il manifesto 9.11.18
Internazionale
Ahmed Sa’adat: «La Palestina sarà liberata dal popolo escluso dalle élite»
Intervista.
Per la prima volta dopo oltre un decennio, il segretario generale del
Fronte popolare per la Liberazione della Palestina parla con un giornale
straniero dal carcere: «La via per la libertà: il ritorno dei rifugiati
e la creazione di un unico Stato libero, democratico e laico. Per farlo
dobbiamo ricostruire il nostro movimento nazionale, l’Olp»
di Stefano Mauro
Ahmed
Sa’adat è diventato segretario generale del Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina (Fplp), il più importante partito della
sinistra radicale palestinese, nel 2001 dopo l’assassinio di Abu Ali
Mustafa, ucciso da due razzi lanciati da un elicottero israeliano contro
il suo ufficio a Ramallah. Come risposta un commando del Fplp uccise
l’anno seguente Rahavam Zeevi, ministro israeliano e ideologo della
deportazione dei palestinesi. L’Autorità nazionale palestinese fece
arrestare Sa’adat che, nonostante il parere contrario dell’Alta Corte di
giustizia palestinese, rimase nel carcere di Gerico fino al 2006.
Quell’anno,
in violazione di qualsiasi convenzione internazionalmente riconosciuta
sulla detenzione, i militari israeliani prelevarono Sa’adat, lo
deportarono nelle carceri israeliane e lo condannarono a 30 anni di
carcere come «referente politico» di un’organizzazione considerata da
Tel Aviv come «terrorista». Da allora vive nelle carceri israeliane e
periodicamente viene tenuto in regime di isolamento per lunghi periodi,
il che ha provocato una campagna di solidarietà (#FreeAhmedSa’adat) da
parte della sinistra internazionale che ne chiede il suo rilascio.
Il
manifesto, grazie alla rete dei detenuti del Fplp, è riuscito a
intervistarlo dal regime carcerario in cui è segregato, dopo oltre dieci
anni dalle ultime dichiarazioni rilasciate a quotidiani stranieri.
Come valuta la situazione attuale in Palestina e l’atteggiamento dell’amministrazione Usa di Donald Trump?
Per
prima cosa voglio ringraziare il manifesto per questa intervista. È
fondamentale comunicare ai lettori italiani e spiegare la visione della
sinistra palestinese per l’attuale situazione in Palestina e nella
regione. Vediamo gli Usa e l’amministrazione Trump come un potere
pericoloso non solo per il popolo palestinese, ma per tutti i popoli del
mondo. L’unica differenza tra Trump e le precedenti amministrazioni è
che Trump mostra chiaramente la vera faccia del capitalismo e
dell’imperialismo portando all’estremo l’utilizzo dell’egemonia e dello
sfruttamento.
La decisione di nominare Gerusalemme capitale dello
Stato israeliano e di spostare l’ambasciata da Tel Aviv è la naturale
continuazione di 100 anni di colonizzazione in Palestina, dalla
dichiarazione Balfour (1917), con l’obiettivo di annullare i diritti dei
palestinesi e di accelerare la pulizia etnica del nostro popolo,
specialmente per quanto riguarda Gerusalemme. Tutti i palestinesi
rifiutano e combattono i tentativi di Trump di eliminare la questione
palestinese. Il nostro popolo sta contrastando questo tentativo non solo
a parole, ma con i fatti che sono la Grande Marcia del Ritorno di Gaza,
una vera e propria rivolta popolare, dove è presente anche il Fplp,
simile allo spirito della prima Intifada.
Ahmed Sa’adat dietro le sbarre
Quale strategia permetterebbe oggi la ricostruzione di un forte movimento di liberazione palestinese?
Il
principale compito è la ricostruzione e la riunificazione del movimento
nazionale di liberazione della Palestina. L’obiettivo principale è di
mettere la Palestina, per l’ennesima volta, sulla strada della
liberazione riaffermando l’essenza stessa della lotta palestinese.
Questo riguarda principalmente il ritorno dei rifugiati e la costruzione
di un unico Stato libero, democratico e laico in Palestina – non quella
dei confini del 1967 – dove qualsiasi cittadino possa vivere in pace
senza distinzione di religione o razza. Una profonda frattura nel
movimento palestinese, a livello storico, c’è stata sicuramente dopo gli
accordi di Oslo nel 1993: ha distorto il vero significato della nostra
lotta e la reale essenza del conflitto. Un’intera generazione di
palestinesi è nata e cresciuta illusa dopo la firma di quel catastrofico
documento che ha portato solamente divisione e frammentazione nel
movimento di liberazione palestinese.
Proprio in quest’ottica il
nostro impegno è quello di ricostruire il fronte di liberazione
nazionale, cioè l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della
Palestina): noi ci vediamo in mezzo tra Fatah e Hamas per creare un
equilibrio e salvare l’unità nazionale, portando la nostra idea
progressista, di sinistra e di rappresentanza di popolo. Tutte le classi
palestinesi devono essere parte di questo processo di unità e le classi
popolari non devono essere escluse dalla leadership del movimento, come
lo sono state negli ultimi 40 anni.
Quale alternativa politica suggerisce quindi il Fplp?
Pensiamo
che la premessa principale del cambiamento sia la partecipazione
popolare in modo di consentire ai palestinesi di partecipare alla lotta –
e al processo decisionale politico – in modo efficace e significativo.
Ciò richiede non solo la lotta contro l’occupazione, ma anche la lotta
per il diritto dei palestinesi a parteciparvi. Ad esempio, in Giordania,
ci sono oltre quattro milioni di palestinesi. Lo stesso vale per i
palestinesi in Libano, Siria e altrove, così come per quelli in
Palestina. La partecipazione e la leadership popolare sono necessarie
per la ricostruzione del movimento di resistenza contro il sionismo e
per l’attuazione di una strategia unitaria per la liberazione della
Palestina. Questo ovviamente deve avvenire in Palestina come nei
territori della diaspora, in Europa o nelle altre parti del mondo dove
ci sono palestinesi.
Se le nostre comunità sono sempre minacciate
da ogni tipo di criminalizzazione, leggi repressive e attacchi da parte
delle destre, allora i nostri obiettivi saranno più difficili da
realizzare. Il punto fondamentale della nostra visione si fonda su
questo: il diritto delle persone a partecipare allo sviluppo del loro
futuro. È il processo democratico di rappresentanza per il quale stiamo
combattendo a differenza di chi ha egemonizzato il popolo palestinese.
Nel 2017 il Fplp ha festeggiato il 50° anniversario dalla sua fondazione. Come valuta il suo ruolo attuale?
Il
Fronte ha concluso il suo settimo congresso all’inizio del 2014 e ora
ci stiamo avvicinando all’ottavo. Sarà un’opportunità per tutti i nostri
compagni, dentro e fuori la Palestina, di valutare i nostri progressi e
le nostre sconfitte. Negli ultimi anni, il Fplp ha affrontato tremende
difficoltà in termini di repressione politica e finanziaria. Le
persecuzioni, gli arresti di massa e l’uccisione dei nostri quadri ne
sono un chiaro esempio. Nonostante ciò, siamo migliorati nelle nostre
capacità militari a Gaza perché non affrontiamo le stesse condizioni che
abbiamo in Cisgiordania. Lì subiamo sia l’occupazione che il
coordinamento sulla sicurezza dell’Autorità Palestinese: numerosi
compagni, come me, sono imprigionati proprio a causa del coordinamento
tra l’Anp e l’occupante. Siamo, però, presenti in tutte le forme di
lotta (militare, politica, culturale, sociale) all’occupazione e abbiamo
fatto progressi in termini di partecipazione popolare anche tra i
giovani, ma è sempre difficile ottenere dei risultati e visibilità (in
confronto a Fatah e Hamas, ndr) a causa della situazione attuale.
Nonostante le difficoltà siamo sempre impegnati in un processo di
costruzione e crescita.
Quanto è cambiato il Fplp dalla sua fondazione fino ad ora?
È
cambiato molto in questi anni, parliamo di mezzo secolo. Sono quattro
le fasi nella vita del nostro partito. Il primo, che potrebbe essere
identificato come «l’era giordana», dal 1967 al 1972; il secondo,
l’esperienza della Rivoluzione palestinese e del Fplp in Libano, dal
1973 al 1982; la terza, la prima grande rivolta popolare palestinese,
l’Intifada, dal 1987 al 1993; e per concludere la messinscena del
cosiddetto processo di Oslo. I cambiamenti hanno interessato il Fronte
su diversi livelli: politico, teorico, organizzativo. Queste
trasformazioni ci hanno colpito come hanno toccato altri partiti: le
guerre nella regione, gli accordi di pace tra i regimi arabi e Israele,
la caduta dell’Unione Sovietica e del blocco socialista e il processo di
svendita della nostra terra, etichettato come «processo di pace».
Tutti
questi fattori hanno influenzato il Fronte, la sua forza e la sua
analisi. Abbiamo fatto scelte ed errori che ci hanno penalizzato e che
sono emersi, per alcune contraddizioni interne, anche nei precedenti
congressi, visto che ci siamo sempre impegnati nell’autocritica. Siamo
arrivati alla conclusione, dal 1992 a oggi, a causa delle destre
palestinesi e la continua aggressione israeliana alle nostre terre e al
nostro diritto di esistere, che il nostro partito, come il nostro
popolo, attraversano una crisi globale: teorica, politica, economica.
Pensiamo che questa cripossa essere superata solo attraverso la
resistenza e la lotta popolare a qualsiasi livello.
Qual è il ruolo del movimento dei detenuti nelle prigioni israeliane?
Il
movimento dei prigionieri nelle carceri israeliane ha storicamente
svolto un ruolo importante e centrale nella lotta all’oppressione
sionista. Non solo nel nostro confronto quotidiano tra occupanti e
prigionieri, come «prima linea», ma anche nella scena politica in
Palestina. Bisogna ricordare che l’accordo di unità nazionale
palestinese, chiamato «Documento dei Prigionieri», è stato redatto
all’interno delle prigioni e costituisce la base di tutte le successive
discussioni della resistenza palestinese. Il movimento dei prigionieri
ha vissuto varie esperienze di lotta, scioperi della fame, con la morte
di numerosi prigionieri sotto tortura. Noi detenuti politici siamo stati
definiti l’avanguardia e il cuore della rivoluzione palestinese. Questo
perché Israele stesso tenta di contrastare la lotta palestinese e i
suoi leader con la reclusione, opprimendo qualsiasi movimento di
resistenza: studentesco, femminista, sindacale o giovanile.
Le
prigioni sono da sempre un luogo in cui tutte le differenti anime della
resistenza si incontrano ed è proprio per questo che i palestinesi
spesso definiscono le carceri «le scuole della rivoluzione». Non siamo
separati dal movimento di liberazione fuori dalle prigioni, ma siamo un
tutt’uno visto che i prigionieri provengono da tutti i Territori:
Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. Consideriamo come parte del nostro
movimento anche i prigionieri politici palestinesi nelle carceri
americane e francesi, in particolare Georges Ibrahim Abdallah,
imprigionato in Francia da oltre 34 anni.