sabato 10 novembre 2018

La Stampa TuttoLibri 10.11.18
L’Italia ha scelto il populismo ma non bisogna aver paura
Un saggio di Molinari per capire il terremoto elettorale che ha cambiato la scena politica e che può scuotere per sempre gli equilibri e l’anima dell’Europa (dis)unita
di Bernard-Henri Levy


Perché l’Italia è diventata, nell’Europa occidentale, il laboratorio dell’epilessia politica contemporanea? Perché vi troviamo in posizione di primato o, per dirla meglio, in pole position ciò che si usa definire populismo, sovranismo, neofascismo? E questo paese che ha così spesso mostrato la via del bello e dell’eccellenza, questa patria elettiva di poeti e pensatori di cui non sapremo mai abbastanza che, ben prima dei colossi del pensiero francesi e tedeschi, aveva già trovato la propria punta di diamante, facendo sì che i più grandi, i Cartesio, i Kant, e molti altri, si destassero dal loro sonno teologico, questo paese che, al contrario, ebbe, con dieci anni di anticipo sulla Germania, il sinistro privilegio d’inventare Mussolini e il primo fascismo - potrebbe essere, infine, che questo paese sia sul punto di vivere di nuovo un momento storico?
In Italia è appena stato pubblicato un libro che risponde a questa domanda. È firmato da Maurizio Molinari, uno degli editorialisti più ascoltati della scena italiana, direttore del grande quotidiano, La Stampa. E spero che si trovi, in Francia e in altri paesi europei, un editore per tradurlo. Impareremo così che l’improbabile accoppiata tra la Lega e il Movimento 5 stelle è tutt’altro che una sorpresa, e ancor meno un’aberrazione, almeno per un attento osservatore della scena italiana. Si vedrà come urlatori, teppisti ubriaconi e altri figuri di entrambi i movimenti si siano annusati a vicenda per anni, proprio come fanno, in Francia, i «ribelli» e i lepenisti - e si vedrà come, dalle alleanze tattiche agli istinti condivisi, dagli slittamenti sottili e impercettibili, alle vergognose collaborazioni, finiranno col proclamare che ciò che li unisce conta più di ciò che li divide.
Si troveranno pagine rigorose sul cancro della corruzione di cui gli italiani si dicono stanchi, ma di cui sono così intimamente e da lungo tempo impregnati che questa sembra essere diventata il collante che tiene insieme la società - e si vede come i 5 stelle, nati da un sito web, dall’affettazione di parlare «franco», tipica dei costumi digitali contemporanei e da una confusione, non meno caratteristica dei nostri tempi bui, tra la «sincerità» vomitata e l’amaro sforzo richiesto dalla vera ricerca della verità, ne abbiano fatto un cavallo di battaglia. L’autore insiste ancora sul trauma di una globalizzazione a cui ha corrisposto - la storia italiana insegna - una vera emorragia demografica. Mette in relazione - e questo è più discutibile - l’entità dello shock migratorio attuale con quest’altra specificità nazionale, che, come in Germania, ma a differenza della Francia o dell’Inghilterra, è l’assenza di tradizione coloniale (si ricordi la farsa di Mussolini a Tripoli) con ciò che potrebbe implicare la scoperta dell’altro.
Racconta - e qui è di nuovo molto convincente - il trauma rappresentato dall’elezione, in successione, di tre papi non italiani e quindi il tramonto del diritto di primogenitura che la Chiesa cattolica apostolica romana riconosceva di fatto all’Italia. Mette in scena - e questa è un’altra delle parti originali del libro - la fantasia di una «identità» che, in questo paese ontologicamente frammentato, ha ancora meno senso che altrove: che cosa c’è di più identitariamente lontano di un veneziano da un milanese? Di un romano da un napoletano? di un «gattopardo» lampedusiano da un fiorentino figlio di Dante? E poi il risentimento contro la Germania. E poi l’amore-odio per la nazione sorella, la Francia. E poi la burocrazia di Bruxelles, la cui complessità, Molinari lo sa bene, può anche essere, come nell’impero austro-ungarico, una garanzia di civiltà, ma che i congiurati della nuova alleanza rosso-bruna hanno trasformato in un capro espiatorio.
E Putin, infine, che manovra nell’ombra, ancora più formidabile del precedente Kgb, e che è diventato qui, come altrove, l’agente patogeno per eccellenza del cancro populista: non è forse dimostrato che abbia interferito, attraverso i social network, nelle elezioni italiane almeno tanto quanto in quelle degli Stati Uniti? E non ha forse trovato in Matteo Salvini una sorta di simile, un doppio mancato, un fratello fragile e asservito? A volte Maurizio Molinari sembra pensare che questi uomini che regnano oggi sull’Italia e propongono al resto dell’Europa un modo di governare alternativo, siano cavalli di ritorno, zombi, l’ombra dei loro padroni, la loro pallida copia: incapaci della minima elaborazione dottrinale, incompetenti a formulare qualsiasi proposta economica, politica o culturale, rielaborano i loro manuali di prefascismo e sono destinati a rimanere, con ogni probabilità, eterni comprimari.
A volte ricorda che, dalla più esangue e sfibrata debolezza, dalla più grande stanchezza e dalla più struggente angoscia, è successo, nella storia europea di veder nascere disprezzatori, distruttori, nichilisti, intenzionati ad annientarla, ahimè, riuscendoci - e allora non si sente più di escludere che, dal laboratorio italiano, possa uscire un giorno una di quelle terribili sintesi che consideriamo mere speculazioni fino al momento (ma è troppo tardi!) in cui si scopre che seguono le tendenze di un’epoca. La lotta per l’Europa, in Italia come altrove, è iniziata. E’ allarme rosso. È normale. È sempre così, nel teatro dell’umanità. L’essenziale è essere pronti e non avere paura.
Traduzione di Carla Reschia