
arrestata per aver definito il Partito nemico dei lavoratori di cui
offre testimonianza nel suo diario, e la povera zia Olga, moglie del
filosofo Čelpanov, che all’inizio degli anni Trenta si buttò dalla
finestra.
E poi i genitori costretti a lavorare in una fabbrica
d’armi di Lipsia, più tardi fuggiti in Baviera in condizioni disperate. A
guerra finita rischiarono l’estradizione in Russia, dove Stalin li
avrebbe segregati in qualche gulag come fece con molti di loro definiti
traditori della patria.
La foto di famiglia include originali
personaggi come lo zio Sergej, cantante lirico, o la bisnonna italiana
Teresa, sposa bambina sempre in compagnia delle sue bambole e la zia
Valentina fondatrice di un liceo per ragazzi indigenti. Per non parlare
del bisnonno ucraino, Epifan Ivaščenko, proprietario di navi, e di
Matilda, la nonna materna figlia di un commerciante italiano di carbone,
convolata a nozze con Jakov, rampollo dell’armatore. A forza di
cliccare e scartabellare, con un pizzico di fantasia la Wodin
ricostruisce un albero genealogico che affonda le radici in mezza
Europa. Un percorso piuttosto complesso anche per il lettore, fra
esistenze pencolanti fra opposte realtà in un mondo scompaginato che
ricorda altresì il dramma passato sotto silenzio di milioni di
individui: l’internamento nazista dei lavoratori slavi. Mentre Natascha
insegue il fantasma di quella madre segnata dal delirio collettivo e la
ricorda, in pagine bellissime, nella camera mortuaria del cimitero. Una
bambina undicenne che guarda con apprensione quel corpo ripescato dal
fiume, e una scrittrice anziana che dà voce al dolore e al disperato
vuoto di tutta una vita