sabato 10 novembre 2018

La Stampa TuttoLibri 10.11.18
Predrag Finc
Il filosofo bosniaco è rinato a Oxford ma rivuole il freddo dei suoi monti
di Andrea Marcolongo


Ma toccherà proprio a ogni generazione? Davvero il destino di tutti è una chiave attorno al collo?». Sigarette si accendono e si spengono nella notte su un autobus in fuga dalla disperazione e in viaggio verso la speranza. Qualcuno saluta agitando le mani, forse le stesse che sparano. Una donna singhiozza: «la mia Sarajevo». Un uomo con un parrucchino sussurra: siamo «il popolo del diluvio».
Questa frase diventa, come un gemito, il titolo del saggio di Predrag Finci, professore di filosofia all’Università dell’allora jugoslava Sarajevo: nel 1992 l’assedio è appena cominciato, ma lo studioso sa che in guerra le premonizioni più nere possono essere superate da un’esperienza ancora più nera.
«Se rimango – mi dicevo – mi aspettano sciagure, se me ne vado mi attendono sofferenze.» Finci all’epoca ha quarantasei anni, arriva a Londra come profugo insieme a mille altri esiliati che festeggiano la salvezza e insieme la perdita irreparabile della loro terra. Presto il filosofo si ritrova in un nuovo Paese a parlare una nuova lingua e con il ruolo di visiting professor dell’università di Oxford. Che cosa potrebbe desiderare di meglio di una delle migliori cattedre al mondo? Finci vorrebbe, come tutti, essere a casa. Tra gli amici, tra le sue montagne di Bosnia, mangiare le solite cose, čevapi, pasticcio di verdure, bere birra e rakjia. Vorrebbe sentire il solito freddo.
Il Popolo del Diluvio, articolato in tre sezioni e accompagnato dalle preziose prefazione di Maria Bettetini e postfazione di Božidar Stanišić, è il tentativo meta-letterario di raccontare un viaggio di andata e di ritorno dall’inferno della guerra di Bosnia Erzegovina.
«Vorrei scrivere il libro di un altro, di qualcuno che mi appartiene ma è affrancato dalla mia parzialità, dalla mia soggettività, da me stesso», dichiara Finci: della guerra di Sarajevo vuole farsi testimone e mai giudice.
Da subito rifiuta il cliché della «narrazione del profugo», in cui si «paga soltanto un tributo alla sofferenza con la parola»: non può e non vuole raccontare i tragici avvenimenti in patria, il convulso periodo dell’esilio, le varie peripezie intorno allo status di rifugiato e infine l’inserimento nella nuova casa e nella nuova vita.
Dopo un inizio in cui vediamo il professore in qualità di viaggiatore con un sogno ricorrente -quello di svegliarsi e non vedere più la follia e l’orrore che scorrono lungo la Miljacka- arriva la parte più travagliata e tormentata di questo straordinario saggio: il racconto di ciò che è stato perché «la mia vita di un tempo mi ha abbandonato, ma il mio passato è rimasto con me.»
Finci (che fino al 2002, anno del suo ritorno a Sarajevo, non ha mai più scritto), in filosofico conflitto tra realtà e memoria, «poiché ci sono troppi racconti in un racconto per diventare un solo racconto» ne scrive ben undici.
A poco a poco, lo scrittore abbandona il suo ruolo per rifugiarsi nella fenomenologia della letteratura e lascia che siano gli autori che ama a parlare al suo posto, liberandolo dal limite di doversi rappresentare e imponendogli però i limiti della scrittura altrui.
Il lettore troverà dunque un esilio raccontato attraverso Joyce, l’oscurità bellica narrata da Conrad e Huxley; i libri perduti saranno la biblioteca di Borges e i sogni quelli di Calderón de la Barca; Kafka muterà il suo protagonista non in uno scarafaggio, ma in un enorme straniero e il punto più basso del dolore è affidato allo scrivano B. di Melville - anche se è alla vita che Finci vorrebbe dire preferirei di no.
Infine, il ritorno è sempre un evento duplice: tutto è cambiato rispetto al ricordo consolidato del passato eppure conserviamo il desiderio di ritrovare identico ciò che si è perso.
Ma «nello stesso fiume non è possibile discendere due volte», diceva Eraclito, e Finci lo sa bene: atterrato all’aeroporto, viene mandato all’ufficio stranieri perché la Jugoslavia di Tito non esiste più e ormai è cittadino inglese nonostante sul passaporto ci sia scritto nato a Sarajevo. All’Università nessuno si ricorda di lui e, quando incontra per caso un conoscente, quasi si scusa per essere ancora vivo.
«Ogni vita si estende tra i ricordi di Atlantide e l’Utopia. Anche la mia è così», dichiara Finci nell’ultima parte del libro, che reca il titolo struggente di In luogo di un epilogo, la felicità.
Sì, a Sarajevo tutto è diverso, ma anziché una fine il filosofo trova inaspettatamente la gioia maturata nel dolore, la «felicità raggiunta» della poesia omonima di Montale.
Il lusso di non aver più niente da perdere ma tutto da vivere, nessun palloncino attaccato a nessun filo, la capacità di godere di ciò che si è.
Sarajevo dove, dinanzi a qualunque problema, ogni cittadino oggi risponde con un disarmante bit će dobro, «andrà tutto bene». La città dove vivo, dove amo e dove, come Predrag Finci, ho imparato ad essere felice anch’io.