La Stampa 9.11.18
La malaeducazione: gli studenti italiani tra i peggiori del mondo
di Federico Taddia
Lo
sguardo spavaldo. Beffardo. Irriverente. L’espressione provocatoria, da
duello emotivo. L’aria è strafottente, tipica di chi vuole sondare i
limiti dell’osabile. Di chi vuole andare al di là di quel limite. Chissà
quante volte i professori delle nostre scuole si sono trovati in questa
situazione: tu alla cattedra nel tuo ruolo di educatore, lui - un lui
generico e generazionale, perché fanno parte della crescita il confronto
e il confitto - seduto al banco o in piedi alla lavagna a minare la
solidità di quel ruolo. E tu, professore, senza bacchetta magica in
tasca e senza alcuna ricetta preconfenzionata in tasca, che cerchi un
appiglio in quegli occhi che ti guardano ma non ti vedono: cerchi un
varco di connessione, cerchi un segnale di comprensione, cerchi una
complicità possibile. Cerchi un significato a quella relazione. E,
probabilmente, ti chiedi anche cosa cerca e cosa trova in te
quell’alunno. Hanno provato a chiederselo anche i ricercatori del Global
Teacher Status Index, attraverso uno studio che ha coinvolto 35 mila
intervistati tra i 16 e i 65 anni. E i risultati raccontano di una
scuola italiana dove si è letteralmente sgretolato il rapporto di
fiducia tra docenti e studenti: nella classifica che misura lo status
degli insegnanti, ovvero il rispetto che hanno gli alunni nei confronti
di chi è seduto alla cattedra, siamo al 33° posto su 35 nazioni
analizzate. Un graduatoria che va di pari passo con i risultati
scolastici. In sintesi: se non credo nella scuola, la scuola non mi dà
quello di cui ho bisogno. Numeri che poco aggiungono ad una quotidianità
nota, dove sono all’ordine del giorno docenti presi a schiaffi, a sputi
e a sediate. E quando non si arriva ai casi estremi è diffusa l’idea
che loro, gli insegnanti, siano i bersagli perfetti su cui scaricare le
colpe per brutti voti e bocciature, mancanza di voglia di studiare o
comportamenti sregolati, risultati non raggiunti e sogni non realizzati.
Basta poi intrufolarsi in una qualsiasi chat dei genitori per rendersi
conto di come tutto questo sia amplificato dal chiacchiericcio di madri e
padri, che a colpi di tastiera minano la credibilità di chi in aula ci
sta per davvero. Si è persa, lo si dice da anni, l’alleanza virtuosa tra
famiglia e scuola. Un’alleanza complicatissima da ricostruire. I
ragazzi stessi, in una società oggettivamente più volgare e dissacrante,
spesso hanno smarrito il senso della misura. E della gentilezza. E i
professori, vessati e maltrattati da un sistema sempre più impoverito e
da una burocrazia paralizzante, non sempre trovano nella passione e
nella motivazione l’ossigeno sufficiente per svolgere al meglio il loro
compito. Un compito che è una professione, non una missione. Quella che
però si totalmente dissolta, e forse proprio da lì bisognerebbe
ripartire, è la consapevolezza che i maestri nella vita servano, e non
possano essere sostituiti da una manciata di tutorial. Maestri, ovvero
persone di cui fidarsi. Persone in grado di accendere curiosità, sete di
sapere e sete di essere. Maestri, perché ci mettono competenza e
creatività, perché si spendono per te in quanto persona, non in quanto
alunno. Maestri su cui investire, perché da loro passano i cittadini di
domani. Maestri, che sono modelli e possono proporre modelli. E sanno
che il rispetto non lo si conquista con un concorso di abilitazione, ma è
un qualcosa che si costruisce lezione dopo lezione. Con il contributo
di tutti: scuola, alunni, genitori. Perché l’insegnamento è una sfida,
giornaliera. Contro l’ignoranza, l’incompetenza e la maleducazione. E
perderla significherebbe definitivamente perdersi.