domenica 18 novembre 2018

Il Sole Domenica 18.11.18
Verso il centenario della nascita. Il ritrovamento di una copia della prima edizione di «Se questo è un uomo», appartenuta a una biblioteca del Movimento Comunità di Adriano Olivetti, è l’occasione per fare luce sul ruolo che la sorella dello scrittore ebbe nella pubblicazione del testo
Anna Maria e Primo Levi, fratelli resistenti
di Domenico Scarpa


Il 22 giugno 1941 era una domenica. Fra i quattro ragazzi saliti a Piossasco per una gita in collina ignoriamo l’identità di quello a sinistra ma conosciamo gli altri tre, che vengono tutti da Torino. La ragazza sulla destra si chiama Bianca Guidetti Serra, al centro ci sono i fratelli Anna Maria e Primo Levi, vent’anni lei e ventidue lui, che appena dieci giorni fa si è laureato in Chimica ricevendo un diploma che specifica «di razza ebraica». Nessuno di quei quattro ragazzi sorridenti sa ancora che il Führer ha scelto proprio questa domenica per lanciare l’attacco alla Russia di Stalin che per la Germania nazista sarà il principio della rovina.
Se il ragazzo senza nome è equipaggiato con corde da alpinismo, solo poi gli altri tre scopriranno che «andare in montagna» è sinonimo di «fare la Resistenza»: nell’Italia del 1941 il nome e la cosa non esistono. Così mingherlina, Anna Maria è estroversa e coraggiosa. La sua storia la si conosce solo per frammenti, cui qui abbiamo provato a dare corpo. Nella Resistenza sarà impegnata soprattutto a Torino, come staffetta e portatrice di stampa clandestina del Partito d’Azione, «Il partigiano alpino» e «L’Italia libera». Una volta, a Borgofranco d’Ivrea, con la borsa piena di giornali affronta tranquilla un posto di blocco; a occhio quei soldati non le sembrano troppo intelligenti; lei gli racconta che tutta quella carta arrotolata è per il negozio di sua zia. I giornali arrivano a destinazione, e non sarà l’unica sua consegna di carta significativa.
Tra le compagne di Anna Maria Levi ci sono sua cugina Ada Della Torre, una seconda Ada che è la vedova di Piero Gobetti, e Bianca. Anna Maria è entrata nella Resistenza dopo che il suo fidanzato Franco Tedeschi e Primo sono stati catturati e deportati. Franco non tornerà da Mauthausen, mentre una notte del luglio 1944 la cugina Ada sogna il cugino Primo: «Aveva addosso una specie di pigiama e in testa un goffo berrettino. Chiacchieravamo amichevolmente». È uno strano sogno, la mattina dopo Ada non arriva a farlo riaffiorare. Ci riesce solo quando in casa di Bianca le consegnano una cartolina spedita da Auschwitz un mese prima. Firma la cartolina un tale Lorenzo Perrone, un muratore: scrive che Primo sta bene, lavora ed è «un po’ dimagrito».
Ci sono sogni che si corrispondono, ma alla rovescia. Nel Lager di Auschwitz, Primo sogna spesso il proprio ritorno, sempre allo stesso modo: è di nuovo a casa, ci sono gli amici e i parenti, lui comincia a raccontare ma tutti si distraggono, nessuno ascolta. «Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola». Questo sogno è tra gli episodi più famosi di Se questo è un uomo.
Le gite in collina fatte da ragazzi, con il posto e il giorno segnati a penna; la storia che fa le sue giravolte mentre le persone vivono ignare; ragazze e ragazzi che devono imparare a combattere nei modi più diversi, e qualcuno muore; un sogno e un incubo che chissà come s’incrociano. L’anno prossimo, 2019, ricorre il centenario della nascita di Primo Levi. Fra l’una e l’altra delle storie qui abbozzate balena il profilo di quello che egli stesso ha definito il suo libro «primogenito», Se questo è un uomo, la cui prima edizione esce nell’ottobre 1947 da De Silva, un piccolo editore torinese. Era giusto dedicare un’intera mostra alla comparsa di un’opera destinata a segnare – retroattivamente – la propria epoca: ai sentieri imboccati da questo «animale nomade» (altra definizione d’autore). E ne emerge, in pieno, il ruolo decisivo di Anna Maria Levi per il destino del libro. Fu proprio lei, già segretaria del Partito d’Azione nel Comitato di liberazione nazionale per il Piemonte, a consegnare il manoscritto (già rifiutato da alcuni editori) allo storico Alessandro Galante Garrone, che a sua volta lo passò all’ex presidente del Cln Franco Antonicelli, fondatore della casa editrice De Silva.
Antonicelli pubblicò il libro di Levi. Lavorava con lui un altro ex partigiano del Pd’A, Renzo Zorzi. Fu l’uno o l’altro a scegliere il titolo Se questo è un uomo. Poco più tardi Anna Maria entrò in contatto con Adriano Olivetti e gli presentò Zorzi. Olivetti aveva appena fondato il suo Movimento Comunità, un partito politico di matrice cristiana e ispirazione repubblicana, laica, federalista. Olivetti aprì a Torino, in Borgo San Paolo, un Centro Sociale, incaricando Anna Maria e Zorzi di condurlo: c’erano da porre le basi per un lavoro concreto sul territorio. Zorzi aveva allestito una biblioteca ed era Anna Maria a gestirla. Quella prima biblioteca è certo all’origine delle vicende – sconosciute fino a questo momento – della copia di Se questo è un uomo la cui sovraccoperta è qui riprodotta: appena ritrovata: proviene dalla biblioteca dell’Istituto Italiano dei Centri Comunitari, che aveva sede a Roma in via di Porta Pinciana 6. Il libro fu catalogato il 26 febbraio 1954 con il numero 1381.
Fondato a Roma nel 1950, l’Istituto faceva capo alle iniziative politiche, sociali e imprenditoriali di Olivetti. Erano gli anni della ricostruzione, e Se questo è un uomo era un’opera di ricostruzione. «Si trattava», spiega Olivetti, «di portare gradatamente in tutti i piccoli villaggi – cioè nell’intera Comunità – il piano di assistenza sociale, culturale, educativa, ricreativa, quale si trova nelle nazioni più progredite». Le biblioteche erano il fondamento dell’intero lavoro.
Nel 1953 Anna Maria Levi si trasferì da Torino a Roma. Olivetti le aveva chiesto di curare, con Paolo Volponi, la rivista «Centro Sociale», organo del Cepas, Centro di educazione professionale per assistenti sociali. Le attività del Cepas, così come quelle dell’Istituto Centri Comunitari, prosperarono nel corso degli anni cinquanta, fino alla sconfitta del Movimento Comunità alle elezioni del 1958, seguita poco più tardi (27 febbraio 1960) dalla morte improvvisa di Adriano. La biblioteca dell’Istituto andò dispersa: e oggi la copia, con i suoi timbri e talloncini del 1954, è esposta nella mostra dedicata al libro «primogenito». Oggi, è significativo sapere che in via di Porta Pinciana 6 ha sede un’altra biblioteca in sintonia con quella di Olivetti: la Biblioteca della Svimez, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Più significativo ancora trovare incastonate, nel selciato davanti a quel portone che era il loro portone di casa, le «pietre d’inciampo» in memoria di Ida Luzzatti e di Elena Segre, madre e figlia, catturate dai nazisti nella razzia del 16 ottobre 1943.

Corriere 18.11.18
Economia e governo
Il precipizio davanti a noi che si evita di vedere
di Ferruccio de Bortoli


Siamo sull’orlo del precipizio ma il governo non sembra avvertirne il pericolo reale. Sfida l’Unione Europea convinto di avere il vento del consenso, persino della storia, a suo favore. Scommette e forse si illude che un trionfo del voto sovranista alle prossime elezioni europee possa mutare i rapporti di forza nell’Unione. Il potere inebria, specie quando si hanno molti posti da spartire e non si è abituati a farlo. Stordisce poi gli ultimi arrivati, emersi dal nulla. Una parte crescente dell’Italia che produce e lavora teme di pagare un prezzo sanguinoso, ingiusto. Di pagarlo più all’incompetenza e all’arroganza di qualche ministro che al calcolo politico sovranista o populista di leader spregiudicati. Ma questa consapevolezza del rischio, che mina già di fatto la solidità dei nostri risparmi, non è ancora pienamente percepita dall’opinione pubblica. Non si può vivere a lungo con uno spread oltre quota 300. Quello che dovrebbe preoccupare di più poi è il differenziale con la Spagna. Segnala tutta la nostra debolezza relativa. Come se fossimo già tornati al 2011. Si riflette poco sulla probabile crisi di alcuni istituti bancari che, ironia della sorte per l’attuale maggioranza, potrebbero essere ancora salvati con il denaro dei contribuenti. Se dovesse poi partire una procedura d’infrazione per violazione della regola del debito, non reggeremmo all’onda speculativa, specie se un’asta dei titoli pubblici andasse male e sorgessero problemi di liquidità.
Andrebbe in frantumi anche l’alleanza gialloverde. Poi fare la campagna elettorale sulle macerie di cui si è responsabili sarebbe tutt’altro che semplice. L’Italia è oggi isolata in Europa. Respinta anche da quei governi, Austria e Ungheria ma non solo, che la Lega considera interlocutori naturali, alleati preziosi. Il paradosso di questi giorni è che l’unico sottilissimo filo di trattativa con la Commissione europea è teso dai due personaggi più presi di mira dal verbo sovranista e populista: il presidente Jean-Claude Juncker e il commissario agli affari economici Pierre Moscovici. Solo attraverso un dialogo realista con loro, non necessariamente remissivo, si potrebbe arrivare a qualche forma di compromesso. Semmai ancora sia possibile.
Il ruolo più delicato lo ricopre, su questo fronte, il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Il suo arretrare da quella che appariva, anche a lui non solo all’Europa, una soglia insuperabile del deficit 2019, ovvero l’1,6 per cento, ha indebolito al limite dell’irrimediabile la sua credibilità. Appare un prigioniero di Salvini e Di Maio, attestati nella difesa a oltranza di un ormai mitologico e irrealistico disavanzo del 2,4 per cento. Un ostaggio rassegnato. Lui, personaggio mite e misurato, si è dovuto convertire al linguaggio acrobatico della politica muscolare che può permettersi di dubitare persino delle leggi della fisica e della matematica. Costretto a rifugiarsi nell’inedita formula di «défaillance tecnica» per dire che Bruxelles non sa far di conto, inimicandosi così i suoi colleghi stranieri. Nonostante tutto, siamo convinti che Tria sia un economista capace, un tecnico di valore, ma soprattutto una persona seria e per bene. Ed è dunque a lui che molti guardano aspettandosi un discorso di verità. Non un gesto di coraggio per sfogarsi e andarsene. No, sarebbe dannoso per il Paese. Ma un esame serio, giudizioso, e soprattutto pubblico, dei pericoli dell’avventurismo cieco, del costo pluriennale della violazione alle regole europee, questo sì. Lo dovrebbe sentire come un dovere morale. Ha l’autorevolezza e la competenza per spiegare, in modo semplice e comprensibile a tutti, il costo opportunità di alcune scelte politiche che un Paese fortemente indebitato non può fare a cuor leggero. Denunciare l’assalto dadaista in Parlamento per votare norme e normette alla legge di Bilancio. Sempre più costose. Sottolineare la contraddizione fra la voglia di un ritorno miracolistico dello Stato in economia e la promessa, del tutto fantasiosa aggiungiamo noi, di fare 18 miliardi di privatizzazioni. E non sarebbe male se il mite Tria trovasse anche il tempo di dire che i cosiddetti tecnici di area del governo, ogni volta che parlano sognando a occhi aperti l’uscita dall’euro, producono danni irreversibili. Rischierebbe il posto? Sì ma farebbe chiarezza e aiuterebbe il Paese.
Nel settembre scorso, durante il workshop Ambrosetti a Cernobbio, il ministro disse di temere che il vantaggio di fare un po’ di deficit in più sarebbe stato annullato dall’aumento del costo per gli interessi passivi sul debito. È quello che sta puntualmente accadendo. La Commissione europea ha chiesto, nei giorni scorsi, quali fossero i «fattori rilevanti» a giustificazione di una maggiore spesa pubblica. I primi due riguardano il raffreddamento del ciclo internazionale, complicato peraltro anche dal caos sulla Brexit. Dunque, in un documento ufficiale, ammettiamo che il quadro macroeconomico sul quale è stata formulata la manovra è cambiato. In peggio. Ciò renderebbe urgenti interventi, ma più sugli investimenti che sui sussidi. I dati negativi sulla crescita, la produzione, l’andamento degli ordinativi dovrebbero suscitare qualche saggio ripensamento sull’intero impianto della legge di Bilancio. Tria dice ai suoi collaboratori di non credere che il reddito di cittadinanza possa essere facilmente operativo nei prossimi mesi. Si spenderà meno del previsto. Peccato che i mercati non lo sappiano. Forse ci illudiamo. Ma avanti così il mite Tria rischia di passare alla storia per la sua pavidità. E non lo merita.

Corriere La Lettura 18.11.18
C’è una «storia deviata» su Gramsci e Togliatti
Alcuni autori di sinistra sottovalutano i fatti che dimostrano la forza del legame tra i leader del comunismo italiano e il blocco sovietico.
Per esempio il modo in cui i bolscevich misero il futuro autore dei «Quaderni» a capo del Pci negli anni Venti.
E soprattutto l’appoggio di Togliatti, dopo la denuncia dei crimini di Stalin, alle scelte repressive del Cremlino e alla parte conservatrice del suo gruppo dirigente
di Federigo Argentieri


Il recente libro di Angelo d’Orsi sulla vita di Gramsci e quello di Giuseppe Vacca su Dc e Pci dal 1943 al 1978 rappresentano un buon punto di partenza per affrontare il tema dell’attività svolta dall’Istituto Gramsci nell’ambito della storiografia italiana. In generale, si può dire che il livello delle pubblicazioni è vario, che sono stati affrontati alcuni temi scomodi precedentemente ignorati, ma che alcuni altri continuano a non essere trattati: ciò fa trapelare un serio residuo ideologico, contrario all’approccio privo di alcun pregiudizio che è buona norma mantenere.
Il primo nodo finalmente sciolto (dopo «appena» novant’anni) riguarda un incontro tra Gramsci e Lenin, svoltosi al Cremlino il 25 ottobre 1922 alle 18, alla sola presenza dell’interprete, e durato oltre due ore. Ad esso d’Orsi dedica una pagina scarsa, riferendo che in precedenza era stato menzionato in un saggio di Maria Luisa Righi e nel libro del nipote di Gramsci, Antonio jr., sulla sua famiglia. L’italianista russa Natalia Terekhova rileva che tale incontro non compare nella cronologia online della International Gramsci Society: ma infatti che importanza storica può avere un incontro tra Gramsci e il massimo leader sovietico, all’epoca già malato, ma ancora in pieno possesso delle sue facoltà?
Si apprende poi che la dirigente comunista Camilla Ravera era al corrente di questo colloquio e del suo contenuto e lo aveva menzionato in una lettera a Giuliano Gramsci (figlio di Antonio), pubblicata però solo nel 2012 e non inclusa nella prima edizione del suo Diario di trent’anni uscito nel 1973. In compenso, Antonio Gramsci jr. ci informa che la fonte relativa all’incontro tra Lenin e Gramsci risale a un volume pubblicato in Urss nei primissimi anni Settanta. Pertanto si può dire che il ritardo sia di «solo» quarant’anni e non di novanta, ma non sarebbe stato il caso di intervistare la stessa Ravera su quanto Gramsci le aveva raccontato a caldo? E perché sottovalutare ancora oggi un incontro così importante? Forse per evitare di dire che Gramsci fu nominato a capo del Partito comunista d’Italia dai bolscevichi russi?
Un altro evento completamente trascurato riguarda la profonda e giustificata irritazione di Gramsci, nel 1924 fondatore e primo direttore dell’«Unità», nei confronti della disinvoltura (a dir poco) manifestata dal primo ambasciatore sovietico a Roma, Konstantin Jurenev, dopo il delitto Matteotti: nel luglio 1924, quattro mesi dopo il suo arrivo a Roma e un mese dopo la scomparsa del deputato socialista (poi ritrovato cadavere in agosto), costui invitò a pranzo Mussolini, invito rinnovato e anch’esso accettato il 7 novembre per festeggiare il settimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre. Era evidente che i due regimi, in procinto di diventare totalitari, si piacevano «a prescindere», come ulteriormente dimostrato anni dopo con la firma, avvenuta il 2 settembre 1933, del «Trattato italo-sovietico di amicizia, non aggressione e neutralità».
Passando alla storiografia sul secondo dopoguerra, accanto a studi interessanti ad esempio sui rapporti Pci-America latina, così come utile è quello sulla battaglia di Guadalajara del 1937, bisogna segnalare altre notevoli contorsioni logiche e/o silenzi tombali intorno a problemi delicati. Il libro di Valerio Riva Oro da Mosca sui finanziamenti sovietici resta un tabù assoluto, in particolare la nota di Boris Ponomariov del 4 dicembre 1956 in cui si faceva stato del versamento, durante quell’anno, di 2 milioni e mezzo di dollari al Pci, di 500 mila al Psi e di 250 mila alla Cgil. Quale credibilità può avere una storiografia che prescinde da questo dato strutturale relativo a un anno cruciale?
Altri sono tabù più relativi, come ad esempio il racconto del colloquio tra Iosif Stalin e Palmiro Togliatti nella notte fra il 3 e il 4 marzo 1944 (alla vigilia del ritorno in Italia del leader del Pci), fatto dall’ex segretario dell’Internazionale comunista Georgi Dimitrov nel suo diario. La decisione di far collaborare il Pci al governo Badoglio fu di Stalin, ma non bisognava dirlo: Togliatti eseguì alla lettera le direttive del Cremlino, ma i suoi idolatri esaltarono ed esaltano tuttora quella scelta come un suo «capolavoro». Poi ci sono le acquisizioni sulla rivoluzione ungherese del 1956, mai citate seppure recepite da Silvio Pons, citate ma respinte da Vacca. La lettera manoscritta di Togliatti al presidium del Pcus, redatta in un intervallo della riunione di direzione del Pci il 30 ottobre 1956 e giunta la mattina dopo ai destinatari in traduzione russa, può non aver avuto un ruolo decisivo nel far propendere il Cremolino per l’intervento armato a Budapest — furono più importanti le posizioni assunte da Mao e da Tito —, ma certamente incoraggiò ulteriormente e non poco i fautori della linea dura e lo stesso titubante Nikita Krusciov.
La richiesta di Togliatti a János Kádár di rinviare l’esecuzione di Imre Nagy, che aveva guidato il governo a Budapest durante la rivoluzione, a dopo le elezioni italiane del maggio 1958, accolta dal leader filosovietico ungherese, è pertinacemente ignorata da molti studiosi, così come la simultanea scandalosa delazione compiuta dallo stesso Togliatti nei confronti del filosofo György Lukács, il quale cercava di mobilitare gli intellettuali italiani a difesa di quelli ungheresi sotto processo. Un’altra richiesta, anch’essa accolta ed esposta in una successiva lettera manoscritta dell’aprile 1963 al segretario generale cecoslovacco Antonin Novotný, di non riabilitare prima delle imminenti elezioni italiane Rudolf Slánský, impiccato nel 1952, non viene presa in considerazione.
Altro tabù quasi assoluto è la relazione dell’italianista Genrikh Smirnov, interprete ufficiale del Pcus a partire proprio dall’estate del 1964, il quale nel 1998 a un convegno in Italia testimoniò direttamente come Leonid Brežnev avesse utilizzato il memoriale di Yalta, scritto da Togliatti poco prima di morire, per spodestare Krusciov: ne scrisse di sfuggita anni fa Adriano Guerra, ma per il resto silenzio assoluto, per evitare di affrontare un altro tema assai scomodo.
Conclusione: la storiografia riunita intorno all’Istituto Gramsci ha tuttora seri problemi a confrontarsi con le dure repliche della storia, nel suo persistente tentativo non tanto di restituire tutta la complessità e le tragiche contraddizioni di Gramsci, di Togliatti e del partito da essi ispirato e diretto, cosa che sarebbe di grande utilità, ma di separarli a forza e quasi disperatamente dall’esperienza sovietica e, nel caso di Togliatti, anche da quella degli altri Paesi «socialisti», così inventando un personaggio che non è mai esistito grazie ad un uso delle fonti assai disinvolto e paradossalmente simile a quello in uso in tali Paesi, non oggi, ma prima del 1989.

La Stampa 18.11.18
Settant’anni fa Pci eUdi organizzarono il trasferimento da Napoli all’Emilia di 12 mila piccoli
Furono affidati a famiglie che offrivano condizioni di vita migliori. Questi sono i loro ricordi
“Così Togliatti pensava di conquistare il Sud Italia”
di F. Giu.


I treni dei bambini furono un’idea di Togliatti, che mirava a estendere l’azione del Pci agli strati più bassi della popolazione e si rivolgeva al Mezzogiorno».
Giulia Buffardi, direttrice dell’Istituto campano per la storia della Resistenza “Vera Lombardi”, come nacque la campagna dei treni della felicità?
«Già nel ’45, alla fine della guerra, il Pci agì per i bambini di Milano, nel ’46 toccò a Roma e Cassino e alla fine dello stesso anno venne creato il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli, presieduto da Giorgio Amendola. Il primo treno partì nel gennaio del ’47 con destinazione Modena: all’inizio ne partiva uno ogni 15 giorni, i bambini provenivano dai rioni più disagiati come i quartieri Spagnoli e Sanità. L’iniziativa durò due anni e poi, con le elezioni del ’48 e la Dc al governo, non fu più sovvenzionata».
Che ruolo ha avuto l’Unione donne italiane?
«Un ruolo importantissimo. Furono le volontarie dell’Udi ad avvicinare al Pci le famiglie più bisognose, andando a convincerle casa per casa a mandare al nord i loro figli. Le parrocchie, e con loro la Dc, osteggiavano il progetto perché si vedevano sottrarre il monopolio della beneficenza, così mettevano in giro voci per cui i bambini sarebbero stati fatti a pezzi e messi nel forno, che gli avrebbero tagliato le mani o che li avrebbero mandati in Russia da dove, se mai fossero tornati, sarebbero tornati indottrinati. Partirono anche figli di comunisti, per dimostrare che non c’era niente da temere».
Soltanto a Napoli furono coinvolti circa dodicimila bambini. Quanto tempo trascorsero lontano da casa?
«Mediamente quattro mesi, ma molti rimasero di più: fra le persone che ho intervistato c’è il caso di una donna che ci restò sei anni, e quello di un uomo che voleva essere adottato dopo un periodo di quattro anni trascorso con una famiglia del Senese. L’adozione non fu possibile perché la madre venne a prenderselo: il ragazzo serviva a Napoli, perché doveva lavorare aiutandola a portare in giro il carretto della frutta».

La Stampa 18.11.18
“I nostri sogni di bambini su quel treno della felicità”
di Franco Giubilei


Li chiamavano treni della felicità, erano carichi di bambini che dalla miseria delle città più devastate dalla guerra venivano portati lontano, nelle zone del nord Italia meno toccate dal conflitto, soprattutto in Emilia e in Toscana. Vennero ospitati da famiglie del posto per pochi mesi, ma in diversi casi quei soggiorni si prolungarono fino a qualche anno. «Fra il ’45 e il ’48 si sono mossi almeno 50mila bambini: i primi da Milano e Torino, che avevano subito i bombardamenti più pesanti, e poi da Roma, Cassino, Frosinone e Napoli», spiega Paola Nava, fra le protagoniste del convegno organizzato per domani dall’Istituto storico della Resistenza di Modena e che sarà replicato a Napoli il 10 dicembre. Se ne andavano lasciandosi alle spalle situazioni disastrose, come i circa 12mila bimbi napoletani partiti nell’arco di due anni dalla stazione di Porta Garibaldi: senza bagagli, con i cappottini forniti dalle volontarie dell’Unione donne italiane che spesso le madri levavano loro di dosso prima della partenza per darli agli altri figli, certe che al loro arrivo al nord qualcuno avrebbe pensato a rivestirli.
I cappotti
Fra loro c’era Mario Capuozzo, nel marzo del 1948 aveva sette anni e quel treno lo prese insieme al fratellino Vittorio, che ne aveva solo cinque: «Ricordo bene l’arrivo a Rivalta, nel Reggiano: faceva molto freddo e sul marciapiedi della stazione trovammo una schiera di persone che ci aspettavano. Avevamo addosso il cappotto che l’Udi ci aveva dato a Napoli». Figlio di un operaio dell’Eternit e di una casalinga, all’epoca viveva al rione Sanità, uno dei più poveri della città: «Con un solo stipendio non ce la facevamo, ecco perché io e mio fratello siamo andati in Emilia. L’Udi sceglieva i casi delle persone più bisognose e chiedeva alle famiglie di fare partire i bambini per un periodo di quattro mesi». Un’operazione ideata da Togliatti, l’allora segretario del Pci, che a Napoli si scontrò con la campagna avversa di parrocchie e Democrazia cristiana (le elezioni del ’48 erano alle porte, ndr): la fama dei comunisti che mangiavano i bambini alimentava le voci più angoscianti, come il taglio di mani e piedi, il fatto che li avrebbero trasformati in sapone o che, nel caso migliore, li avrebbero spediti in Unione sovietica. In realtà, aggiunge Nava, rossi e cattolici spesso collaboravano: «A Carpi i bambini al mattino andavano a messa e al pomeriggio alla casa del popolo».
«I preti dicevano che i bimbi non sarebbero più tornati – conferma Mario -, noi però siamo stati trattati molto bene: a Rivalta andai a casa di due maestre, due sorelle, Maria e Margherita Campagna, che però potevano ospitare solo un bambino. Per farci stare vicini hanno convinto il parroco a tenere mio fratello. Per lui all’inizio è stato un po’ più traumatico, poi è andata meglio: il prete lo portava in moto, ricordo anche Vittorio che si appendeva alle corde delle campane. Nella parrocchia c’era anche il cinema, per noi era l’America…». Al suo arrivo parlava solo napoletano: «A scuola non mi capivano, per chiedere un’arancia dicevo “portuall”, ma al mio ritorno a Napoli parlavo italiano». A Rivalta c’è tornato più volte, da adulto, a trovare l’anziana maestra di cui ha festeggiato il 110° compleanno, poco prima che morisse.
Antonio Attianese ha una storia simile, descritta anche da Simona Cappiello, autrice del documentario “Gli occhi più azzurri”: napoletano, 80 anni, figlio di un fotografo iscritto al Pci e di un’operaia, a 8 anni venne messo su un treno per Bologna. «Papà era un fervente comunista e accettò subito la proposta di mandarmi al nord, nonostante i democristiani gli dicessero che ci avrebbero tagliato le mani – racconta oggi -. A Napoli eravamo in una condizione difficile, dovevamo condividere due stanze con un’altra famiglia di mezzi delinquenti che aveva occupato casa nostra mentre ci trovavamo a Roma, durante la guerra. A Bologna invece venni trattato da signore: ci sono rimasto per 7-8 mesi, ospite di un ingegnere che aveva due figli». Sotto le Due Torri frequenta la terza elementare e, sono parole sue, passa «un periodo splendido: mangiavo, andavo a scuola, giocavo coi loro bambini, mi trattavano come un figlio loro e mi vestivano bene. Ero partito quasi da pezzente, tornai a Napoli con una valigia piena di vestiti: davo del lei a mia mamma perché mi ero abituato all’educazione del nord. I miei fratelli mi guardavano come uno straniero».

La Stampa 18.11.18
1938, il silenzio dei giuristi
Sulle leggi razziali “soverchia pavidità”
di Giuliano Amato


Al Rettorato di Torino Sullo scalone del Rettorato i nomi dei docenti ebrei espulsi dall’Ateneo torinese in seguito alle leggi razziali. Il palazzo di via Verdi 8 ospita fino al 28 febbraio la mostra «Scienza e vergogna. L’Università di Torino e le leggi razziali», curata da Giacomo Giacobini, Silvano Montaldo e Enrico Pasini con Paola Novaria, aperta con ingresso gratuito dal lunedì al venerdì, dalle ore 10 alle 18.

Quando ci occupiamo della tragedia delle leggi razziali, gli ingredienti che la segnano sono purtroppo sempre gli stessi: da un lato la strategia della persecuzione, nei suoi presupposti, nelle sue modalità, nei suoi fini. Dall’altro gli effetti e le reazioni che essa provoca, da quelle dei contemporanei a quelle di chi verrà dopo. Pur preceduto da tanti minacciosi segnali nel corso degli anni - non tanto quelli della storia plurisecolare, ma, più da vicino, la virulenza della Civiltà Cattolica di fine Ottocento, gli scritti sulla razza dei primi Anni Trenta e poi, soprattutto, la vicenda coloniale (che aveva introdotto nella legislazione la difesa della razza bianca) - l’arrivo di quelle leggi, preceduto in rapida sequenza dal Manifesto sulla razza, parve a molti ebrei italiani un fulmine inatteso. Il regime aveva definito il loro trattamento nelle discipline post concordatarie, la vita si era assestata su quei binari al punto che tanti di loro erano diventati fascisti o comunque estimatori del fascismo. Fu difficile perciò capire tanta sudditanza alla Germania e il bisogno, in un tempo che per il regime non era ancora amaro, di un capro espiatorio, il solito.
Certo si è che il Manifesto, il 5 agosto 1938, già precisa che gli ebrei non appartengono alla razza ariano-italica. Poi i decreti legge e le leggi che tra il settembre e il novembre di quell’anno e poi sino al giugno 1939 smantellano la vita degli ebrei: esclusione dalla scuola, dalle professioni e dagli impieghi, dalla proprietà, dal matrimonio, sino ai limiti alla capacità previsti in via generale dall’articolo 1 del nuovo Codice civile. Ne esce una spoliazione di diritti e facoltà, che non ha paragone nelle discriminazioni a cui altri erano stati e continueranno a essere assoggettati, si tratti di donne, di persone di colore, di stranieri immigrati. Nel caso degli ebrei vale a portare alla eliminazione. La privazione dei diritti, che prepara la privazione delle vite (come dirà anche la Corte Costituzionale in una sua sentenza del 1998, la n. 268).
Nonostante questa sconvolgente enormità, l’accoglienza dei giuristi fu molto più prossima alla «soverchia pavidità» di cui poi parlò uno che pavido non fu, Domenico R. Peretti Griva, che non alla coraggiosa ripulsa di alcuni. Mi sono domandato se e quanto, a raggelare i giuristi (e non solo loro) in questa codarda passività, possano aver contribuito prese di posizioni, nette e aggressive, come quella di Gaetano Azzariti, che disse, in quella temperie: «Finalmente è stato messo in soffitta il dogma dell’eguaglianza». Era un valore, era un principio al quale la storia umana sempre più aveva cercato di avvicinarsi. Era giusto essere eguali. Poi arriva il razzismo, ritorna la caccia all’ebreo, c’è chi la condivide, ci sono tanti a cui conviene (anche i giuristi, professori e avvocati che si trovano così liberi posti prima occupati), ci si vergogna ad aver dentro voglia di diseguaglianza, ma finalmente qualcuno lo dice. E il lato oscuro di Camelot viene felicemente alla luce, senza più remore e senza vergogne.
Le conseguenze di quella caccia all’ebreo, nel contesto disastroso per tutta l’umanità della Seconda guerra mondiale, ricacciarono in fondo il lato oscuro di Camelot e la reazione a quei disastri fu un rimbalzo straordinariamente positivo. La tutela della dignità entrò prepotentemente nelle nuove Carte della Comunità internazionale e delle Costituzioni nazionali.
La nostra Corte Costituzionale, non diversamente da quella spagnola, ha affermato l’esistenza di un «nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, come ambito inviolabile della dignità, da riconoscersi anche agli stranieri, qualunque sia loro posizione rispetto alle norme riguardanti l’ingresso o il soggiorno dello Stato».
Do grande importanza alle ragioni della sicurezza e so bene quali conseguenze provochi in tanta gente il sentirsene privi, mentre intorno arrivano sempre più sconosciuti, che parlano lingue diverse, che hanno abitudini diverse e che a volte praticano anche la violenza. La diffidenza cresce, la stessa xenofobia cresce. Ma tutto dipende dall’uso politico che se ne fa. La si può mettere sotto controllo, mettendo sotto controllo i flussi di ingresso, combattendo la criminalità e garantendo i diritti e le giuste protezioni di tutti, ma riaffermando così nello stesso tempo i principi della nostra civiltà. Oppure uscendosene, nel medesimo clima di ostilità e di paura, come fece Azzariti: mettiamo in soffitta questi dogmi. Ancora una volta, nonostante i decenni di Carte dei diritti che abbiamo alle spalle, il lato oscuro di Camelot tornerebbe alla luce. Non è successo, ancora, ma potrebbe succedere. Non facciamo come allora. Non sarebbe consentito, non sarebbe perdonabile.

La Stampa 18.11.18
1938, le leggi razziali
Troppi contraddissero al loro compito essenziale: la difesa dei diritti
di Piero Guido Alpa


Nel 2007, nel corso di un intervento di restauro della sala detta «del Parlamentino» al ministero della Giustizia, nella quale il Consiglio nazionale forense celebra le udienze relative ai ricorsi degli avvocati sanzionati dagli Ordini per violazioni del codice deontologico, gli operai aprirono uno stipetto e rinvenirono alcuni fascicoli riportanti la scritta: «Ricorsi degli avvocati ebrei». Non si è mai saputo perché questi fascicoli fossero conservati separatamente rispetto all’archivio del Consiglio nazionale forense e perché fossero stati tenuti sotto chiave. Da questo ritrovamento, dall’analisi dei fascicoli, e dalle ricerche che da quel momento il Cnf iniziò a svolgere si è avviata una riflessione sui fatti storici che portarono alla cancellazione degli avvocati ebrei dall’albo degli Ordini forensi.
Il Cnf ospitò nel 2010 una mostra itinerante proveniente dalla Germania su: «Gli avvocati senza diritti», che riguardava il destino degli avvocati ebrei dopo il 1933, le leggi di Norimberga del 1935 e le ulteriori restrizioni introdotte nel 1938. Organizzò anche una serie di seminari, in collaborazione con gli Ordini forensi, con l’Unione delle Comunità israelitiche e con la Comunità israelitica romana, per raccogliere le delibere di cancellazione degli Ordini, documenti e testimonianze degli avvocati ebrei sopravvissuti e delle loro famiglie, e pubblicò testi e materiali per far conoscere - meglio di quanto fino ad allora non avessero raccontato gli storici - la tragica vicenda che aveva colpito gli avvocati ebrei, le loro famiglie, i loro dipendenti e i loro assistiti a seguito delle leggi razziali, in particolare del decreto legge 2 agosto 1939, che collocava gli avvocati ebrei in albi speciali e consentiva loro di esercitare la professione solo a favore di cittadini ebrei. I provvedimenti erano conseguenti alle persecuzioni già iniziate in Italia, alimentate da altre gravissime iniziative come il Manifesto della razza, la fondazione di riviste razziste anche di contenuto giuridico, l’istituzione del Tribunale della razza, e altre ancora.
L’iniziativa civile di sottrarre all’oblio questa vergognosa e tragica vicenda si è diffusa presso gli Ordini territoriali, con manifestazioni a Pisa, Firenze, Torino, Rovereto, e con diversi incontri e con la pubblicazioni di testi.
Per i giuristi l’argomento è particolarmente coinvolgente perché la gran parte di essi all’epoca dei fatti rimasero silenti, contraddicendo la loro funzione essenziale, consistente nella difesa dei diritti. Altri giuristi dell’epoca, sostenitori o fiancheggiatori del regime, addirittura misero a disposizione la loro competenza per redigere i testi persecutori o svolgere le loro funzioni di magistrati e dipendenti pubblici ligi alle prescrizioni discriminatorie. In particolare, l’approvazione del primo libro del Codice civile (ancora oggi vigente, seppur emendato) fu rinviata alla fine del 1938 per disposizione del ministro Guardasigilli in carica, lo storico del diritto Arrigo Solmi, per poter dare ingresso nel testo alle prime leggi razziali (a partire dal Regio decreto 5 settembre 1938) e coordinare così la disciplina della capacità giuridica (articolo 1) con le limitazioni dettate dalla legislazione speciale.
Le norme rimasero in vigore fino al 1944 nel Regno del Sud e fino al 1945 nella Repubblica Sociale Italiana. Ancora oggi il Codice civile reca il marchio dell’infamia: sono i puntini di sospensione che al comma 3 dell’articolo 1 ricordano la prescrizione abrogata con cui si limitava la capacità giuridica, cioè la idoneità a essere titolari di diritti e di doveri, di coloro che appartenevano a «razze» diverse da quella ariana, che doveva essere geneticamente preservata. Gli ebrei italiani, perseguitati nel corso di millenni di storia, emancipati dallo Stato albertino nel 1848, «assimilati» nella società civile, nelle professioni, nelle cariche dello Stato, nelle scuole e nelle università, avrebbero ritrovato la loro piena capacità solo con i decreti luogotenenziali che abrogavano le leggi razziali, e con una esplicita tutela nella Costituzione repubblicana, all’articolo 22, ove si precisa testualmente che «nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome».
Ricordare quella tragica vicenda è un dovere civico per ciascun italiano, ma è anche un monito per tutti - specie in tempi nei quali si registrano rigurgiti di antisemitismo - perché non si possa ricostituire un clima di odio e di discriminazione. Ed è particolarmente significativo per i giuristi, perché il diritto non sia strumento di sopraffazione ma possa servire a difendere i valori fondamentali della persona sui quali riposa la società civile.

il manifesto 18.11.18
La grammatica della vita psichica, prima dell’approdo al linguaggio
Psicoanalisi. Ospite del convegno della SPI «Dalla consultazione alla costruzione della relazione analitica», che avrà inizio il 23 novembre a Roma per terminare il 25, Christopher Bollas è contemporaneamente in libreria con due saggi di Cortina: «L’ombra dell’oggetto» e «L’età dello smarrimento»
Willem De Kooning, Mother and child, 1971
di Francesca Borrelli


Ricapitolando le fasi del suo lavoro, Christopher Bollas ha raccontato che dalle esperienze quotidiane, o talvolta dai quaderni dove annota i passagi più significativi dell’analisi dei suoi pazienti, ogni tanto una idea raggiunge la sua mente, senza rendersi però del tutto intellegibile. Bollas prende appunti e non si sforza di affrettarsi a capire, ma spesso – scrive – «è l’idea che lotta perché io ci pensi». Non a tutto ciò che conosciamo – intende dire – siamo in grado di dare una rappresentazione mentale, quindi di pensarlo.
Nella dialettica costitutiva dell’Io, che consiste della negoziazione inconscia tra ciò che abbiamo ereditato e ciò che abbiamo acquisito, si deposita una memoria del processo ontogenetico che è un vissuto esistenziale, recuperabile al ricordo sebbene non sia mai stato appreso.
Prima ancora di elaborarla con il pensiero, il bambino sperimenta «una esperienza dell’essere» che riflette «l’essenza della vita prima dell’esistenza della parola». Tra la logica determinata dalla disposizione genetica e quella derivata dal rapporto con la madre, il bambino stabilisce dei compromessi che formano un suo sapere, parte del quale non trova rappresentazione mentale: è ciò che Bollas chiama «il conosciuto non pensato». Attorno a questo concetto, che rende conto di quella scissione fondamentale sperimentata da ciascuno di noi tra «ciò che pensiamo di sapere» e «ciò che effettivamente sappiamo» ma non possiamo pensare ruota uno dei libri più importanti di Christopher Bollas, L’ombra dell’oggetto Psicoanalisi del conosciuto non pensato (traduzione di Daniela Molino, pp.253, euro  25,00) terminato fra l’87 e l’89, che a distanza di diciassette anni dalla edizione Borla, non più disponibile, viene ripubblicato da Cortina insieme a un altro libro più recente (e non altrettanto fondamentale), L’età dello smarrimento Senso e malinconia (traduzione di Paola Merlin Baratter, pp. 244, euro 15,00) in cui lo psicoanalista americano proietta la sua formazione umanistica, – scrisse la tesi di dottorato su Herman Melville – la sua passione politica e la sua problematizzazione del disagio psichico sullo sfondo sociale.
La «madre ambiente»
Bollas ha una profonda, dettagliata conoscenza della teoria psicoanalitica classica: non solo si richiama continuamente a Freud, ma dimostra una frequentazione intensa degli scritti sia di Lacan che di Bion, pur sentendosi più vicino alla scuola inglese di Donald Winnicott, Marion Milner, e Masud Khan. Non trascura, dunque, l’importanza di seguire la logica delle sequenze narrative inscritte nei racconti degli analizzandi. Tuttavia, il suo primo lavoro con giovanissimi schizofrenici e con bambini autistici – impossibilitati a tradurre in parola il loro malessere – lo ha indotto a spostare l’attenzione su quella parte della psiche che è ancorata al mondo non verbale, concentrandosi sulla necessità di ricollegarsi alla grammatica dell’essere che precede l’acquisizione del linguaggio. Per prendere contatto con queste zone remote della psiche – raccomanda Bollas – l’analista dovrà essere disposto a farsi usare «come oggetto», lasciando che l’analizzato «si installi» in lui con i suoi silenzi, con il pianto, con i vissuti emotivi riattivati nel ricordo delle sue prime esperienze di relazione. Per quanto spaesante, l’analista dovrà esporsi a quella esperienza a volte drammatica che consiste nel restare presi nell’idioma del paziente, tollerando di non sapersi orientare, di non sapere chi egli sia e dove si trovi nella mente dell’altro.
Convivere con questa incertezza, dare valore alla propria capacità di perdersi nell’ambiente creato dall’analizzato, e dunque cedere la propria percezione di sé via via che la situazione clinica lo richiede, può rivelarsi un aiuto prezioso alla scoperta che il paziente fa di se stesso, e al suo procedere verso una coesione del senso di sé. Per svolgere questo compito, è fondamentale che l’analista riprenda la funzione trasformativa di ogni madre nei confronti del suo bambino: proprio il fatto di alterare, sia positivamente che negativamente, la vita fisica, emotiva, ideativa del bambino – cullandolo, sorridendogli, parlandogli, creandogli intorno un ambiente facilitante – fa sì che la madre venga vissuta come un processo più che come un oggetto.
Di fronte a una persona che chiede aiuto alla psicoanalisi, e sa di sapere qualcosa ma di non averlo ancora elaborato al punto di poterselo rappresentare mentalmente, l’analista dovrà funzionare da traccia mnestica, ovvero riagganciare quei ricordi che, pur non essendo stati cognitivamente registrati, rimangono nell’Io, un «processo organizzativo inconscio – scrive Bollas – che rispecchia la presenza della nostra struttura mentale». Il lavoro dell’analista dovrà dunque riprendere la funzione trasformativa della madre, là dove essa era stata disturbata o traumaticamente interrotta. Succede spesso – ricorda Bollas – che un bambino venga lasciato solo a confrontarsi con un problema per lui vitale, che esorbita le sue capacità di elaborazione. L’allontanamento di un genitore, per esempio, se supera il tempo in cui il piccolo è capace di conservarne l’immagine mentale, scatena uno stato di angosciosa confusione, che rompe il senso di continuità della propria esistenza. Il trauma subìto diventerà, allora, non tanto un passaggio nel corso della vita, ma un evento che la definisce.
Per quanto questi stati mentali siano preoccupanti, per quanto attivino processi insostenibili al pensiero, devono essere trattenuti – dal bambino prima e dall’adulto poi – allo scopo di «mantenere intatta la vita». Andranno a formare quello stato del Sé, che rimarrà come qualcosa di inarticolato e di sfuggente all’espressione: da qui il concetto di conosciuto non pensato, una esperienza remota che neppure i sogni riportano. La vita mentale non si limita a quel che è traducibile nell’ordine del simbolico, infatti, ma accoglie esperienze profonde del Sé che, pur non avendo accesso a una rappresentazione psichica, vengono conservate e concorrono a formare l’«idioletto della grammatica dell’Io».
È questo che Bollas chiama il carattere, ovvero una relazione con gli altri e con se stessi, che porta tracce dell’esperienza storica con i punti di riferimento primari di ciascuno di noi. Una delle finalità implicite nella alleanza terapeutica consisterà nel riportare alla superficie e decifrare ciò che l’analizzato sa già di sapere, senza tuttavia averlo mai potuto pensare.
Anche l’esperienza estetica, proprio in quanto trasformativa, rimanda inconsciamente al tempo di una fusionalità profonda del soggetto con i suoi oggetti primari: la madre, innanzi tutto, che con il proprio «idioma di cura», con il proprio stile di interazione, crea un ambiente e dà forma al mondo interno del bambino, allestendo per lui la prima esperienza estetica. È un campo, questo, che a Bollas sta particolarmente a cuore: prima ancora di indagarlo con gli strumenti della psicoanalisi, ne ha fatto il suo oggetto di studio privilegiato, arrivando a conquistare un dominio invidiabile della letteratura, dell’arte, della filosofia, che ha anche insegnato. L’ultimo suo libro, L’età dello smarrimento ne porta ampie testomonianze: al tempo stesso prende in esame la trasformazione subita dai prodotti culturali del nostro tempo (che traducono in equivalenti simbolici le nostre esperienze psichiche più remote) e descrive alcuni passaggi storici cruciali insieme alle loro loro ricadute nella psicologia sociale. Così come la democrazia ateniese non si limitò a inaugurare un sistema di governo ma si estese a formare una teoria della mente per le generazioni a venire, la febbre di sviluppo industrale della Germania prima della guerra si trasformò in una «dimensione maniacale, che si radicò lentamente nei presupposti idealizzanti riferiti al Sé e alla nazione».
Diagnosi del qui e ora
Tutte le società hanno cercato nell’«Altro» un contenitore delle proprie parti indesiderate: i «selvaggi» vittime della colonizzazione furono, per esempio, i depositari ideali «delle identificazioni proiettive delle menti europee. Dovevano essere considerati primitivi e violenti», così che l’Occidente potesse differenziarsi come «sosfisticato e puro». Più in generale, la dinamica che ha portato a tante guerre, ha sempre previsto prima l’esaltazione per una causa, poi l’individuazione di un nemico nel quale, di volta in volta, intere nazioni hanno proiettato le proprie parti scisse e meno presentabili.
Altri stati d’animo vengono seguiti da Bollas nel corso del loro sviluppo lungo i due secoli scorsi, fino alla diagnosi che riguarda il nostro tempo: un senso di lutto collettivo sembra avere preso il posto della fiducia nelle legittime aspettative che avevano tenuto insieme comunità neanche tanto remote. «Quando le società si identificano fortemente con convinzioni che sono andate perdute – scrive Bollas – si può verificare una perdita collettiva del senso di Sé».

Corriere La Lettura  18.11.18
La vera Teresa d’Avila: femminile e marrana
I suoi testi spesso trascurati dagli intellettuali ora sono accessibili in un’edizione con l’originale a fronte
Peccato che il saggio introduttivo dimentichi l’origine ebrea della sua famiglia e cancelli ogni tratto identitario
di Donatella Di Cesare


La mano correva veloce sui fogli, un’ora dopo l’altra, senza più il senso del tempo. Negli interminabili pomeriggi d’estate, nelle lunghe notti d’inverno, quando avrebbe potuto assalirla la malinconia, spettro funesto del monastero, lei era lì, per terra, seduta su una stuoia, appoggiata al ripiano di pietra sotto la finestra. Meditava, ricordava, scriveva. Non che il resto del giorno si sottraesse agli innumerevoli compiti — prendere l’acqua al pozzo, badare alla porta, filare, tessere, cucinare, ricamare — cui tutte le suore erano obbligate, se non volevano perdere quell’autonomia così faticosamente conquistata. Già nel municipio si mormorava che «certe donne, monache carmelitane, avevano abusivamente occupato una casa». Qualcuno aveva perfino minacciato un assalto al convento; quella novità era scandalosa.
Eppure lì, a San José, nell’autunno del 1565, dopo anni di amari tormenti e cupe inquietudini, a Teresa sembrava che la sua vita interiore procedesse come «una navigazione con un vento molto pacato». Era l’augurio che aveva espresso nella sua autobiografia, la Vida, composta «per ordine del confessore» — altrimenti si poteva immaginare che lei, una donna, scrivesse così, liberamente — e poi più volte corretta per eludere i sospetti dell’Inquisizione.
Finalmente era riuscita nel suo progetto: lasciarsi alle spalle l’esistenza confortevole e banale, che si conduceva all’ombra dei chiostri, per riprendere le regole antiche del Carmelo. Silenzio, povertà, introspezione, preghiera, vita comunitaria. Si erano scalzate; portavano sandali di tela e corda, indossavano un abito di lana grezza. Non possedevano nulla. Era una nuova forma di vita all’insegna dell’uguaglianza. Lì, tra loro, il sangue non sarebbe mai stato criterio per escludere, discriminare, colpevolizzare; la limpieza de sangre, assurta a legge razzista nella Spagna cattolica, che aveva già espulso gli ebrei, non avrebbe avuto alcun valore nello spazio del monastero. Tanto più che molte di loro, da Leonor de Cepeda a Maria de Ocampo, erano, come lei, figlie di conversos, ebrei convertiti al cristianesimo e segnati poi da una duplice non-appartenenza, non più ebrei, ma neppure ancora cristiani. L’acqua del battesimo non era bastata a lavare l’«impuro sangue ebraico», quel fluido ineffabile in cui si condensava il «male incurabile» dell’ebraismo. No, i «nuovi cristiani» non venivano considerati fratelli. Erano bollati piuttosto come «marrani», perfidi e infidi, capaci di dissimularsi, di farsi passare per cattolici, mentre restavano segretamente ebrei.
Teresa non aveva dimenticato. Come avrebbe potuto? Certo, non ne aveva parlato nella storia della sua vita. E anche altrove fu accorta; ad esempio là dove, nelle Costituzioni, scritte per le carmelitane, aveva espunto la frase «è importante per coloro che vogliano essere figli di Dio non tener in nessun conto il lignaggio». Nella sua infanzia e nell’adolescenza il lignaggio aveva pesato in modo subdolo, atroce, ingiusto. Per sempre lei sarebbe stata afflitta dall’obbligo di sustentar la honra, di sopportare il peso di una reputazione perduta.
Oltre le alte mura di Avila si ergeva il terribile ricordo di quel che era avvenuto a Toledo, quando suo nonno Juan Sánchez, drappiere e mercader, fu costretto a passare per le vie della città, tra i lazzi e le invettive della folla, indossando il sambenito, l’infame scapolare giallo che marchiava i marrani. Con lui sfilò l’intera famiglia, anche il figlio minore Alonso. Dopo aver acquistato un certificato falso di hidalguía, che avrebbe dovuto attestare il sangue «pulito», scongiurando carcere e tortura, i Sánchez de Cepeda si rifugiarono ad Avila per ricominciare una vita al di sopra di ogni sospetto. Alonso tentò di eliminare, insieme a quell’antica disgrazia, ogni traccia di ebraismo; sposò in seconde nozze Beatriz de Ahumada, donna di grande bellezza, appartenente alla piccola nobiltà. Il 28 marzo 1515 nacque Teresa, chiamata così in ricordo della nonna paterna Teresa Sánchez. Ma lo scomodo patronimico ebraico (appunto Sánchez) scomparve, soppiantato dai cognomi cattolici. Ma per i Cepeda y Ahumada, nonostante ogni occultamento, il passato restò incancellabile.
Dopo aver messo al mondo dieci figli, la madre morì molto presto, a trentatré anni. Con lei Teresa aveva condiviso l’amore appassionato per la lettura, conforto e sostegno per una donna timorata, chiusa nel matrimonio. Seguire quel modello? O cercarne un altro? Quando si era abbandonata all’amore per un cugino, con severità il padre era intervenuto per interrompere quella relazione. I fratelli emigravano in cerca di fortuna nel Nuovo Mondo; persino il suo prediletto Rodrigo salpò per il Río de la Plata. Via via anche la sua sorte sembrò ineluttabile. Don Alonso continuava a sperperare denaro e un buon matrimonio appariva una chimera. Teresa fuggì. Meglio il convento: la certezza di una dignità, la risorsa dello studio e della preghiera, la possibilità di restare sola, la paradossale libertà nel chiuso di quattro mura. Il padre andò a riprendersela. Lei fu irremovibile e pronunciò i voti nel 1537. Un anno dopo fece ritorno a casa gravemente malata. Un morbo oscuro le divorava la vita. Fu un susseguirsi di palpitazioni, convulsioni, addirittura paralisi. Decisivo fu l’incontro con Pedro de Cepeda, zio paterno, che da «cristiano nuovo» aveva scelto di farsi frate. Grazie a lui Teresa scoprì l’opera di un altro converso, Francisco de Osuna, che le additava un’avventura possibile, tutta interiore, la scoperta delle Indie di Dio.
Questa fu la «conversione» di Teresa, donna tormentata e ironica, radicale e appassionata, che sfugge ai limiti della sua epoca e appare una contemporanea. Di qui l’attrazione esercitata dai suoi scritti che, spesso trascurati nel mondo intellettuale, sono adesso accessibili in una splendida edizione con testo a fronte, curata da Massimo Bettetini e pubblicata da Bompiani. Peccato solo che il saggio introduttivo dipinga sin dall’inizio Teresa come una suorina in nuce, cancellando ogni tratto femminile, rimuovendo del tutto il passato ebraico. Non una volta si menziona Toledo! Come se non fosse mai esistito. Teologia della sostituzione che ripete — ancora adesso e, certo, non senza violenza — il gesto che fagocita, ingloba, elimina.
Ma Teresa, beata, santa, dottore della Chiesa, era una marrana. Perché negarlo? Dal 1946 le carte d’archivio non lasciano dubbi. E proprio questa sua peculiarità, che la relega al margine, si riflette nel suo originalissimo pensiero. Michel de Certeau la inserisce nella tradizione umiliata dei «nuovi cristiani», anime divise, pervase dal bisogno di un’intimità nascosta. L’incontro fra due tradizioni religiose, una respinta in un ritiro interiore, l’altra trionfante ma «corrotta», permette agli esponenti di questa intellighenzia di entrare nel cristianesimo articolando l’esperienza di un altrove. Tra meditazione e poesia, sono i percorsi autobiografici che consentono una libertà insperata per attraversare quella «notte oscura dell’anima», secondo il titolo del celebre poema di Juan de la Cruz.
Come spiegare altrimenti il capolavoro di Teresa d’Avila Las Moradas, ossia le dimore, detto anche El castillo interior (1577). Il castello è «dimora presa a prestito», dove l’anima può lasciarsi trasportare fuori di sé. Diamante e cristallo riflettono la luce di questo spazio interiore dove l’altro parla «per me». Il dialogo dell’anima si dispiega in uno sdoppiamento: l’altro abita nel sé, il sé nell’altro. Nessuna identità integrale. Tu sei altro da te stesso. Anche nell’unione mistica la separazione del sé da sé stesso è ineluttabile. Anzi è grazie alla separazione che l’anima può ospitare, può far posto all’altro infinito. Teresa scrive seguendo il dettato di una parola che la oltrepassa, parola condivisa, che viene dalla sua cerchia, che si dispiega in un tra — tra donne — e nella sua duplice differenza, femminile e marrana, non può non infrangere e contaminare l’universo cattolico. Così indica un sé inaccessibile anche a sé stesso, abitato dall’altro, infinitamente altro, e perciò sacro, che occorre difendere e salvaguardare. Tutta la mistica marrana è una risposta alla violenza degli inquisitori di ieri e di oggi.

La Stampa 18.11.18
Quella scia di sangue dietro Maria
Roma capitale del femminicidio
di Flavia Amabile


Cinque ceri rossi sono l’ultimo ricordo di Maria Rusu, 23 anni, freddata la notte del 27 ottobre sulla via Ardeatina. Cinque ceri rossi come i proiettili sparati dal suo ex compagno che non voleva saperne di vederla andare via. Si sono visti in una sera di autunno in uno slargo dove le auto in genere passano e vanno altrove. Non c’è un vero motivo per fermarsi proprio lì se non si è una prostituta, un cliente di una prostituta o uno dei rom che occupano l’unica casa dei paraggi. Maria era una prostituta ma quella notte era soprattutto una donna che aveva deciso di lasciare il suo convivente. Aveva accettato di incontrarlo ma non di tornare con lui. La risposta sono stati cinque colpi scaricati su di lei senza pietà.
Maria Rusu è l’ultima vittima di femminicidio a Roma. I ceri lasciati per lei sull’asfalto sono il punto finale di un viaggio in una città dove negli ultimi tempi si è registrato il tasso più alto di femminicidi d’Italia, cinque donne uccise in meno di tre mesi, una ogni 16 giorni. Sono cifre talmente enormi da provocare l’effetto opposto dello stupore, la mesta assuefazione del ripetersi di una tragedia. In quasi tre anni sono state tredici in tutto le donne uccise da compagni, fidanzati, mariti attuali o ex a Roma e nella provincia. I luoghi delle loro morti rappresentano la scia di sangue dell’Amore Capitale, un filo rosso di sentimenti incattiviti e spesso nascosti. Seguirlo vuol dire disegnare una mappa di altari all’amore malato che attraversa quartieri residenziali, vicoli del centro storico, palazzi della media borghesia. Il degrado appare nei casi di femminicidi commessi in strada, non quando avvengono nelle abitazioni.
«Desirée vive» è scritto su un muro di fronte all’edificio dove è stata uccisa il 19 ottobre Desirée Mariottini, 16 anni. È in via dei Lucani, quartiere San Lorenzo, terra di spaccio, abbandono e sogni persi. Non è vero, Desirée non vive più, nonostante la commozione, i murales, e le parole di tutti. Vive solo un simulacro di peluche, fiori, pupazzi e cuori, un santuario all’ipocrisia. Non c’è nulla che parli di amore nell’ultimo giorno di questa ragazza stuprata a turno da più uomini, drogata e lasciata morire. Non c’è nulla di tenero nella sua disperata ricerca di tutto questo, né nella scontata difesa dei suoi stupratori pronti a giurare di non sapere di aver posseduto una minorenne probabilmente da un certo momento in poi anche incapace di intendere e di volere.
L’amore
L’amore non c’è nemmeno quando si è convinti di averlo incontrato. Forse Tanina Momilio avrebbe lasciato marito e figli per il suo amante. Non lo sapremo mai. La sua storia è terminata all’alba dell’8 ottobre in un canale di Fiumicino, lanciata da un ponte. Uccisa con un bilanciere in palestra dal suo maestro-amante, soffocata con una busta di plastica, chiusa in un sacco e trasportata per un giorno nell’auto prima di essere scaricata come a Roma avviene solo con i frigoriferi e i materassi vecchi. Come sempre accade, lui ha parlato di uno scatto d’ira, il suo avvocato ha fatto sapere che non si era reso conto, come se una giornata intera con un cadavere nel portabagagli non bastasse per capire. Il sorriso di Tanina, la scollatura e una smorfia beffarda salutano le poche persone di passaggio lungo la strada del canale. Su uno striscione una frase di Vasco: «Domani è un altro giorno arriverà…». L’amore no, quello non è arrivato.
Via Albalonga è una strada poco lontana da piazza San Giovanni, palazzo signorile, portiere,tante scale. All’ultimo piano la sera del 28 settembre un uomo strangola la moglie. Poi chiama i carabinieri. Lo trovano con un coltello in mano, minaccia di uccidersi ma si lascia convincere a lasciar perdere. Racconta la disperazione di una vita senza figli, con una donna malata di Alzheimer che non vuole più vivere. Gli ha chiesto diverse volte di ucciderla. Una sera l’ha accontentata. Ora il loro appartamento è sotto sequestro. Sull’elegante porta in legno due fogli di carta congelano la solitudine, il dolore e la desolazione di un amore che forse, almeno stavolta, aveva davvero qualcosa dell’amore.
L’ultimo femminicidio si è consumato non troppo lontano dall’Ippodromo delle Capannelle, in via Corigliano Calabro, zona di strade tutte intitolate ai paesi della Calabria e villette moderne di due-tre piani. Elena Panetta abitava al piano terra, la conoscevano tutti da queste parti. Conoscevano meno il suo compagno. Stavano insieme da un anno. Si era trasferito a casa di lei, negli ultimi tempi era senza lavoro. Restava la cocaina ed Elena con i suoi soldi gliela procurava. La notte tra il 5 e il 6 agosto invece gli nega una dose. Lui prende una piccozza e l’uccide. Tre mesi dopo la loro casa è ancora sotto sequestro. Sigilli al cancello del garage e alla porta d’ingresso. All’esterno restano i fiori di chi le ha voluto bene e la devastazione del giardino dopo i temporali di fine estate. La tenda è a brandelli in un angolo, le sedie rovesciate come le loro vite.
Più si va indietro nel tempo, meno è facile trovare tracce degli amori malati. C’è una panchina rosa in via della Magliana dove fu uccisa Sara Di Pietrantonio il 9 maggio del 2016. Dovrebbe esserci anche una targa in ricordo delle vittime di violenza ma è caduta fra le erbacce di un’aiuola. Ogni tanto qualcuno si ferma, la storia di Sara strangolata dal suo ex è difficile da dimenticare. Lui ha provato a dirsi pentito in tribunale ma per ora è riuscito soltanto a trasformare l’ergastolo in 30 anni di carcere. In un parcheggio a Vitinia si distingue ancora una macchia di sangue su un marciapiede. La vita di Claudia Ferrari si chiuse lì con un colpo di pistola. Lasciava due bambine e una denuncia per stalking non ascoltata.

La Stampa 18.11.18
È Trump-Xi la sfida globale
di Maurizio Molinari


A due anni dall’insediamento alla Casa Bianca la priorità per il presidente Donald Trump è il duello strategico con la Cina: emerge dalla preparazione del G20 di fine mese, condiziona i rapporti con gli alleati e ha conseguenze anche per l’Italia. A muovere Washington sono tre ordini di considerazioni presenti nei dossier preparati per il presidente in vista del summit di Buenos Aires.
Primo: la Cina ha sfruttato l’adesione al Wto - l’Organizzazione mondiale del Commercio - per penetrare ed insediarsi sui mercati senza rispettare le regole della concorrenza e della proprietà intellettuale, trasformando così la globalizzazione in un gigantesco trasferimento di ricchezza a proprio vantaggio.
Secondo: la parte più avanzata e pericolosa di questo processo di penetrazione cinese sono le nuove tecnologie, dall’intelligenza artificiale al 5G, ovvero la capacità di impossessarsi dello scambio dei dati nei Paesi occidentali.
Terzo: Xi Jinping ha aggiunto a tale politica un’aggressività militare nei confronti dei Paesi vicini, con le operazioni attorno agli isolotti nel Mar della Cina Meridionale, che suggeriscono un ritorno del nazionalismo nelle forze armate.
La somma di tali pericoli costituisce la maggiore preoccupazione strategica della Casa Bianca. Ecco perché il presidente degli Usa, Donald Trump, è all’offensiva.
Confortato da una rara convergenza con l’opposizione democratica al Congresso di Washington sulla necessità di contenere Pechino - basta ascoltare a riguardo le parole di Nancy Pelosi, prossimo presidente della Camera dei Rappresentanti - ed affiancato da Mike Pompeo, il Segretario di Stato già capo della Cia e suo più stretto collaboratore.
Il maggiore impegno Usa è nella raffica di dazi bilaterali per correggere l’attuale surplus commerciale a vantaggio di Pechino ed ha già causato una flessione del pil cinese, spingendo Xi ad una maggior flessibilità negoziale. L’obiettivo di Trump è ambizioso: ridefinire la presenza della Cina nel Wto - voluta da Bill Clinton ed avvenuta a fine 2001 - per obbligare Pechino a rispettare le regole della concorrenza. A confermare questo approccio globale vi sono singole mosse regionali della Casa Bianca: dalla decisione di monitorare meticolosamente gli investimenti cinesi in ogni singolo Paese africano al recente accordo di revisione della Nafta con Messico e Canada che include clausole in forza delle quali gli Usa possono bloccare eventuali accordi con Pechino. Come dire: Trump incalza Xi ovunque può per fargli capire che la stagione del far west cinese sui mercati globali è al tramonto. E nulla sarà più come prima.
Tale approccio ha una duplice conseguenza sui temi della sicurezza. Innanzitutto il tentativo di impedire a Pechino di entrare sul mercato delle nuove tecnologie nei Paesi occidentali con investimenti tali da impossessarsi dei dati scambiati fra i cittadini. Il pericolo esiste perché la Cina punta sull’intelligenza artificiale per superare gli Usa nell’hi-tech e, in particolare, ha sviluppato una tecnologia G5 - l’Internet superveloce - in grado di competere con quella americana mentre l’Europa è molto indietro. Ciò rende possibile per Pechino ipotizzare incursioni in Occidente, come quando stava per fornire proprie reti G5 ad alcuni Stati Usa e solo l’intervento del Dipartimento di Stato di Pompeo lo ha impedito. Ultimo, ma non per importanza, c’è il teatro del più tradizionale equilibrio di potere militare del Mar della Cina Meridionale, dove Trump ha inviato la Us Navy ad effettuare manovre di monito a Pechino. È interessante notare come tanto sulla difesa delle nuove tecnologie che sulle operazioni navali in Estremo Oriente gli alleati europei più in sintonia con Washington sono Londra e Parigi. Mentre la Germania di Angela Merkel, Paese leader negli scambi con Pechino, appare sul fronte opposto perché crede come nessun altro nella necessità di aprire l’intera Ue alla iniziativa di Xi «One Belt and One Road» ovvero la creazione di imponenti infrastrutture terrestri e marine per integrare la Cina all’Europa continentale attraverso l’Asia.
È in tale cornice che si registrano alcune significative frizioni fra Washington e Roma perché l’amministrazione Usa ha visto con timore il viaggio del ministro dell’Economia Giovanni Tria a Pechino e Shanghai per corteggiare i fondi sovrani cinesi, le aperture dei Cinquestelle alla partecipazione di aziende cinesi - Huawei e Zte - alla realizzazione delle reti 5G in Italia, ed anche il progetto di consentire a Pechino di gestire in proprio l’area portuale di Monfalcone, vicino Trieste, trasformandola in una sorta di testa di ponte nel cuore del Vecchio Continente. Per avere idea di cosa preoccupa la Casa Bianca bisogna guardare ad Atene: da quando i cinesi gestiscono il Pireo con il gigante Cosco Shipping, la Grecia difende con il proprio voto gli interessi di Pechino nell’Ue ed anche all’Onu, arrivando perfino a bloccare condanne sul mancato rispetto dei diritti umani. Washington teme che Xi dopo la Grecia voglia riuscire a condizionare in maniera decisiva anche l’Italia, creando di fatto una inedita sfera di influenza nell’Europa del Sud. Tanti e tali tasselli suggeriscono come sia il rapporto con Pechino - e non con Mosca - il terreno sul quale la Casa Bianca misura i propri interessi e dunque i rapporti con gli alleati. E’ una sfida globale fra Trump e Xi che passa anche per Roma.

La Stampa 18.11.18
Ma la nuova Guerra Fredda si combatte sul dominio dell’intelligenza artificiale
di Gianni Riotta


Quando AlphaGo, macchina di Intelligenza artificiale (AI) progettata da Google per l’ancestrale gioco della dama cinese Go, ha vinto per la prima volta contro un Gran Maestro, Ke Jie, il campione battuto, si è commosso: «Il computer ha fatto mosse non umane, mai viste prima».
In Cina centinaia di milioni di telespettatori hanno assistito allo storico match, nessuno più interessato del presidente Xi Jinping: «Quel giorno del 2017 – spiega lo studioso Ian Bremmer – la Cina ha compreso il valore strategico dell’Intelligenza artificiale». Xi Jinping arringa dunque il Partito comunista «Entro il 2030 la Cina sarà superpotenza dell’AI» e il presidente russo Vladimir Putin gli fa eco: «Chi dominerà l’AI comanderà il XXI secolo».
Al summit sulla tecnologia, organizzato da Bloomberg a Singapore pochi giorni fa, l’ex ministro del Tesoro di George W. Bush, Hank Paulson, riconosce scorato: «Sta calando una nuova cortina di ferro tra Usa e Cina, viviamo la Seconda Guerra Fredda». E il decano della guerra e della pace nel ‘900, Henry Kissinger, 95 anni, confessa a Singapore che l’Occidente non ha una strategia per evitare lo scontro con la Cina, America ed Europa divise dai risorti nazionalismi.
Durante la Prima Guerra Fredda, fu lo Sputnik, il satellite artificiale lanciato dai russi nell’ottobre 1957, a sancire l’importanza militare della tecnologia. L’umiliazione di vedere i russi primi nello Spazio, nel 1961 con il colonnello Gagarin, persuase il presidente Kennedy alla corsa che, nel 1969, porterà la bandiera a stelle e strisce e Neil Armstrong sulla Luna.
Lo struggente nuovo film di Damien Chazelle, con il carismatico Ryan Goslin nella parte di Armstrong, soffonde l’autunno americano di nostalgia, rimpianto di un tempo in cui il Paese, unito, era leader di scienza e tecnica.
Kissinger teme l’AI, come un altro Premio Nobel, il filosofo Bertrand Russell, temeva gli ordigni atomici, e in un saggio sulla rivista «The Atlantic» ammonisce che i computer razionali potrebbero cancellare le conquiste dell’Illuminismo: democrazia, tolleranza, società aperta. Il ministro della Difesa Mattis condensa allora l’allarme di Kissinger nei cartoncini usati dal presidente Trump per la disamina dei problemi, e l’influente figlia Ivanka, lo condivide online. Trump, stavolta, li ascolta con attenzione.
La partita a Go e il fosco sermone di Kissinger accendono la Seconda Guerra Fredda. Sul fronte Intelligenza artificiale, si inquadrano tutte le frizioni Washington-Pechino, dalla tensione navale nel Mar Cinese Meridionale a dazi e tariffe. Fanno cornice la mesta impotenza europea e la crescente influenza giapponese, potenza autonoma.
Per primeggiare nell’AI servono tre dimensioni: una sterminata riserva di dati, algoritmi capaci di ordinarli e ricavarne narrative coerenti, computer potenti e sofisticati per eseguire le operazioni, grazie a tecniche di machine learning (la macchina analizza i dati oltre le indicazioni di partenza dei programmatori) e reinforcement learning (come cani di Pavlov, i computer ricevono «premi» e «punizioni» in cerca della soluzione ai problemi posti).
Gli Stati Uniti sono in vantaggio su algoritmi e computer, ma già sui dati i cinesi rimontano. Le grandi piattaforme americane, Facebook, Google, Amazon, Apple sono gelose nel condividere dati con lo Stato o tra loro, mentre Xi impone ai brand cinesi, Alibaba, Baidu, iFlytek, Tencent, di collaborare uniti al Piano Intelligenza Artificiale, nello speciale «Gruppo Nazionale». Setacciando la mole dei dati, il partito vara un programma di controllo sociale che non ha uguali nella storia (un ladro riconosciuto tra la folla di uno stadio da un algoritmo), e ogni cittadino riceve un «punteggio» dai software che ne certificano, volta a volta, dissensi e fedeltà.
Il 25% dei laureati in Informatica in America è di origine cinese e serpeggia già lo spettro delle spie, mentre il think tank australiano Strategic Policy Institute assicura che l’esercito cinese avrebbe infiltrato 3000 ufficiali, mascherati da scienziati, nelle Università Usa ed europee per sottrarre protocolli e dati. L’informatico Aviv Ovadya teorizza la prossima «Infoapocalisse», guerra dell’informazione via AI capace di paralizzare con false notizie mercati, opinione pubblica, vita quotidiana.
«Scienza Militare», autorevole rivista cinese, dibatte invece il passaggio dalla «Guerra dell’informazione», con i generali a guidare i computer, alla futura «Guerra intelligente», conflitto militare e civile dove si vince anticipando su AI l’influenza dei dati. Il vantaggio strategico di Pechino è allineare Forze armate, Università e aziende, come l’America faceva ai tempi di Nasa e progetto del web al Pentagono-Darpa. Ora i lavoratori di Google si ribellano al programma militare Maven, che interpreta immagini via AI, e l’azienda sospende la collaborazione. La Cina realizza intanto un programma analogo, lo sperimenta in Zimbabwe e Venezuela, affinando le tecniche di controllo AI.
«Le compagnie Usa lavorano con la dittatura cinese, ma snobbano la nostra democrazia, pur imperfetta, e i militari» lamenta l’ex ministro della Difesa di Obama, Ashton Carter. La tenacia di Trump nella guerra commerciale ai cinesi si spiega, alla fine, anche con i timori dello Stato Maggiore, per l’AI di Xi: «L’alta tecnologia ha sempre un doppio uso, civile e militare, il solo modo per rallentare la Cina è non vendergliene gli strumenti» spiegano al Pentagono.
Dopo l’atomica, sarà l’AI la frontiera della guerra totale.

Il Fatto 18.11.18
Colti e Ignoranti: le 50 sfumature di chi ne sa di più
di Domenico De Masi


Per capire qualcosa della cultura e dell’ignoranza si può usare la metafora del viaggio e del turismo. I “viaggiatori” si considerano eredi aristocratici del grand tour, acculturati per definizione e altezzosamente distinti dai “turisti”, massificati e ignoranti anch’essi per definizione. Ma il critico letterario americano Jonathan D. Culler ci fa notare che la spocchia con cui il viaggiatore vero guarda il “turista” si è poi riprodotta tra i turisti stessi in una sorta di gerarchia del disprezzo.
In altri termini, i turisti tendono a detestare gli altri turisti per convincere se stessi di essere meno turisti degli altri, di essere veri e propri viaggiatori. “I turisti – dice Culler – possono sempre trovare qualcuno più turista di loro da deridere. L’autostoppista che arriva a Parigi con lo zaino per un soggiorno dalla durata indefinita si sente superiore al compatriota che vola in Jumbo per starci una settimana. Il turista il cui forfait include solo il viaggio aereo e le notti in albergo si sente superiore, mentre siede al caffè, ai gruppi organizzati che passano in autobus. Gli americani in pullman di gruppo si sentono superiori ai gruppi di giapponesi che sembrano vestire uniformi e che sicuramente non capiscono nulla della cultura che stanno fotografando”.
Qualcosa del genere avviene anche a proposito della cultura. Il matematico che ha ottenuto la medaglia Fields, il letterato che ha vinto il Nobel, l’architetto cui è stato assegnato il Pritzker, considerano ignoranti gli accademici; gli accademici considerano ignoranti i giornalisti; i giornalisti considerano ignoranti i lettori; i lettori considerano ignoranti coloro che non leggono.
Per capire in che cosa consiste la cultura e immaginare come essa possa evolvere da qui al 2030, un gruppo di undici prestigiosi intellettuali di altrettante discipline – Remo Bodei per la filosofia; Juan Carlos De Martin per l’ingegneria informatica e la rivoluzione digitale; Derrick De Kerckhove per la sociologia dei media; Piergiorgio Odifreddi per la matematica e le scienze esatte; Nuccio Ordine per la letteratura; Rita Parsi per la psicologia; Pier Cesare Rivoltella per la didattica e le tecnologie dell’educazione; Lello Savonardo per la comunicazione e le culture giovanili; Severino Salvemini per le scienze organizzative; Mario Sesti per la critica cinematografica; Marino Sinibaldi per il giornalismo e l’organizzazione culturale – hanno collaborato a una ricerca condotta con metodo Delphi, per cui nessuno di essi sapeva chi erano gli altri né chi era il committente. In realtà la ricerca era stata promossa dai deputati e i senatori del Movimento 5 Stelle che nella passata legislatura facevano parte delle commissioni Cultura di Camera e Senato.
La base culturale, cioè la situazione scolastica del nostro Paese non è rosea. Sui 196 Paesi del pianeta siamo all’ottavo posto per quanto riguarda il Pil nazionale e, in base alla classifica fornita dalla Divisione Popolazione dell’Onu, siamo al 183° posto per quanto riguarda la natalità. Dunque siamo ricchi e, avendo pochi figli da educare, tutto autorizzerebbe a credere che investiamo il massimo sulla loro formazione, assicurando al Paese una totalità di cittadini istruiti a dovere, come occorre per vivere civilmente in una società postindustriale.
Invece, su 100 diplomati solo 39 si iscrivono all’università, solo 31 arrivano alla laurea biennale e solo 20 conseguono la laurea specialistica. La percentuale di italiani laureati è del 23%: giusto un terzo della California. E, invece di correre ai ripari creando incentivi per la frequenza universitaria, come ha fatto la Germania eliminando le tasse di iscrizione per tutto il primo triennio, abbiamo introdotto il numero chiuso. Dunque, se si parla di cultura in senso accademico, siamo ormai lontanissimi dai tempi in cui avevamo le prime e le migliori università del mondo.
Ma gli antropologi parlano di cultura in senso più ampio per indicare il bagaglio complessivo di cui dispone un popolo e distinguono tra cultura ideale, che consiste in valori, credenze, stereotipi, ideologie e linguaggi; cultura materiale, che consiste nel territorio, nei manufatti, nell’universo degli oggetti che ci circondano; cultura sociale, che consiste negli usi, nei costumi, nei riti, nelle forme di conflitto e di cooperazione.
In tutte e tre queste sfere culturali mostriamo grosse crepe e ciò si riflette nella nostra distorta percezione della realtà, indicatrice di un’ignoranza diffusa. Secondo l’Ipsos, su 196 siamo al dodicesimo posto per incapacità di comprendere il sistema sociale che ci circonda: quanti sono gli immigrati, i carcerati, gli evasori fiscali, ecc.
Mentre il livello culturale si abbassa, ogni intellettuale battaglia per affermare il primato della propria disciplina, ignorando la consistenza e i meriti di tutte le altre. Nel 1959 lo scienziato e letterato Charles P. Snow pubblicò un pamphlet intitolato Le due culture dove per tali si intendevano quella umanistica (letteratura, arte, storia, filosofia, ecc.) e quella scientifica (matematica, fisica, chimica, biologia, medicina, ecc.). Snow denunziava la scarsa interazione tra i cultori delle discipline letterario-umanistiche e i cultori delle discipline scientifico-tecniche: gli scienziati, “specialisti ignoranti” che quasi si vantano di non avere letto Dickens e i letterati che, con atteggiamento di sufficienza, ignorano la seconda legge della termodinamica. Del resto, Darwin trovava noioso Shakespeare e William Blake giudicava blasfema la scienza. Però, rispetto ai letterati, gli scienziati dimostrano maggiore libertà da pregiudizi razziali, religiosi, politici e sessuali. Inoltre gli scienziati sono più inclini all’ottimismo e coltivano più rigore metodologico; tra loro vi sono più miscredenti o atei e prevale la propensione ideologica a pensare e comportarsi da progressisti. Vi è, infine, la diversa velocità con cui procedono le culture: le scienze esatte evolvono più velocemente di quelle umane.
Mezzo secolo più tardi, nel 2009, il professore emerito dell’Università di Harvard, Jerome Kagan, ha pubblicato The three Cultures dove, alle scienze esatte e alle discipline umanistiche (humanities), sono state aggiunte le scienze sociali (antropologia, sociologia, politologia, economia, psicologia, psicologia sociale, pedagogia). Infine, recentemente, ha fatto irruzione nel panorama delle culture quella virtuale, che si è aggiunta alle altre tre e le ha rivoluzionate.
Se fino all’Ottocento la cultura era prodotta da pochi per pochi e le sinfonie di Mozart potevano essere ascoltate solo dalla ristretta cerchia dell’arcivescovo di Salisburgo, se nella società industriale la cultura di massa era prodotta da pochi per molti e le stesse sinfonie di Mozart, eseguite alla televisione, potevano essere ascoltate da milioni di persone, nella società postindustriale la cultura post-moderna è prodotta da molti per molti, come avviene con Wikipedia alla quale tutti possono contribuire e dalla quale tutti possono attingere.

La Stampa18.11.18
Alessandro Piperno
“Fiaccati da anni di politicamente corretto gli italiani vogliono trivialità e tracotanza”
Il complottismo si è alleato al razzismo
La dietrologia paranoidea dei grillini va a braccetto con laxenofibia dei leghisti
intervista di Massimo Vincenzi


Alessandro Piperno ci ha sempre stupito con la forza e la crudeltà con le quali mette sotto la lente di ingrandimento i vizi della borghesia, i complicati rapporti tra uomo e donna, le loro paure e incertezze ma ora non riesce più a chiudere gli occhi. E come in una seduta di psicanalisi prova a raccontare la rivoluzione in corso nel suo Paese sdraiandolo sul lettino.
Le ultime elezioni hanno stravolto completamente il panorama politico creando un vero e proprio choc per l’Italia. Cosa è accaduto?
«E chi lo sa! Vede, sulla questione mi piace sempre citare il grande poeta russo Iosif Brodskij: “La politica è al livello più basso della vita spirituale”. Nel senso che sollecita gli impulsi più elementari e corrivi della nostra interiorità. Anche per questo me ne sono sempre tenuto doverosamente alla larga. Ecco, mettiamola così: dal 4 marzo scorso sono regredito al livello più basso della mia vita spirituale. Sono sull’orlo di una crisi di nervi. Leggo i giornali con avidità, consulto siti, guardo la tv, prendo a concionare a tavola e all’università come un tribuno, manca solo che mi metta a parlare da solo per strada. Alterno apprensione, sdegno a stupefazione. Assisto con orrore al tramonto del buonsenso. E per la prima volta in vita mia sento farsi strada il sospetto paranoico che sia tutto collegato. Le faccio un esempio».
Mi dica.
«Anni fa un mio amico che insegna negli Stati Uniti da decenni mi disse che non aveva dubbi: non solo Trump avrebbe vinto le primarie repubblicane, ma anche le presidenziali. Alle mie proteste piene di legittima incredulità mi zittì dicendo: “Gli americani sono stanchi della correttezza politica. Hanno bisogno di trivialità, franchezza becera, tracotanza”. Dio sa se aveva ragione. E a quanto pare, ad aver bisogno di certa roba non erano solo gli americani, ma anche gli inglesi, gli ungheresi, gli austriaci e gli italiani naturalmente. Del resto, ravviso una relazione sinistra tra l’oltranzismo del politicamente corretto e il trumpismo. Sebbene antitetiche, si tratta di dottrine violente, settarie, prive di ironia e di misericordia. Ci ha fatto mai caso? C’è qualcosa che assimila gli occhi spiritati di certi deputati grillini ai ghigni sarcastici dei leghisti».
Quando è iniziata questa trasformazione?
«Per quanto concerne l’Italia, sospetto che i vent’anni di guerra civile tra berlusconiani e anti-berlusconiani abbiano impartito alla gente una lezione di odio reciproco talmente viscerale che stentiamo ancora a liberarcene. E ritengo che la cosiddetta classe dirigente abbia giocato il ruolo mefitico e irresponsabile dell’apprendista stregone. Un Paese la cui élite insegna alla gente comune a odiare l’élite ha qualche serio problema di auto-coscienza».
Ora avanzano i sovranisti. Sembra un’ondata inarrestabile. Per quale motivo?
«Non bisogna essere un premio Nobel per capire che il peggior nemico della democrazia liberale è la crisi economica. Di colpo la gente ha ottime, legittime ragioni per incanaglirsi. Penso al piccolo mondo da cui provengo, la borghesia metropolitana, laica e operosa: nell’ultimo decennio ha subito un lento inesorabile declassamento sociale. Non oso immaginare come stanno tutti gli altri, ossia la maggioranza che già se la passava male. E come insegna Girard, il grande antropologo francese, quando la gente è in difficoltà, quando trema di paura, per prima cosa se la prende con chi sta molto meglio poi con chi sta molto peggio. Così il complottismo si allea al razzismo. La dietrologia paranoide dei grillini va felicemente a braccetto con la xenofobia dei leghisti. Da un lato si farnetica contro i poteri forti, dall’altro contro i finanzieri ebrei e gli immigrati. Le assicuro, non avrei mai creduto che un giorno avrei vissuto tempi del genere».
E da qui come si arriva al sovranismo?
«Il passo è breve. È come quando sei depresso e ti vien voglia di chiuderti in casa. L’infelicità, la tristezza, la miseria ti abbrutiscono e ti rendono sospettoso e guardingo. Chiudi a chiave la porta, abbassi le serrande. Ti viene naturale dare la colpa ai vicini di casa. Se stai così male sarà di certo colpa loro. Diventi lamentoso, capzioso, auto-indulgente. Non vedi l’ora di insultare qualcuno alla prossima riunione di condominio».
Quale altro effetto ha avuto la crisi?
«Ha incrinato quel muro di valori condivisi che George Steiner chiama il “pregiudizio liberal”: tolleranza, civismo, buone maniere. Tutto andato in fumo. Lo vede? Ormai parlo come un trombone».
Cosa pensa del problema dell’immigrazione?
«Penso che tra qualche anno guarderemo al nostro atteggiamento odierno con lo stesso orrore con cui oggi giudichiamo le cose terribili che succedevano in Europa settant’anni fa».
Perché l’Italia ha così poca memoria?
«Sa che l’ottanta percento dei miei studenti non sa cosa sono le leggi razziali e il restante venti percento ritiene che esse abbiano riguardato solo la Germania? Ho sempre diffidato della capacità redentrice della memoria. Alla questione ho dedicato anche un paio di libri. Ma questa ignoranza supera di molto le mie peggiori aspettative».
Torniamo per un momento a un concetto che lei ha espresso e che mi ha colpito. Perché Trump e il politicamente corretto sono la faccia della stessa medaglia?
«Perché sono espressioni di un pensiero rozzo e semplificato che si nutre di pregiudizi e si avvale di slogan e frasi fatte. Sono forme di estremismo che hanno silenziato il pensiero critico e hanno abolito il sano esercizio del dubbio».
Per questo ha deciso di dedicarsi in modo più attivo alla politica?
«Non la metterei così. Detesto gli scrittori impegnati. A Zola preferisco Flaubert, a Sartre preferisco Claude Simon, a Pasolini preferisco Gadda e Montale. Diciamo che per la prima volta nella mia vita mi scopro in apprensione per ragioni politiche».
Lega e 5 Stelle sono alleati, ma anche rivali. Se si tornasse a votare cosa accadrebbe?
«Al di là di tutte le goffaggini, le insipienze, gli abusi di potere, i tradimenti della parola data, il malgoverno mostrato a Roma e a Torino, l’offerta dei 5 Stelle resta fortissima (soprattutto quando c’è da decostruire), e se possibile quella della Lega lo è anche di più. Temo che per chi la pensa come me le prossime elezioni europee sanciranno il tracollo definitivo. Anche se spero di sbagliarmi».
La seduta è finita, come vede il paziente Italia?
«Che le devo dire? Il 5 marzo, quando mi sono svegliato, mi sono sentito come un nobile francese dopo la presa della Bastiglia. Temevo che volessero ghigliottinarmi. Diciamo che il mio relativismo mi mette in guardia da me stesso, spingendomi a chiedermi se per caso ci sia qualcosa che non ho capito, se in quello che sta capitando ci siano anche risvolti positivi che un signore di mezza età come me è incapace di valutare e di percepire. Non posso che augurarmelo naturalmente».

Corriere 18.11.18
Profilattico di Stato, l’ultima frontiera dei Cinquestelle
di Goffredo Buccini


Sull’inarrestabile ottovolante della stagione politica legastellata, ammettiamolo, non potevamo farci mancare il condom di Stato per i migranti. È l’ultima surreale curva prima del precipizio o, chissà, prima della risalita verso gli astri: sino al (nostro) prossimo «ohhh» di stupore o alla prossima giravolta in questo letto matrimoniale a una piazza dove in due si sta stretti ma, cantavamo un tempo, soli si muore (senza numeri per governare).
In un’alternanza vorticosa di problemi seri e ripicche grottesche, diventa difficile distinguere tra drammi e farse persino per gli sciacalli più esperti. Così, mentre ancora volano i rifiuti (e i messaggi minacciosi) tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, spunta questo emendamento alla manovra, presentato dai Cinque Stelle in commissione Bilancio della Camera, che riguarda, in realtà, oltre i richiedenti asilo e i beneficiari di protezione internazionale, tutti i giovani sotto i 26 anni e le donne che nei dodici mesi precedenti abbiano abortito. La questione, come si può intuire, è molto sensibile e nient’affatto futile, tocca le coscienze di tanti e i fondi del servizio sanitario nazionale: la contraccezione gratuita è un tema civile su cui una parte dell’opinione pubblica (cattolica) può non essere d’accordo ma che un’altra parte (laica) ritiene irrinunciabile, sicché, come sempre, ci muoviamo alla rinfusa: nel 2008 la Puglia (allora guidata da Nichi Vendola) ha aperto la strada; più di recente altre quattro Regioni — Lombardia, Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna — la stanno seguendo con ordini del giorno o delibere. Altrove, il buio. Mancava (manca) qualsiasi coordinamento statale e il Fatto Quotidiano ricordava in un’inchiesta recente come, stando ai report di organismi internazionali, fossimo il fanalino di coda dell’Europa occidentale quanto ad accesso alle tecniche di contraccezione.
Dunque una questione simile andrebbe discussa a fondo e apertamente, magari nella società civile prima che in quella politica. Ma questa è la stagione in cui la maggioranza pensa di regalare un pezzo di terra alle coppie che fanno un terzo figlio (un’idea carica di antiche suggestioni non proprio in sintonia col preservativo agli under 26). E, soprattutto, è un tempo nel quale s’è decisa una nuova stretta sugli immigrati, con il taglio della protezione umanitaria e norme più dure sulla loro permanenza nelle strutture in attesa d’espulsione.
Sicché ci vuole la solita «manina», una figura retorica mutuata dalla Prima Repubblica ma assurta a nuovi allori in questa sedicente Terza, per cambiare le carte in tavola. Regalare condom ai migranti può anche essere un balzo di civiltà ma ha soprattutto l’aria di un calcio negli stinchi affibbiato dai Cinque Stelle a Salvini mentre ancora infuria la polemica sui termovalorizzatori. E finisce, magari con le migliori intenzioni, per buttare tutto in caciara. Maestri di ossimori e paradossi quali siamo, ci prepariamo a rinchiudere i ragazzi venuti dall’Africa in centri per il rimpatrio (i Cpr) da cui non usciranno prima di sei mesi ma li riforniamo, intanto, di preservativi. Al «capitano» leghista non sfuggirà inoltre, quale ennesimo oltraggio ai talami tricolori, l’insidioso messaggio subliminale insito nell’emendamento: i beneficiari del condom pentastellato che attraversano il Mediterraneo sono quasi tutti maschi single. Qualche sapientone da talk show osserverà infine che questa è l’ennesima nazionalizzazione tentata dai discepoli di Grillo. Noi, ormai assuefatti e smaliziati, ci metteremo comodi sempre attendendo la battuta drammatica, «né con te né senza di te», ma sempre più certi di assistere a una vecchia, rassicurante commedia all’italiana.

il manifesto 18.11.18
Tre diversi «Lenin» nella tempesta dell’«intellighenzia»
Gor'kij. Il racconto di come uno scrittore cruciale conobbe e si scontrò con un cruciale politico e statista: Marco Caratozzolo studia e compara le versioni ’24, ’27, ’31 di Lenin, un uomo, Sellerio
di Giorgio Fabre


Fa impressione leggere, in questo momento, il libro su Lenin scritto da Gor’kij. Questa è un’epoca in cui vengono ormai lette e pubblicate biografie sofisticate e piene di documenti di tutti i tipi, soprattutto sull’Urss: per i leader russi bastano quelle uscite da pochissimo sullo stesso Lenin, di Victor Sebestyen per Rizzoli, e, ricca di rilevante documentazione, su Stalin di Oleg Clevnjuk (Mondadori). Eppure la biografia su Lenin scritta da Gor’kij resta una guida letteraria e storica che si impone come genere diverso. Non risulta che ci sia stato qualcosa di simile nella stessa cultura mondiale: forse la celebre biografia del dottor Johnson scritta da James Boswell. Forse quella, tutto sommato esile, del 1923-’24, di Anatolij Lunacarskij sullo stesso Lenin.
Quella di Gor’kij ha caratteri suoi ma è davvero un capolavoro dell’analisi storica di un periodo di cui, in fondo, ancor oggi non sappiamo tutto. È il racconto di come un cruciale letterato e anche politico, conobbe, si scontrò e anche attaccò un cruciale politico e statista. Dopo la versione che ne ha fornita qualche tempo fa l’editore Castelvecchi, ristampando la vecchissima traduzione di Ignazio Ambrogio (ma si riferiva soltanto alla versione del 1931), ora esce la biografia completa: Maksim Gor’kij, Lenin, un uomo. E vengono confrontate tra loro le edizioni che lo scrittore russo forse più celebre del Novecento pubblicò nel ’24, dopo la morte del capo comunista, ritoccò tre anni dopo e rifece nel ’31. L’ha edita la Sellerio («La memoria», pp. 164, euro 13,00) e l’ha curata uno dei nostri migliori russisti, Marco Caratozzolo, che ha tirato fuori e accostato le tre versioni, indicandone, con straordinaria abilità, le rispettive modifiche, aggiunte, eliminazioni e spiegandone i vari motivi. È uno studio di grande rilevanza, senza precedenti direi in nessun paese, neanche in Russia; e forse meriterebbe una traduzione perfino in russo.
Delle tre versioni, il testo cruciale è quello del 1927, che costituisce l’asse portante del libro e in parte corresse quello del ’24, quando Lenin era appena scomparso. Anche l’edizione del ’31 resta però rilevante, perché Gor’kij cercò di modificarvi la versione precedente: il vero capo era cambiato ed era Stalin, e il grande scrittore, che pure continuava a vivere nell’Italia fascista, manteneva un solido e prudente rapporto col proprio paese. Per esempio il racconto dei giudizi di Lenin su Trotzki veniva modificato. Ma non era solo un testo da far accettare al nuovo vožd, al nuovo capo: era un ripensamento della valutazione e del giudizio dello stesso biografo.
Perché il rapporto tra Gor’kij e Lenin non fu tranquillo né sempre affettuoso (ma talvolta sì). Nei testi si vede bene, e per questo sono affascinanti. Caratozzolo ha aggiunto anche brani di articoli che lo stesso Gor’kij pubblicò allo scoppio della Rivoluzione. Durissimi. Uno solo del 7 novembre 1917: «Lenin, Trockij e i loro compagni di strada si sono già intossicati con il putrido veleno del potere, cosa che si riflette nel loro vergognoso atteggiamento verso la libertà di parola, della persona e verso tutti quei diritti per la cui conquista si è battuta la democrazia».
Lo scrittore vide Lenin per la prima volta a San Pietroburgo nel novembre 1905, a un incontro in un giornale bolscevico e poi a una riunione del Comitato Centrale del partito socialdemocratico russo. Già sapevano uno dell’altro da diverso tempo. Ma Gor’kij era entrato allora nel partito di Lenin, e quelli non furono grandi rapporti. Lo scrittore, già famoso, era diffidente, e lo rimase a lungo. Lenin meno, perché il celebre Gor’kij poteva essere uno strumento prezioso per lui e il partito. Ma due anni dopo, a Londra, al nuovo Congresso del partito, Gor’kij cambiò atteggiamento e il capo dei bolscevichi divenne per lui un vero punto di riferimento.
Ma anche Lenin poco dopo, quando Gor’kij per la prima volta andò a vivere per un po’ di tempo a Capri, cambiò il suo, di atteggiamento, e partì all’attacco. Nell’isola lo scrittore aveva invitato, oltre al leader bolscevico, degli amici progressisti e russi come Bogdanov, che aprirono la cosiddetta «scuola di Capri», un gruppo di intellettuali attratti dall’inserimento della religione nella normale vita culturale. «Combriccola di letterati», se ne uscì Lenin; e su Gor’kij, ricordò che a Capri egli lo aveva «ammonito e rimproverato per i suoi errori politici».
Dopo non molto, nel ’17 partirono gli attacchi inversi di Gor’kij a Lenin, per la violenza che aveva attraversato la Rivoluzione, origine di grandi stragi. Eppure i rapporti rimasero buoni. Ma lo scrittore insisteva con la sua diffidenza verso la politica. Lo riassunse nella biografia del ’27: Lenin «era un politico. Usava alla perfezione quella linearità dello sguardo, ormai rifinita e molto chiara, che è indispensabile al capitano di una gigantesca nave come è la greve Russia contadina. Io ho un rifiuto fisiologico della politica e sono un marxista molto dubbioso, perché credo poco nella ragione della masse in generale».
Si affermarono così i rapporti personali, soprattutto dopo che Lenin nel ’18 venne ferito dall’attentato della Kaplan; ma anche la diffidenza di Gor’kij verso la politica bolscevica imposta dal leader. Lo scrittore soprattutto tentò di salvare l’«intellighenzia» russa, che in quel periodo entrava invece, proprio per ispirazione di Lenin, nella tempesta distruttiva del bolscevismo, che privilegiava solo operai e contadini. Era la stessa posizione dell’altro bolscevico cruciale e biografo di Lenin, Lunacarskij. Ma si noti: proprio per difendere l’«intellighenzia», Stalin (in fondo più abile del padre del bolscevismo) negli anni trenta fece nominate Gor’kij capo dell’Unione scrittori. E lui finì per guidare un gruppo intellettuale che ormai dipendeva del tutto dal Partito.

il manifesto 18.11.18
Folla per l’Anpi con Ilaria Cucchi e Mimmo Lucano. E insulti da Forza Nuova
Nuovi partigiani. Nella notte Forza Nuova ha affisso davanti al conservatorio uno striscione: «Anpi oggi come ieri: traditori del popolo». Ilaria Cucchi replica: «Abbiamo le spalle larghe, sono abituata a insulti e accuse».
di Mauro Ravarino


TORINO Troppo piccolo il conservatorio Verdi di Torino per raccogliere l’affetto attorno a Ilaria Cucchi e Mimmo Lucano, che ieri hanno ricevuto la tessera onoraria dell’Anpi. In molti, durante la cerimonia, sono rimasti fuori dalla sala concerti. È stata una decisione forte e importante quella dell’associazione partigiani guidata da Carla Nespolo, una scelta che testimonia vicinanza ai nuovi partigiani della Costituzione e a chi spende la vita per i diritti degli ultimi. Insieme alla sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 mentre era in stato di arresto, e al sindaco di Riace, sottoposto tuttora al divieto di dimora, anche l’artista Ugo Nespolo ha ricevuto la tessera onoraria dall’Anpi: «Il nostro dovere di intellettuali – ha detto – è smascherare il fascismo, sempre».
Ilaria è stata accolta dagli applausi. «Abbiamo portato avanti una battaglia di civiltà in un momento in cui eravamo soli, questo riconoscimento mi onora e mi emoziona», ha dichiarato a caldo. «Stefano – aveva sottolineato poche ore prima nella presentazione del film “Sulla mia pelle” al campus universitario Einaudi – è morto per l’indifferenza, quella di oltre centoquaranta pubblici ufficiali, tra forze dell’ordine, giudici, infermieri e medici. Nessuno di loro ha fatto nulla, nessuno ha denunciato subito quello che aveva davanti agli occhi. Stefano non era un eroe, era un tossicodipendente, un essere umano anche un po’ rompiscatole, ma questo non c’entra nulla con quello che gli hanno fatto. È morto come un ultimo tra gli ultimi e non è giusto».
Emozionato, Lucano, il sindaco dei migranti, nel ricevere il riconoscimento. «È sorprendente dopo le amarezze di questo periodo avere questa dimostrazione di affetto, non l’avrei immaginato. Questo governo ci indica la strada della barbarie e della disumanizzazione. Stiano correndo il grave pericolo di una società autoritaria. Dobbiamo essere uniti. Ora stanno trasferendo tutti i rifugiati, pensano che questa sia una vittoria, in realtà è una sconfitta. Riace la sua vittoria l’ha già avuta e quello che è accaduto a Riace, una terra difficile per tante ragioni, può essere possibile in tutta Europa».
Nella notte tra venerdì e sabato Forza Nuova ha affisso davanti al conservatorio uno striscione: «Anpi oggi come ieri: traditori del popolo». Ilaria Cucchi ha replicato: «Abbiamo le spalle larghe, sono abituata a insulti e accuse. Più volte sono stata accusata di strumentalizzare la morte di mio fratello. Sì, l’ho fatto e lo farò finché ne avrò la forza perché è troppo facile far finta che gli ultimi non esistano, convincere le persone che il nostro benessere è legato alla violazione dei diritti di qualcun altro. I diritti non sono per nessun motivo sacrificabili».

il manifesto 18.11.18
Magherini, la sentenza che tutela la forza e non la vita
di Luigi Manconi, Valentina Calderone


Ci siamo trovati a commentare, in questi anni, sentenze a conclusione di processi che hanno visto a giudizio uomini in divisa accusati di avere provocato, con il loro operato, la morte di alcune persone. È il caso di Riccardo Magherini, che nel 2014 venne fermato a Firenze da una pattuglia di carabinieri, assolti con formula piena dalla Corte di Cassazione tre giorni fa. Questi processi, tutti, hanno tratti sorprendentemente comuni e, verrebbe da dire, immutabili: la vittima è indagata nelle sue attività quotidiane, vengono scandagliate le sue abitudini, elencati i suoi consumi (tanto più quelli illegali), censurato lo stile di vita, messo in cattiva luce il rapporto con la famiglia.
Esemplare, in tal senso, la frase di un pubblico ministero nella requisitoria finale del primo processo per la morte di Stefano Cucchi: «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni». A parte il fatto che Cucchi 20 anni prima della sua morte di anni ne aveva 11, questo ci sembra un buon sunto del clima di quei processi e di come essere un «drogato» renda più sopportabile, quando non proprio legittima, la sua morte per mano delle forze di polizia. I due processi di primo e secondo grado per quanto accaduto a Magherini si sono conclusi con la condanna a sette e otto mesi per i tre carabinieri accusati di omicidio colposo. In questo caso, a supporto della tesi della sproporzione dell’intervento e dell’uso della coercizione, c’erano dei video, filmati da persone presenti sulla scena.
Grazie alle immagini e ai testimoni, si è potuto accertare che Magherini rimase ammanettato con le mani dietro la schiena, steso per terra a pancia in giù, con i tre carabinieri a gravare con le ginocchia sul suo corpo impedendogli di muoversi e respirare, per almeno un quarto d’ora. Quindici minuti in cui l’uomo gridava «aiutatemi», fino a quando ha smesso di parlare. Ma nemmeno il suo silenzio ha indotto i carabinieri a liberargli i polsi, tanto che all’infermiera arrivata con l’ambulanza è stato impedito di prendere i parametri vitali.
Magherini è morto così. E non è solo la sua memoria e i suoi famigliari ad avere subito un duro colpo, perché se la Cassazione decide di annullare senza rinvio la condanna affermando che «il fatto non costituisce reato», significa che tutti noi abbiamo più di un problema. Leggeremo le motivazioni, ma l’assoluzione piena fa pensare che sia stata sposata totalmente la tesi della difesa, per la quale i carabinieri «non sono dei medici»: impossibile per loro individuare le avvisaglie della mancanza di ossigeno.
Peccato che, solo il mese precedente alla morte di Magherini, il Comando generale dell’Arma avesse emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in cui venivano esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati in stato di alterazione psicofisica «al fine di ridurre al minimo i rischi per l’incolumità delle persone». Per esempio, si evidenziava come fosse ritenuto importante scongiurare i «rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona» e si specificava di evitare «in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica», la quale «può costituire causa di asfissia posturale». Il comando dell’Arma, dunque, aveva individuato proprio quella posizione come altamente pericolosa, tanto da imporre una specifica formazione su questo aspetto agli operatori.
Parliamo al passato perché, nel frattempo, quella circolare è stata abrogata. Forse si è ritenuto che non fosse più vero che una persona agitata cui venga schiacciata la cassa toracica inevitabilmente smetterà di respirare; o si è pensato che da quegli operatori, titolari dell’uso legittimo della forza, non si dovesse pretendere anche la conoscenza dei minimi elementi di sicurezza indispensabili per evitare la morte delle persone fermate.
Non si propone qui l’obbligo della laurea in medicina per tutti i carabinieri, ma davvero ci pare estremamente pericoloso affermare che – a parte la velocità nell’inseguire i furfanti, la forza nel placcarli e la risolutezza nel trattenerli – non sia richiesta loro alcuna competenza per aiutarli a capire quando è il momento di fermarsi. Se per la Cassazione, evidentemente, il bene principale da tutelare è stata l’operatività di quei tre carabinieri al di fuori di ogni vincolo o limite, noi continuiamo a pensare che una vita, la vita di Riccardo Magherini, la vita di chiunque venga fermato da uomini in divisa, valga decisamente più di questo.

il manifesto 18.11.18
Alla ricerca della “circulata melodia” di Virgilio
Classici ritradotti. Daniele Ventre ha tradotto Bucoliche, Georgiche ed Eneide per Mesogea, inseguendo la famosa naturalezza virgiliana in una vibrazione, ma sottotraccia
di Massimo Raffaeli


Potrebbe sorprendere la scelta di tradurre in una sola presa di fiato e dunque all’interno di una rettilinea monodia tutta quanta l’opera di Virgilio, Opere Bucoliche, Georgiche, Eneide (Mesogea, pp. 353, € 22,50), come ha appena fatto Daniele Ventre, già segnalatosi per una limpida resa dei poemi omerici nella tradizione, bis in idem a detta di Giorgio Pasquali, dei buoni classicisti. L’idea da cui muove Ventre individua nel Virgilio bucolico e georgico uno stigma lirico-elegiaco dato una volta per sempre, il quale non viene mai meno ma infine è capace di ricevere la totalità dell’esperienza e perciò di metabolizzare una materia propriamente epica. (E qui va da sé che la immagine di un Virgilio continuatore ovvero traduttore dell’eredità omerica è il topos pressoché inscalfibile della sua ricezione millenaria).
Insomma Ventre asseconda una pronuncia, si dica pure una leggendaria medietà di modulazione, che nel grande poema sa allargarsi alla interezza dello spettro tematico attingendo il Grande Stile ormai urbano e cosmopolita senza tuttavia smentire né il tono né il timbro squisitissimo della ispirazione originaria, che era invece lacustre e agreste. Come se la parola di Virgilio rispondesse a un genio calamitante e centripeto, a un costante principio equilibratore capace di occultare, o meglio di assorbire senza sbalzi visibili, ciò che il suo canonico dirimpettaio e deuteragonista, Orazio, mostrava e talvolta calcolatamente ostentava, cioè la callida iunctura, l’ardito accostamento (anche Leopardi nello Zibaldone parlerà di «ardiri» alla maniera di cellule generative) dove principia e consiste l’ordine metaforico della poesia in sé.
Nella sua nota introduttiva, Ventre legge la conquista della armonia poetica, in Virgilio, quale un doppio allegorico o un parallelo della mitologia del principato augusteo: «Come Orazio, combattente a Filippi dalla parte sbagliata, aveva finito, tramite Mecenate, per satellizzarsi intorno al princeps, così Virgilio era giunto a sottoscrivere un ordine politico dal cui avvento, in un primo tempo, era stato travolto: di più, si era ritrovato a condividerne in prima persona le istanze di rinnovamento». Quasi che Virgilio, l’ex espropriato, l’esule nostalgico dal Mincio suo assicello fluviale, proprio lui, l’antipode di ogni più tradizionale miles agricola, avesse viceversa ritrovato a Roma, sublimandone l’epica, la Placida Pax di una patria rediviva e insperabile. Per questo, scrive Ventre, come Virgilio torna costantemente al suo mondo primordiale e alla fonte di una ispirazione cristallina, così il suo traduttore deve sentire anche lui il perpetuo bisogno di «guardarsi indietro».
Ma nello stesso tempo, questo è ovvio, deve osservare, ritrovandolo davanti a sé, lo specchio ustorio della tradizione, delle sue potenti rifrazioni come delle sue distorsioni. Per stare soltanto all’Eneide, le versioni d’autore presenti nel senso comune sono oggi non meno di quattro e, scandite dalla disputa fra antichi e moderni, stanno si potrebbe dire tra di loro come il classico (il classicistico, naturalmente) all’anticlassico: da un lato c’è l’archetipo cinquecentesco di Annibal Caro la cui estrema risorgiva compare negli endecasillabi sciolti (non proprio memorabili, anzi talora involuti e persino scazonti) di un Leopardi incognito e nemmeno ventenne che invia la propria versione del II Libro del poema – plaquette in omaggio – a Vincenzo Monti, ad Angelo Mai e a Pietro Giordani; dall’altro, l’intrapresa già tutta novecentesca di Rosa Calzecchi Onesti (un verso lungo vagamente esametrico e similprosastico ma supportato da alcuni accenti forti secondo la modalità tipica del suo maestro e committente, Cesare Pavese) e poi, oltre a quelle di Luca Canali, integrale, e di Giovanna Bemporad, molto parziale, la notevole impresa (recentissima, Einaudi 2012) di un poeta latinista, Alessandro Fo, che invece sceglie il verso chiuso in esametri «barbari» di ascendenza carducciana. Estraneo al modernismo di Calzecchi Onesti per quanto definisce «la rinuncia» ai tratti squisitamente formali, prossimo invece all’impresa di Fo, per parte sua Daniele Ventre opta per una «versione in esametri ritmici e per una restituzione quanto più possibile limpida del testo e delle sue valenze timbriche».
Banco di prova elettivo per valutarla potrebbe essere appunto il II Libro del poema anche per la collocazione strategica (circa la quale fa testo da un secolo lo studio di Richard Heinze La tecnica epica di Virgilio, tradotto dal Mulino nel 1996, cui ritorna l’ottimo commento di Sergio Casali – Eneide 2, Edizioni della Normale 2017 – ampiamente recensito da Andrea Cucchiarelli su «Alias» dello scorso 27 maggio): ad esempio si prenda l’incipit del Libro che non solo avvia il racconto delle vicissitudini di Enea e a contraccolpo dell’innamoramento di Didone ma che una tradizione vuole anche quello redazionalmente più arcaico e addirittura letto da Virgilio in anteprima già nel 21 a. C. al cospetto di Augusto. Calzecchi Onesti lo rende in una sostanziale atonalità, con un verso che si vuole lungo e piatto («Tacquero tutti e intenti il viso tendevano. / Dall’alta sponda il padre Enea cominciò: / ‘Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina’») mentre Alessandro Fo si stringe ai vincoli prosodici dell’originale recuperandone la coloritura per via fonosimbolica: «Tacquero tutti, e tenevano intenti su lui i loro sguardi / Quindi dall’alto giaciglio così incominciò il padre Enea: / ‘Chiedi, regina, che io ripercorra un dolore indicibile’». Se è meno rilevata o appena brunita nel lessico, è invece più docile nella sintassi e più elastica, larga, nella ritmica la scelta di Ventre: «Tacquero tutti e su lui fissavano intenti gli sguardi. Quindi così padre Enea cominciò dall’alto cuscino: ‘Inesprimibile doglia tu vuoi ch’io rinnovi, regina’».
La ricerca della impenetrabile naturalezza virgiliana (una sintesi insieme affabile e suprema) è condotta da Ventre, che tende non ad appianare ma a molare o addolcire le acmi così come le sorde asperità di un italiano ineluttabilmente polisillabico, verso un continuum ritmico, armonico anche quando non necessariamente melodico, che può ricordare gli effetti del legato musicale. A occhio nudo e ad apertura di libro, non è un caso si notino rarissimi segni interpuntivi e minimi accenni di pausa o di cesura: allo stesso modo, chi legge assecondandone il moto lievemente ondoso prima o poi si avvede che in quegli stessi versi, in sé ipermetri di qualunque misura statuita, convivono adiacenti ma molto ben assortiti (il che vuol dire anche ben dissimulati) innanzitutto endecasillabi ma anche settenari, ottonari e tutto quanto può addurvi la più tradizionale, schietta, metrica italiana. L’esito non è affatto di canto dispiegato ma, semmai, di vibrazione costante e abilmente mantenuta sottotraccia nei modi che le antiche retoriche, prendendo a prestito un verso dantesco, chiamavano di circulata melodia.
È il segno, questo, di un ascolto e di una presa che guarda al testo a fronte senza mai espropriarlo come è abitudine invece di molti moderni che hanno utilizzato Virgilio senza davvero incontrarlo, ebbe a dire Michael von Albrecht (Ritrovare Virgilio, Tre Lune 2010) sanzionando il carattere strumentale della appropriazione in luogo di una autentica assimilazione. Perciò sia resa merito a chi, come Daniele Ventre, ne ha avuto l’umiltà e il coraggio.

Corriere La Lettura 18.11.18
Christine la suffragetta medievale
Nel Quattrocento scrisse la controstoria delle donne
di Amedeo Feniello


Il nome Christine de Pizan forse dice poco al grande pubblico. Ci riparla oggi di lei Gianluca Briguglia nel libro Il pensiero politico medievale (Einaudi). Un volume denso, ma di agevole lettura, con uno sguardo sul periodo costellato da figure colossali, da Giovanni da Salisbury fino a John Wyclif. Coinvolge il lettore su temi non facili, col disvelare aspetti di un Medioevo assolutamente innovativo, carico di un impulso verso la politica — non solo agita, ma pensata — davvero inaspettato. Libro che approda, nelle sue ultime pagine, al racconto di Christine.
Nasce a Venezia, nel 1365. Suo padre, Tommaso da Pizzano (questo è il cognome originale della donna), non è un tipo comune. Fa il medico, ma soprattutto è un astrologo, formatosi all’Università di Bologna. Si è trasferito a Venezia per servire la Repubblica, tuttavia non vi resta molto tempo. Estroso e inquieto, quando Cristina (poi Christine) ha appena quattro anni, prende tutta la famiglia e va alla corte di Francia, da re Carlo V. L’astrologia allora è scienza. Lo spiega la stessa Christine nel suo Libro del corpo politico (1407), chiarendo come essa facesse parte «di quella sapienza filosofica utile a comprendere il mondo». Non un’arte malvagia e menzognera, «ma una scienza estremamente complessa, legata alla visione dell’universo di Tolomeo e di Aristotele», come scrive Briguglia.
La piccola Christine ora è a corte, a Parigi. La madre vorrebbe che lei, come le altre bambine e adolescenti, si dedicasse ai lavori femminili. Ma la bimba è brillante. Incoraggiata da suo padre, apprende il latino, la musica e legge tanto, di filosofia, di storia e di religione. E compone dei brani lirici, che vengono letti e ammirati.
A quindici anni il padre la dà in sposa a Étienne de Castel, un notaio appartenente al gruppo di funzionari legati al re. Le cose per lei non sembrano andare male, nonostante il padre, dopo la morte di re Carlo, nel 1380, sembra sia caduto in disgrazia. La vita comunque scorre senza grandi sussulti: i figli, il lavoro del marito, l’accudimento della casa. Due colpi però, in rapida successione, sconvolgono la vita di Christine. Prima la morte del padre, nel 1387. Poi quella, molto più grave agli effetti pratici, del marito, nel 1390.
A 25 anni si trova sola, con tre figli e la madre a carico. È la disperazione. Lutto e disastro economico si intrecciano. In un contesto politico e sociale che sta rapidamente degenerando, con la pazzia di re Carlo VI e i nemici inglesi (è in corso la guerra dei Cento anni) sempre alle porte. Che fare? Christine non si perde d’animo e trasforma le sue capacità artistiche in un lavoro. Si lancia in questo nuovo mestiere e cerca di riorganizzare la sua vita tra tempi difficili, difficoltà finanziarie e problemi di salute. Ma ce la fa. Approfondendo la sua cultura. Conservando i suoi rapporti, strategici, a corte. Scrive ballate, poesie, liriche che hanno grande successo, attraverso cui riceve nuove proposte di lavoro e il sostegno di mecenati che la spingono a confrontarsi su altri temi, più alti, filosofici e politici.
Si appresta a questi lavori in anni che si fanno sempre più difficili, di crisi violenta della monarchia, della sconfitta di Azincourt per mano inglese. Anni in cui Christine, ad esempio nel Libro sui fatti e sui buoni costumi del re saggio Carlo V, combatte con le uniche armi che ha, quelle della cultura, riprendendo la memoria del re Carlo V come eredità da rivendicare, tracciando una vera e propria agiografia politica, esprimendo un modello di regalità che unisce le virtù cavalleresche alla saggezza e alle capacità intellettuali.
L’epicentro più originale del pensiero di Christine riguarda però la donna e il suo ruolo. Entra in polemica con il maggior bestseller dell’epoca il Roman de la Rose e col suo autore, Jean de Meung: opera che definisce misogina e diffamatoria verso l’universo femminile. Mentre nel suo La città delle dame (1404-1405) non solo rilancia le sue accuse verso Jean de Meung, ma attacca Boccaccio «e tutti quei chierici, filosofi, intellettuali che hanno accusato le donne di stupidità, di lussuria, di incapacità e di tutti i difetti, rendendole indifese e socialmente deboli». Christine nell’opera costruisce una città ideale, fatta di donne esemplari, di miti classici rivisitati, di dame onorate, di profetesse, di sante che, con il loro contributo, hanno ottenuto risultati eccezionali nelle arti, nella filosofia, nella politica. La città costruita da Christine permette di raccontare allora una vera e propria controstoria del genere umano, tutta al femminile, affascinante «per la vastità e varietà dell’apporto delle donne al mondo».
Femminista ante litteram? Lo hanno detto in molti, ma non corriamo. Tuttavia, non deve sfuggire l’importanza di questa controstoria. Non si trattò infatti di un semplice gioco letterario: esprimeva la voce di una grande intellettuale medievale che rivendicò un diverso ruolo della donna e cercò, «con il proprio esempio e la propria cultura, di influenzare il reale, alla ricerca di un nuovo mondo possibile».

Corriere 18.11.18
Taiwan
Il giovane che non sa più ricordare
Chen, il ragazzo con il taccuino, scrive tutto: la sua memoria dura 10 minuti
«Se volete aiutarmi non mandatemi troppi soldi: presto non saprei più dove li ho messi»
di Michele Farina


I vicini lo chiamano «il ragazzo con il taccuino». Ogni giorno, ogni volta che fa qualcosa, ogni sera prima di andare a letto, Chen Hong-zhi aggiorna il diario. Notizie di cronaca, più che pensieri. Chen annota quello che ha fatto nel campo, quante zucche ha venduto, chi ha incontrato al mercato. Questo ragazzo di Taiwan, di anni ventisei, è uno strano grafomane. Scrive rapidi appunti, prima di riportare tutto sul grande quaderno che tiene a casa. Seduto al tavolo, con una penna dall’inchiostro azzurro, a volte con l’aiuto di mamma Miao-chong. La sua scrittura è personale, difficile da decifrare. Negli ultimi nove anni Chen ha accumulato un armadio di quaderni così. Sono la sua vita, la sua «memoria esterna», l’unica che gli è rimasta.
Quella «interna» si esaurisce nel giro di 5-10 minuti. Il tempo di aprire un file, senza poter mai fare «save». A 17 anni un incidente stradale danneggiò gravemente il cervello di Chen. Un intervento chirurgico lo riportò in vita, senza riuscire a recuperare una parte cospicua dei lobi temporali dove hanno sede gli ippocampi, quelle «centraline» capaci di fissare le esperienze in ricordi a lungo termine che smettono di funzionare anche nei malati di Alzheimer. Il cervello di Chen ha perso questa possibilità, e ogni dieci minuti la sua vita in un certo senso ricomincia da capo. L’ha raccontato alla Reuters il dottor Lin Ming-teng, il medico del Taipei Veterans General Hospital che ha in cura il giovane e la sua mamma.
Il ragazzo che non ricorda e la donna che vorrebbe dimenticare vivono nel villaggio agricolo di Beipu. Si mantengono grazie all’assistenza dello Stato e ai soldi racimolati vendendo verdura. Prima che morisse suo padre quattro anni fa, Chen lavorava con lui raccogliendo bottiglie di plastica vuote. Sulla strada qualcuno fu colpito dalla sua storia e la raccontò su Facebook. «Il ragazzo con il taccuino» divenne famoso in Cina. Molta gente offrì aiuti in denaro, lui ringraziò con ironia: «Non mandatemi troppi soldi perché poi mi scorderei dove li ho messi». Miao-chong, seconda moglie e ora vedova del papà di Chen, vorrebbe tornare nel suo Paese, in Indonesia, ma teme per il destino del giovane: «Se me ne vado chi si curerà di lui?». Ogni mattina, è lei a ricordargli il suo posto nel mondo. La madre e gli appunti da sfogliare. Un giorno a caso: «2 luglio, pioggia, ho tagliato 18 bambù per cucinare,strappato 5.898 erbacce, venduto zucche con zio Liao, alle 22.08 zzz», a letto. La memoria «procedurale», la capacità di portare a termine semplici lavori, in Chen non è compromessa. Il diario è una boa, una prova che ogni giorno lui non comincia da zero: «26 ottobre, cercato dappertutto il telefonino, andato alla Chiesa Cattolica, alle 22.38 zzzz». La storia di Chen non è unica. Il caso più famoso è quello di Henry Molaison, un giovane che nel 1953 perse la capacità di acquisire nuovi ricordi per la perdita di entrambi i lobi temporali in seguito a un intervento. Fino al 2008, anno della morte, H.M. fu oggetto di infiniti studi. Si devono proprio ai suoi ippocampi mancanti le scoperte forse più rivoluzionarie sui meccanismi della memoria.

Corriere La Lettura 18.11.18
Buco nero Sagittarius-A
Nella Via Lattea c’è un cuore di tenebra
Oggetti cosmici che crescono a dismisura nelle galassie inghiottendo tutto ciò che incontrano
I più piccoli sono prodotti del collasso gravitazionale di stelle. Altri forse si sono formati meno di un secondo dopo il bing bag
di Guido Tonelli


Sarà perché richiama uno degli incubi più ricorrenti, quello della caduta inarrestabile in un pozzo senza fondo, o forse perché, in un lontano passato, i nostri antenati hanno vissuto, quotidianamente, il pericolo concreto di essere sbranati e inghiottiti da belve feroci. Sta di fatto che, appena si nominano i buchi neri, scatta immediatamente un riflesso di panico ancestrale.
Fino a pochi anni fa l’argomento interessava al più qualche migliaio di specialisti, cosmologi e astrofisici, che ne discutevano nei loro convegni; placidamente inconsapevoli che ben presto ci sarebbe stata un’esplosione di interesse popolare per un argomento così esotico.
L’idea che il nostro firmamento possa ospitare «stelle scure» è vecchia di almeno un paio di secoli. Il primo a ipotizzarle, nel 1783, fu il reverendo John Michell, filosofo naturale e grande scienziato dell’epoca, capace di anticipare nei suoi scritti molte tematiche che troveranno sviluppo nei secoli successivi. Per Michell fu semplice, ragionando sulla teoria corpuscolare della luce sviluppata da Newton, immaginare stelle talmente compatte e massicce da produrre un’attrazione di gravità mostruosa, tanto potente da intrappolare per sempre la luce che venisse emessa alla sua superficie. Le particelle di luce si sarebbero comportate come sassi lanciati dalla terra, avrebbero disegnato traiettorie paraboliche che li avrebbero inesorabilmente riportati alla quota di partenza.
L’idea di Michell era talmente avveniristica che nessuno la prese in considerazione per quasi duecento anni. Un primo momento di rottura si ebbe nel 1916. Albert Einstein aveva da poco pubblicato la sua teoria della relatività generale e Karl Schwarzschild, un fisico tedesco che si era arruolato nella Grande guerra e combatteva sul fronte russo, si fece mandare l’articolo che resterà nella storia. In poco tempo egli riuscì, usando un diverso sistema di coordinate, a trovare una soluzione esatta alle equazioni per le quali lo stesso Einstein non era andato oltre soluzioni approssimate. Con questo nuovo approccio lo spazio-tempo assumeva una simmetria sferica e per ogni massa si poteva definire un raggio, che sarà indicato col nome di Schwarzschild, al di sotto del quale nasceva una singolarità: una curvatura dello spazio-tempo così elevata che gli stessi fotoni non sarebbero riusciti a sfuggire. La soluzione era così curiosa che né Einstein, né lo stesso Schwarzschild, osarono scrivere, o anche solo immaginare, che dietro la formulazione matematica potesse nascondersi una nuova classe di corpi celesti.
Occorrerà aspettare gli anni Sessanta per vedere nascere il termine «buco nero», introdotto nel 1967, con un tocco di forte ironia, dal fisico americano John Wheeler, fra i primi a intuire che si poteva trattare di oggetti astronomici reali e che si apriva un nuovo campo di ricerca. Da allora lo studio dei buchi neri e la caccia a tutti i possibili segnali che potessero suggerirne la presenza ha segnato in profondità l’astrofisica moderna. Gli anni Settanta ci hanno portato i contributi teorici fondamentali di Roger Penrose e Stephen Hawking e le prime osservazioni indirette di candidati buchi neri in sistemi binari. Un catalogo che si è arricchito con il tempo fino alla scoperta, sorprendente, di buchi neri super-massicci presenti nel nucleo centrale della maggior parte delle galassie ellittiche o a spirale.
Anche la nostra placida Via Lattea nasconde nel suo cuore più profondo e tenebroso Sagittarius-A, un buco nero pesante quattro milioni di volte più del Sole. Una massa certamente mostruosa, ma che impallidisce di fronte a quella del buco nero di Ngc-4261, una galassia nella costellazione della Vergine, che pesa quanto 1,2 miliardi di masse solari. Tutti ricordano, infine, che è stata una collisione fra buchi neri, di 30 masse solari circa, a provocare il primo segnale di onde gravitazionali registrato da Ligo nel 2015.
I buchi neri sono quindi una nuova classe di corpi celesti, abbastanza rari e tuttavia presenti in molte zone dell’Universo. Oggi sappiamo che sono oggetti molto diversi fra loro, non solo per dimensioni e caratteristiche, stazionari o rotanti, neutri o carichi, ma anche per le dinamiche da cui nascono e l’evoluzione che subiscono.
Della loro nascita sappiamo ben poco. Con tutta probabilità entrano in gioco meccanismi diversi. Tradizionalmente si considerano i buchi neri come il risultato finale del collasso gravitazionale di stelle particolarmente massicce. Stiamo parlando di stelle oltre le venti masse solari che, passando per diverse fasi dopo la fine del combustibile nucleare, possono contrarsi in maniera furibonda al punto da concentrare la massa residua in un volume virtualmente infinitesimo. Questo meccanismo, sicuramente plausibile, viene oggi esteso a stelle di neutroni che raggiungono la massa critica assorbendo materia da stelle ordinarie con cui interagiscono in sistemi binari o attraverso la collisione con altre stelle di neutroni.
Questa dinamica permetterebbe di spiegare i buchi neri che hanno masse comprese fra 5 e 80 volte quella del Sole. Ma la cosa non funzionerebbe per i buchi neri ultra-massicci, quelli che hanno masse milioni o miliardi di volte superiori. Per loro bisogna ricorrere a meccanismi diversi. Sappiamo che una volta che un buco nero si piazza al centro di una galassia può crescere a dismisura inghiottendo lentamente tutto quello che lo circonda. Ma qual è il punto di partenza? Forse, prima che brillassero le prime stelle, le immense nebulose di gas primordiale si sono aggregate in quasi-stelle, oggetti altamente instabili che sono collassati in buchi neri anziché evolvere in stelle ordinarie. Qualcuno ipotizza addirittura la formazione di buchi neri primordiali, nati meno di un secondo dopo il Big Bang, quando le imponenti fluttuazioni di densità dell’Universo appena nato potevano indurre al collasso gravitazionale enormi porzioni di materia.
Insomma, a più di duecento anni di distanza, le stelle scure del reverendo Michell, nascondono ancora molti segreti.

Repubblica 18.11.18
Il testamento di Antonioni
Così il mio " Blow- up" non l’avete visto mai
di Michelangelo Antonioni


Thomas è al lavoro nel suo studio. Sta dietro alla macchina fotografica come dietro a una mitragliatrice, con lo stesso impeto distruttivo. Davanti a lui ci sono sette modelle che si muovono come se fossero di caucciù. Devono formare un gruppo armonico e non è facile, Thomas parla, gesticola, ordina, grida, non è mai contento. Ogni tanto si avvicina a una modella, ne cambia la posa, corregge la posizione di un braccio o di una gamba, le tocca come se fossero oggetti di sua esclusiva proprietà. Fotografa e beve vino, fotografa e fuma, fotografa e risponde al telefono, fotografa e discute — nelle pause che lui stesso provoca — con il suo agente, un uomo sui quarantacinque. Costui gli comunica gli impegni che ha preso per lui per la settimana seguente: Vogue, Harper’s Bazaar, Queen, ecc. Thomas gli dice che invece la settimana seguente vorrebbe non far niente. Cioè, fare cose diverse da quelle che fa sempre e che sta facendo adesso, ne ha fin sopra i capelli di questo tipo di lavoro, non gli dà più nessuna soddisfazione. Però gli dà dei soldi, e molti, obbietta l’agente. Thomas scrolla le spalle: vorrebbe averne una montagna di soldi, soltanto per non doverci più pensare. Ma la vita di un uomo non può esaurirsi qui, un fotografo poi è uno che vede meglio degli altri la realtà, è anche logico che ogni tanto gli venga voglia di mostrarla agli altri, per esempio fare un libro. Naturalmente l’agente gli domanda se per caso non sia ammattito, di qui la discussione. Thomas si stanca anche di discutere e riprende a fare le fotografie. Ma non è in giornata, non ha le idee chiare, non riesce a ottenere quello che vuole e se la prende con le modelle: una sfuriata tremenda durante la quale le insulta a parolacce. Poi se ne va.
Scende per una scaletta in un secondo studio fotografico con proiettori e il solito rotolo di carta a colori per gli sfondi. Attraversa l’ambiente ingombro di strumenti di un’orchestra pop ed esce in un cortile. Ed entra in un’altra abitazione, la cui porta è aperta. Si lascia cadere su una sedia in cucina, dove una giovane donna — la stessa che abbiamo visto portare il caffè a Max il pittore — sta facendo le pulizie. Thomas vorrebbe parlare con Max. La donna glielo indica oltre una vetrata: il pittore sta lavorando, sarebbe meglio non disturbarlo. Così restano qualche istante in silenzio a osservare Max che lavora senza accorgersi di loro, lento, calmo, preciso: il contrario di Thomas. Quest’ultimo in fondo lo invidia e lo dice chiaro e tondo alla donna: Max è uno che può fare quello che vuole, beato lui. La donna continua a guardare il marito. Per tutta risposta dice: "È l’uomo migliore che io conosca". La frase suonerebbe un po’ strana o perlomeno superflua a uno che fosse attento alla donna. Thomas invece è assorto nei suoi pensieri e non ci fa caso. Quando si volta la donna gli sorride e Thomas se ne va. Torna nel suo studio. (...) Poi chiede alla segretaria se le modelle e il suo agente sono ancora di sopra. La segretaria risponde di sì. Thomas fa una smorfia ed esce in strada.
Thomas in macchina, una Aston Martin o qualcosa del genere, sportiva: macchina da cinquemila sterline. Attraversa una parte della città fino a raggiungere, con improvvise accelerate e brusche sterzate, una tranquilla strada di periferia. Si ferma davanti a un negozio di antichità. Cerca del padrone ma c’è solo un commesso, il padrone è andato a prendere un caffè. Thomas dà un’occhiata al negozio: glielo hanno offerto a buon prezzo, è venuto a vedere se val la pena. Ne ha altri come quello, ma più centrali, questo non gli sembra proprio il caso. Guardando scova in un angolo un’elica da aeroplano. Costa dieci sterline, la compra subito. Dice di mandargliela a casa nel pomeriggio, possibilmente. Esce ed è colpito dalla bellezza del paesaggio, senza ragione, di colpo: un grande prato con dei cartelloni pubblicitari enormi. Tira fuori dal cassetto del cruscotto una macchina fotografica e si allontana verso il prato, nel quale spicca una macchia di vegetazione, alla ricerca evidentemente dell’inquadratura giusta. Thomas si sente libero, quasi felice. Nel prato non c’è nessuno, tranne un uomo e dei colombi che svolazzano. Quasi senza accorgersene Thomas alza la macchina e mette l’occhio al mirino, scatta una foto. Poi tira fuori una sigaretta. Nel momento in cui avvicina il fiammifero al tabacco, vede la ragazza. Era nascosta dietro l’uomo e non l’aveva notata. È molto carina, vista da lontano, e si muove bene. La ragazza è Jane, e l’uomo anziano il signore che era al suo fianco sulla macchina verde scuro. I due sembrano in pieno flirt. Thomas scatta altre foto, sono banali ma il posto è bello. I due vengono avanti, sembra che giochino come si fa tra innamorati. Prima era lei con le spalle ai cartelloni pubblicitari, ora è lui. Il tutto con risate, scherzi, moine a non finire. Thomas continua a scattare: sul lato destro gli enormi cartelloni pubblicitari, a sinistra in basso, molto piccola, la coppia. Il finale arriva quasi subito. Jane attira a sé l’uomo, che naturalmente non fa resistenza, e c’è un primo bacio. Poi un secondo, un terzo, un quarto. Durante il quarto bacio Jane si volta di scatto come attratta da qualcosa che avverte, che sente più con l’istinto che con l’orecchio.
Vede che c’è uno che li sta fotografando e senza un attimo di esitazione si stacca dall’uomo e viene verso il fotografo. Si ferma a pochi passi da lui, è furente, e comincia a parlare con voce secca e chiara, dice che nessuno ha il diritto di prendere foto senza il permesso ed esige che le venga consegnato il rotolo della pellicola. Thomas risponde che lui fa il fotografo di professione e quindi scattare fotografie è il suo mestiere e nessuno può impedirgli di fare il fotografo piuttosto che il macellaio o il deputato. Risponde bruscamente perché è abituato a un tono diverso con le donne, cioè con le modelle, e il modo di fare aggressivo di Jane lo ha punto sul vivo. In realtà la sta osservando: è molto bella ed è anche lei molto giovane. Peccato che sia così arrabbiata, chissà perché poi. Forse perché l’uomo che è con lei è tanto più anziano e lei se ne vergogna. Sta lì rigida, ferma, le labbra serrate, le mani tremanti. Di scatto le mani si muovono e cercano di afferrare la macchina fotografica. Ma Thomas ha i riflessi pronti e la tira indietro. In quello stesso istante gli viene in mente l’uomo che era con la ragazza. Che fine ha fatto? Guarda alle spalle di lei e si accorge con sorpresa che invece di avvicinarsi a dare man forte alla sua compagna, l’uomo si sta allontanando verso il fondo del prato, lentamente dapprima e poi più rapidamente. Nello stesso momento vede una macchina (la Rover grigio topo che conosciamo), sbucata chissà da dove, che a marcia indietro si dirige verso la macchia di vegetazione che anche l’uomo sta raggiungendo. Seguendo la direzione del suo sguardo anche la ragazza si volta e sembra contrariata, al punto che si mette a correre verso l’uomo, intanto scomparso dietro i cespugli. La ragazza si ferma vicino a questi cespugli e resta per qualche istante così, immobile, poi sale rapidamente sulla Rover che gira su se stessa e scompare. Thomas scatta ancora qualche foto al prato vuoto, sul quale son tornati a volteggiare dei colombi, e poi torna indietro, raggiunge la sua macchina davanti al rigattiere, vi sale e parte.

Il Sole Domenica 18.11.18
Scienze divinatorie
Se il Medioevo si sbarazza di papi e imperatori
di Tullio Gregory


Se la medievistica italiana occupa un posto di particolare prestigio nel panorama internazionale, questo è dovuto soprattutto a due grandi istituzioni: la Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Cisam) fondata da Giuseppe Ermini e oggi presieduta da Enrico Menestò, e la Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino (Sismel), con l’annessa Fondazione Franceschini, fondata da Claudio Leonardi e oggi presieduta da Agostino Paravicini Bagliani. Ed è della Sismel che qui vogliamo segnalare alcuni recenti volumi comparsi nella serie Micrologus Library che, prossima al centesimo volume, ha illustrato aspetti e problemi della cultura medievale spesso poco praticati: si può anzi dire che questa collana – con la rivista Micrologus e le altre collane come Millennio medievale, l’Edizionale nazionale di testi mediolatini d’Italia, Per verba con testi in originale e tradotti – ha dato un contributo determinante per uscire da un Medioevo dominato da papi e imperatori, monaci e soldati, santi e cavalieri, immersi spesso in una vaga spiritualità della quale è difficile comprendere il significato.
Rispetto a questa tradizione storiografica la SISMEL (come già il CISAM con le settimane) ha aperto altre vie di ricerca, occupandosi del mondo degli animali e del corpo del principe, di astrologia e alchimia, di visioni e profezie, di riti e simboli del potere, dei complessi rapporti di diverse culture nel Mediterraneo medievale.
Non ci stupisce dunque se tra le novità troviamo una raccolta di studi sulla geomanzia e altre forme di divinazione, su Riccardo di Fournival e le scienze nel secolo XIII, mentre l’ultimo numero della rivista Micrologus si occupa del modo di concepire i temi della longevità e immortalità in Europa, Islam e Asia: argomento quest’ultimo, come sottolinea Agostino Paravicini Bagliani, che ha permesso inedite prospettive nella storia di una distinzione “binaria” (mortale – immortale) in culture occidentali e orientali, con significativi punti di contatto e di confronto (anche nella diffusa ricerca di una prolongatio vitae che impegna medici e filosofi, teologi e alchimisti e molto interessa pontefici e principi).
Si tratta sempre di volumi che costituiscono strumenti di lavoro di grande utilità e divengono subito insostituibili: come la raccolta di studi su Riccardo di Fournival che offre un panorama essenziale della cultura del secolo XIII attraverso lo studio della biblioteca da lui sognata e realizzata. Cancelliere della cattedrale di Amiens negli ultimi due decenni della sua vita (muore nel 1260), responsabile quindi fra l’altro delle attività scrittorie e scolastiche della cattedrale, Riccardo volle raccogliere una biblioteca, che descrive nel suo celebre testo Biblionomia, affinché in essa, scrive sviluppando un paragone biblioteca-giardino, «gli studenti della città potessero trovare i frutti di varie qualità, gustati i quali potessero aspirare con il più grande desiderio, di essere introdotti nella stanza segreta della filosofia». Riccardo raccolse così una biblioteca di circa 162 manoscritti ciascuno contenente varie opere (nell’insieme circa trecento) ove si rispecchia la cultura filosofica, letteraria, scientifica del tempo, non senza una particolare attenzione alla poesia (raccoglie fra l’altro nove tragedie di Seneca, rare nel secolo XIII) con una significativa presenza di testi relativi alle “scienze lucrative”, cioè medicina e diritto. Forte la presenza di autori del XII secolo, da Bernardo Silvestre a Alano di Lilla, nonché delle nuove traduzioni come di Avicenna “princeps philosophorum”.
Una sezione è anche dedicata ai trattati “segreti” (tractatus secreti) di cui Riccardo non dà indicazione perché, scrive, «la loro profondità non permette che siano sotto gli occhi di tutti», ma sono riservati al proprietario della biblioteca. Si trattava certo di testi di astrologia, di alchimia e delle varie scienze divinatorie.
A queste scienze è dedicato un altro volume della Micrologus Library relativo alla geomanzia e alle altre scienze divinatorie sulla cui diffusione e importanza aveva scritto un volume fondamentale Thérèse Charmasson nel 1980, qui presente con un saggio di grande prospettiva sulla geomanzia e i suoi testi nel Medioevo. In questo volume la geomanzia (arte divinatoria che muove dal significato dei punti e delle figure tracciate sulla sabbia o sulla carta) è studiata nei suoi vari aspetti – anche nella cultura ebraica e araba – mettendone opportunamente in evidenza i legami con l’astrologia perché, come ricorda Alessandra Beccarisi, «la geomanzia, nella sua forma più matura, […] si basa su una stretta corrispondenza tra le sfere celesti e i punti tracciati casualmente sulla sabbia o sulla carta: le figure ottenute dalla combinazione dei punti erano associate ai pianeti e ai segni zodiacali ed erano ordinate all'interno di mansiones poste in relazione a quelle astrologiche».
«Figlia dell’astronomia», fondata «su esperimenti certi», come si legge in alcuni testi citati da Charles Burnett, la geomanzia assume il suo statuto scientifico all’interno di una concezione fisico-metafisica del cosmo ove i cieli esercitano una casualità essenziale e non solo accidentale su tutti i movimenti, quindi su tutti i fenomeni del mondo dei quattro elementi (con esclusione dell’intelletto e della volontà dell’uomo, tuttavia condizionate dai legami con il corpo, sottoposto ai cieli per la sua complessione). In questa prospettiva si segnala fra l’altro il ricco saggio di Irene Caiazzo per il secolo XII e quello di Pasquale Porro che torna sul De sortibus di Tommaso d’Aquino (già studiato nella sua fondamentale monografia sull'Aquinate).
Ed è merito non marginale della SISMEL aver dedicato tanti volumi all’astrologia, all’alchimia, alla magia, così da imporre una visione di queste scienze non come superstiziose “credenze”, ma scienze a pieno titolo.

Richard de Fournival et les sciences au XIIIe siècle Textes réunis par Joëlle Ducos et Christopher Lucken Sismel, Edizioni del Galluzzo, pagg. 443, € 68 Geomancy and Other Forms of Divination Edited by Alessandro Palazzo and Irene Zavattero Sismel, Edizioni del Galluzzo, pagg. XXX, 572, € 75 Micrologus XXVI (2018 ), Longevity and Immortality.

Il Sole Domenica 18.11.18
Antologia di Spoon River
I morti fieri di aver vissuto di Edgar Lee Masters
di Renzo S. Crivelli


«Ero la vedova McFarlane,/ Tessevo tappeti per tutto il villaggio./ E di voi ho pietà, voi che ancora attendete al telaio della vita». Così parla, nell’enigma del proprio epitaffio, una delle tante anime sepolte dell’Antologia di Spoon River, di Egar Lee Master. La sua qualità di tessitrice ben rappresenta i 248 personaggi che popolano il cimitero della cittadina immaginaria di Spoon River (modellata sui villaggi di Petersburg e Lewiston, vicino a Springfiled nell’Illinois, luoghi della sua infanzia) proprio in quanto personificazione della Parca che tesse i fili della vita e di una Penelope che ordisce la tela dell’amore e della fedeltà coniugale. Fino a prefigurare la struttura di un arazzo che ognuno di noi completa nella convinzione che nasconda l’impronta della Speranza, «dell’amore e della bellezza» (con la sua cifra segreta che ci porta alla Figura nel tappeto di Henry James). E che, invece, contiene solo l’immagine della nostra morte («Il telaio s’inceppa! La trama è disfatta!»), giacché fatalmente ognuno di noi sa solo «cucire il proprio sudario».
L’Antologia di Spoon River, pubblicata da Masters nel 1916 ma uscita a puntate sul «Reedy’s Mirror» tra il 1914 e il 1915, è un testo molto famoso, riscoperto specie in Europa negli anni ’60, il cui scopo è quello di riprodurre uno spaccato della provincia americana (ma il discorso ha toni ben più ampi che lo collegano alla tradizione arcaica) ricreando un microcosmo che si auto-narra attraverso l’artifizio post mortem del cimitero e delle iscrizioni tombali. La sua originalità sta proprio nel saper innestare la quotidianità nella dimensione drammatica della morte, abdicando a ogni lusinga declamatoria per scegliere l’asciuttezza narrativa dell’esperienza.
C’è in questa raccolta uno spessore epico che non scaturisce dall’ambientazione e dalla dolorosa rinuncia ai beni terreni ma dall’intima esigenza di ognuno dei protagonisti di testimoniare la propria esistenza, fatta di gioia e di sofferenza. Se è facile citare, tra le fonti ispirative, l’Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray (1751), va però riconosciuta a Masters una straordinaria capacità di travalicare la struttura iconografica romantica della lamentazione per incamminarsi verso la riproduzione asciutta di un mondo popolare che prescinde dal mero rimpianto del passato. Tutti gli abitanti della città dei morti di Spoon River, infatti, mostrano un istintivo distacco dalla propria vita che, ben lungi dal generare auto-commiserazione espiatoria (come nel caso della Rima del vecchio marinaio di Coleridge), si risolve semplicemente in una voglia di raccontare la Verità, la loro più che quella ufficiale dei giudici e dei preti.
E dunque il rimando non può che essere, da un lato, agli epitaffi greci dell’Antologia Palatina (libro VII con tematiche funebri), la cui lettura fu suggerita a Masters dall’amico William Reedy, e, dall’altro lato, alla contro-epica Modernista, che di lì a pochi anni avrebbe saputo raccontare lo stoicismo dell’uomo comune (si pensi solo al Joyce di Gente di Dublino, tutti morti che si narrano). Qui sta la grandezza dell’Antologia di Spoon River, che ha saputo giungere fino al nostro secolo intatta, con i suoi calchi universali. Tradotta più volte, a partire dall’azzardo di Fernanda Pivano che nel 1943 sfidò la censura fascista pagando di persona, ora esce per Feltrinelli a cura di Enrico Terrinoni, che ci dà una nuova versione accuratissima (con molte utili annotazioni). Terrinoni, nella bella prefazione, parla del cimitero di Masters come del «centro di un universo che da locus mortis diviene un pullulare di esistenze e di voci tutt’altro che silenziate negli spazi dell’al di là».
Ed è vero che i vari Robert Tanner (il trappoliere finito nella sua stessa trappola), Chase Henry (il beone saggio), il giudice Sommers (che fu famoso ma dimenticato a favore del beone), Emily Sparks (la vecchia maestra che ancora ammonisce i suoi ex-allievi), il dottor Meyers (che pagò per un aborto compassionevole), Flossie Cabanis, (l’attrice che vorrebbe sepolta accanto a sé la Duse), Lucius Atherton (il don Giovanni dei poveri, finito sdentato e irriso), Nellie Clark (stuprata a otto anni), Robert Burke (che stravide per un politico populista e mentitore); è vero, come si diceva, che questa umanità — paga di non essere solo dolente ma fiera di aver vissuto — ci racconta un passato che è sempre presente. L’attualità di queste storie emblematiche, racchiuse nell’alzata di una tomba, ha saputo colpire, come è noto, anche un grande cantautore come Fabrizio De André, che nel 1971 traspose in un album memorabile, Non al denaro non all’amore né al cielo, nove personaggi dell’Antologia.
Curiosamente, Masters non ritrovò più la grazia creativa dell’Antologia di Spoon River e la sua fama restò legata a un’unica opera (il tentativo di una New Spoon River Anthology del 1924 fallì miseramente). Morì, infatti, squattrinato e fu sepolto nel cimitero di Petersburg. In ideale compagnia di quello spaccato di mondo, con il suo bravo epitaffio che si pubblicò da solo.
Antologia di Spoon River, Edgar Lee Masters, a cura di Enrico Terrinoni, Feltrinelli, Milano, pagg. 678, € 13

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