Corriere 9.11.18
Gli Obama, due capi per l’opposizione
E su Donald si allunga l’ombra di Michelle
dal nostro inviato a New YorkAldo Cazzullo
Lei può vincere. È un’ipotesi, ma condiziona il partito
di Aldo Cazzullo
La
donna più vicina a Trump, Kellyanne Conway, nel luglio 2016 fu mandata a
Philadelphia alla convention di Hillary Clinton. Al ritorno riferì:
«Capo, vinciamo noi. Il messaggio dei democratici è che tu sei il Male, e
loro sono diversi. Per il resto, in quattro giorni hanno parlato solo
di diritti delle minoranze, delle donne e degli omosessuali».
Ovviamente
la Conway restituiva una versione caricaturale dei rivali: proprio
quella che il capo voleva sentire. Resta il fatto che Trump vinse
davvero. E in fondo neppure stavolta ha perso.
Anche in queste
elezioni, i democratici non hanno puntato su economia, sanità, politica
estera. Hanno eretto contro Trump un muro di alterità, distanza
antropologica, presunta superiorità morale. E l’uomo che ha impersonato
questa linea è ancora lui, il vero capo dell’opposizione, l’unico leader
indiscusso per quanto ineleggibile: Barack Obama.
Mai un
presidente in carica aveva insultato gli avversari come ha fatto Trump.
Però mai un ex presidente si era battuto contro il successore come ha
fatto Obama; che non ha mai accettato la sconfitta del 2016, destinata a
travolgere, con Hillary, gran parte della sua eredità. Non solo la
riforma sanitaria, quanto il superamento della questione razziale.
L’idea di un’America pacificata, il sogno del concerto globale, della
crescita equa, dell’ambiente, dei diritti civili.
Prima del voto,
Obama ha tenuto discorsi dai toni apocalittici: «Sono le elezioni più
importanti della nostra vita. In gioco non c’è la mia riforma della
sanità; c’è molto di più. La posta siamo noi. Dobbiamo decidere chi
siamo. In quali valori crediamo. Come ci comportiamo con gli altri.
Dimostriamo che Trump non è chi noi siamo!».
Dopo si è dato una
calmata e su Twitter si è inoltrato nella classica analisi del voto: «È
un buon inizio. Non è solo importante aver vinto, ma come abbiamo vinto.
Siamo stati competitivi in posti dove non lo eravamo». Obama si è
compiaciuto per la buona prova della sua coalizione: donne, neri,
ispanici (anche se i due candidati governatori per cui si è speso di
più, David Gillum in Florida e Stacey Abrams in Georgia, hanno perso).
In effetti queste elezioni hanno giustamente valorizzato personaggi
freschi e interessanti: i deputati pellerossa, la musulmana con il velo,
la cameriera messicana che ieri serviva ai tavoli e oggi siede alla
Camera. Ma c’è tra loro qualcuno che può battere Trump?
Scalzare
il presidente nel 2020 non sarà facile. E i democratici per il momento
non hanno un candidato sicuro. Joe Biden funzionerebbe, ma è considerato
un vecchio arnese, come Bernie Sanders. Michael Bloomberg è stato il
sindaco repubblicano di New York; può essere il centrista che ricompatta
il Paese in un’emergenza economica o internazionale, che all’orizzonte
per fortuna non si vede. Tra le figure emergenti la più accreditata
resta Kamala Harris, la senatrice della California di origine indiana;
ma è la persona giusta per recuperare l’elettorato operaio di Pittsburgh
o Cincinnati?
Una donna che potrebbe vincere c’è. Obama era certo
che avrebbe battuto Trump senza problemi, se avesse potuto scendere in
campo. Anche oggi la sua non è una candidatura — da lei sempre esclusa —
ma una suggestione; destinata come ogni suggestione a non realizzarsi
forse mai, e ad aleggiare sempre. Martedì prossimo esce, in
contemporanea in 24 Paesi, Becoming, Diventare, l’autobiografia di
Michelle Obama. Sarà presentata nei palazzetti dello sport di dodici
città americane: non c’è più un posto libero. L’autrice racconta
l’infanzia nel South Side, la metà di Chicago riservata ai neri. Il
padre operaio dell’azienda municipale dell’acqua, malato di sclerosi
multipla, «che faticava ad alzarsi dal letto ma sorrideva sempre».
L’incontro con Barack, «l’amore della mia vita», «un uomo onesto e
integro». La comunità della Trinity United Church of Christ, dove il
controverso reverendo Wright — quello della preghiera «Dio maledica
l’America» — celebrò il matrimonio di Barack e Michelle e battezzò le
loro figlie Sasha e Malia. (Non parlerà di una vicenda rivelata dalla
sua biografia Rachel Swarns e da lei mai commentata: il trisnonno di
Michelle, Dolphus Shields, era figlio di Melvina, schiava nera, e del
suo padrone bianco, Charles Shields).
Obama aveva una meravigliosa
storia da raccontare, ed è stato il primo a usare la rete per farlo. Ma
non è mai stato in sintonia con l’anima profonda dell’America, che
diffida dello Stato, del governo, degli avvocati, degli intellettuali; e
Obama è l’ex capo dello Stato e del governo, è avvocato, e ha
guadagnato come scrittore 15 volte più che come presidente. Rimarrà nei
libri come il primo afroamericano alla Casa Bianca. Ma si è formato con i
nonni materni alle Hawaii; non ha praticamente mai conosciuto il padre
kenyota, che se ne andò quando lui aveva due anni per poi rivederlo una
volta sola; secondo gli stereotipi non del tutto scomparsi pure in un
Paese multietnico come gli Stati Uniti, Obama si muove, pensa e parla
come un bianco.
La vera nera è Michelle. All’inizio la chiamavano
«Mrs Grievance», Signora Rancore. Disse che si era sentita «per la prima
volta fiera di essere americana» solo quando il marito aveva vinto le
primarie. Dopo l’elezione, a lungo rifiutò un ruolo pubblico. Si dovette
insistere perché lasciasse Chicago per la Casa Bianca. Poi però la
prese in pugno. Le doti di attrice le consentono di mimetizzare una
durezza e un’ambizione con cui si sono scontrati i collaboratori di
Obama. Sia Rahm Emanuel, capo dello staff, sia David Gibbs, portavoce,
litigarono con la first lady. Entrambi se ne andarono.
Trump la
detesta. Secondo un dossier Fbi che però Bob Woodward nel suo libro
Paura considera inattendibile, a Mosca si sarebbe fatto dare la stessa
stanza d’albergo e lo stesso letto in cui avevano dormito Barack e
Michelle, per il gusto di profanarla con un team di prostitute russe.
Michelle considera Trump un barbaro. Anche se la vera distanza tra i due
non è segnata dall’età — 72 anni lui, 54 lei — o dal colore della
pelle, ma dall’idea dell’America.
Per gli Obama e i democratici
l’America è un popolo, e il governo deve badare a chi non ce la fa,
ospitarlo, mantenerlo, curarlo. Per Trump e i repubblicani l’America è
un territorio. Che i padri hanno liberato dagli inglesi, comprato da
Napoleone, conquistato agli spagnoli, strappato ai messicani, conteso ai
Sioux, difeso dai clandestini. Chi riesce a entrare ha la propria
opportunità; non pretenda però che gli si paghino la casa, il cibo, la
salute; che non sono diritti, ma beni.
Tra due anni, al di là delle persone che la incarneranno, vedremo quale idea prevarrà.