Corriere 17.11.18
Il seme fragile della memoria
Testimonianze Il messaggio ai ragazzi (Piemme) della senatrice a vita ebrea che fu deportata ad Auschwitz nel 1944
Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah: «Sono stata clandestina e respinta»
di Gian Antonio Stella
«Vedemmo
i nostri assassini buttare via le divise, mandare via i cani, quei cani
delle SS, lupi, dobermann, che ancora mi spaventano. I cani cercavano
di tornare indietro, perché erano abituati a stare attaccati alla gamba
del loro padrone, e loro li cacciavano via, poiché erano l’emblema del
loro potere su di noi fino a un minuto prima. Io li guardavo questi
soldati, buttare via divise, armi, e scappare, tornare alle loro
case...»
Tra quei carcerieri in rotta disordinata per salvare la
propria vita infame dopo aver tolto sprezzanti migliaia di vite altrui,
Liliana Segre riconobbe il Male: «Passò accanto a me il comandante del
campo. Non ho mai saputo il suo nome, non mi interessavo dei nomi delle
persone. Per me lui era il Male, e basta. Il nazista si spogliava vicino
a me, si era messo addirittura in mutande, perché faceva caldo. E io lo
guardavo, incredula. Lo guardavo mentre gettava la divisa lontano e
indossava i suoi vestiti civili, dopo essere stato un carnefice. Buttò
via anche la pistola. La lanciò non distante da me, in terra. Per un
momento ho provato una tentazione fortissima, come non mi sarebbe mai
più capitato nella vita. Avrei voluto raccogliere quella pistola e
sparargli. Potevo farlo. È stato un attimo, ma poi ho capito. Io non ero
come lui. Non ero come il mio assassino».
È bellissimo il libro
Scolpitelo nel vostro cuore (Piemme), nel quale la senatrice a vita
sopravvissuta ad Auschwitz racconta la sua storia. Quella che da tanti
anni racconta nelle scuole di tutto il Paese per incoraggiare i ragazzi
ad affrontare i problemi («Non dite mai che non ce la potete fare, non è
vero. Io ho sperimentato sulla mia pelle quanto l’uomo sia capace di
lottare per rimanere attaccato alla vita») e piantare un seme che possa
essere coltivato e crescere.
L’importanza di pesare le parole, ad
esempio: «Ho provato sulla mia pelle cosa significa essere una
clandestina. Con i documenti falsi. Oggi, quando sento parlare di
clandestinità, quante cose mi tornano in mente. Io lo sono stata, con
mio padre, avevamo documenti falsi perché cercavamo di fuggire alla
persecuzione. E sono stata una richiedente asilo. So cosa significa
essere respinta quando pensi di essere salva. Dopo la fuga sulle
montagne dietro la Svizzera, nel pieno dell’inverno del 1943, arrivammo a
destinazione. La meravigliosa Svizzera. Che però non ci volle dare
asilo. Anzi, ci rimandò dagli aguzzini».
Fu un passacarte
qualunque, allora, a determinare il destino suo e del papà Alberto.
Ebrei? No, clandestini! «Con grande disprezzo e totale mancanza di
umanità ci rimandò indietro». Oltre il confine superato all’alba:
«Dall’altra parte della rete avevamo i fucili puntati dei soldati
italiani. Che ci catturarono. La nostra fuga era finita. Io so che
significa essere respinti. Perdere in un attimo tutta la speranza».
«Racconterò
una storia tragica, ma che finisce bene. E questo è importante, perché
anche le storie tragiche possono finire bene». Cominciano così, il libro
e le mille conferenze della senatrice. Come fosse uno dei racconti che
un tempo si facevano intorno ai filò. La nascita a Milano in una
famiglia di religione ebraica («ma i miei erano assolutamente agnostici.
Non frequentavano la sinagoga, non frequentavano gli ambienti
ebraici…»), l’infanzia «allegra e gioiosa» nonostante la morte della
madre quand’era piccola, la casa borghese in via Magenta, il groppo in
gola del papà la sera in cui fu costretto a spiegare alla figlioletta
che non avrebbe potuto fare la terza elementare nella stessa scuola
perché era stata espulsa. Espulsa! «C’era questa domanda che mi
martellava in testa: “Perché? Perché? Perché?”».
Poi la scuola
privata, il senso di colpa provato «senza capire per cosa», le
perquisizioni di poliziotti «dall’aria truce, cattiva» che rifiutavano
sgarbati la torta offerta dalla nonna, i primi bombardamenti,
l’indifferenza di quanti non vollero capire, l’allontanamento di tanti
amici che amici non erano più, il nonno Pippo che tremava tutto per il
Parkinson e che sarebbe finito con nonna Olga nel camino di Auschwitz,
il rifugio a casa di due famiglie generose e giuste a Inverigo, la
tentata fuga in Svizzera, la galera a San Vittore: «Eravamo diventati
cittadini di serie B, fino a diventare cittadini di serie Z, e poi non
bastò l’alfabeto».
Quella cella 202 nel carcere milanese fu
l’«ultima casina» divisa col papà: «Spesso gli uomini venivano portati
via per gli interrogatori. Era la Gestapo a interrogarli, li torturavano
per ore. Io restavo sola, in quella cella che dividevo con lui, lo
aspettavo. E diventavo vecchia. Lui tornava, pallido e terrorizzato, e
io non ero più la sua bambina, ero la sua mamma. Ero sua sorella. (…) Mi
diceva: “Liliana, ti chiedo scusa di averti messa al mondo”».
Furono
caricati verso l’ignoto sullo stesso treno, dal binario 21, il «ventre
nero, sotterraneo» della Stazione Centrale. Erano in 605, sarebbero
tornati in venti: «Nel vagone c’era un secchio per i bisogni, un po’ di
paglia per terra, niente luce e niente acqua. Il viaggio durò una
settimana…» Nessuno sapeva la destinazione: «E il treno andava, andava,
andava». Arrivarono ad Auschwitz il 7 febbraio 1944: «Faceva un freddo
terribile. Divisero gli uomini dalle donne. Io fui incolonnata con le
donne di quel trasporto. Mi sentii strappare dalla mano di mio padre».
Non l’avrebbe visto più.
Come fece a sopravvivere quella
tredicenne, fragile, sola, condannata a fare l’«operaia-schiava» in una
fabbrica di munizioni e a dormire di notte sotto una coperta lacerata
tappandosi le orecchie con le dita per non sentire i rumori del lager,
le famiglie «che venivano divise, i bambini che piangevano» e «le grida
di chi veniva portato subito al gas»? La risposta è nel racconto del
giorno in cui incontrò Josef Mengele: «Terrorizzata, dentro di me
continuavo a ripetermi: “Voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere,
voglio vivere, voglio vivere”». Scambiarono due parole. La lasciò
andare: «L’assassino mi lasciava ancora in vita».
Riuscì a
sopravvivere all’inferno di Auschwitz, alla «marcia della morte» di
settecento chilometri a piedi nella neve fino al campo tedesco di
Malchow, alla fame, all’infezione di un bruttissimo ascesso, a un
viaggio di ritorno durato mesi e mesi, al dispiacere di non essere
riconosciuta neanche da Antonio, il custode di casa sua, ad anni di
incubi. Finché ritrovò la pace. E la voglia di raccontare. Senza mai
odio. Né il rimpianto, quella volta, di non aver sparato al Male in
fuga.