sabato 3 novembre 2018

La Stampa 3.11.18
“Respinti dopo una notte in questura
Non abbiamo potuto chiedere asilo”
“La polizia ci ha scaricato in Slovenia con in furgone”
Almeno altri venti casi simili. L’Italia viola il regolamento di Dublino
di Francesco Grignetti


Eppure, eccone un altro. Un altro ancora. Questa è la sua voce, tradotta da un interprete parola per parola: «Era metà giugno. Camminavamo sul lungomare di Trieste. Il trafficante ci aveva scaricati pochi minuti prima. Avevamo viaggiato dalla Bosnia tutti in piedi, pigiati stretti, in 36 dentro il cassone di un camion. Tre di noi erano svenuti durante il viaggio. Ma in Italia avevamo bevuto l’acqua, stavamo bene, la gente faceva il bagno e noi ci sentivamo felici. Eravamo arrivati. Quando abbiamo visto tre auto della polizia, abbiamo pensato di essere salvi. Due miei amici erano già saliti sul pullman numero 6, ma sono scesi per andare incontro agli agenti».
Anche Mohammad M., 22 anni, contadino partito dal Pakistan, testimonia la stesso trattamento denunciato da altri migranti sulle pagine di questo giornale. Anche lui, appena arrivato in Italia, sta per essere caricato su un pullman della polizia: una camionetta azzurra con i lampeggianti. Anche lui sta per essere scaricato in Slovenia. Anche lui, nel giro di tre giorni si troverà sul limitare di un bosco, al confine con la Bosnia, con i poliziotti croati che gli indicano la strada non troppo benevolmente: «Mi hanno preso il telefonino, un Huawei P8. Dentro c’erano tutti i miei ricordi. Però non sono stato picchiato, io no». Era di nuovo al punto di partenza.
La notte in questura
Ma prima di arrivarci, quello che conta adesso è il racconto del giorno passato in questura a Trieste. Eccolo: «Ci chiamavano a turno. Mi hanno preso le impronte. Mi hanno fatto la fotografia. C’era l’interprete. A lui ho dichiarato che volevo chiedere asilo politico in Italia. Nessuno aveva mai preso prima le mie impronte digitali, nessun poliziotto mi aveva fermato. L’Italia è il primo posto in Europa su cui io ho appoggiato i miei piedi». Ecco perché è difficile capire quello che segue: «I primi quindici fra noi sono riusciti a fare la domanda e sono rimasti, io e tutti gli altri invece no. Abbiamo dormito nell’androne della questura. La mattina dopo è arrivato il furgone della polizia. Il viaggio è durato venti muniti. Gli agenti italiani ci hanno portato dall’altra parte della frontiera».
Definire «riammissione» questa pratica non si può. La riammissione si può fare solo nel caso in cui ci sia un passaggio certificato dello stesso richiedente asilo in un altro Paese dell’Unione Europea. Il fatto stesso che Mohammad M. ne possa parlare oggi qui, a Trieste, dove è tornato ed è in attesa che venga esaminata la sua domanda d’asilo ne è la prova. Se non poteva stare in Italia la prima volta, perché adesso al secondo tentativo è regolarmente qui?
«Anche i poliziotti sloveni ci hanno preso le impronte digitali, poi ci hanno scaricato in Croazia. Il viaggio di ritorno è durato meno di tre giorni. Tutto di fila». Così, anche Mohammed M., assieme ai suoi compagni, è stato respinto ed espulso dall’Europa. «Ero disperato. Avevo pagato 2200 euro al trafficante. Tutti soldi che mi hanno spedito i miei parenti, mio padre ha dovuto vendere un terreno per farmi arrivare in Italia».
“Sarebbe dovuto restare”
Ci sono almeno venti casi analoghi in questo momento a Trieste. Richiedenti asilo prima accompagnati oltre la frontiera e scaricati in Slovenia, e poi successivamente accettati. «Vediamo soltanto la punta dell’iceberg», dice Gianfranco Schiavone il presidente di Ics, il consorzio dell’accoglienza che segue con la Caritas tutti i richiedenti asilo della città. «Molti, per timore, preferiscono non parlare di questi fatti. Altri ancora, dopo essere stati respinti magari decidono di non passare più da questa frontiera».
Le chiamano riammissioni. Ma sembrano qualcos’altro. «La riammissione di un richiedente asilo tra due Paesi dell’Unione Europea è illegittima perché viola sia il regolamento di Dublino sia il diritto di accesso alla procedura», dice ancora Schiavone. «In questi casi, evidentemente, la polizia ha ignorato il fatto che i migranti chiedessero asilo in Italia. Avevano diritto di restare. Serve maggiore chiarezza. Serve personale delle organizzazioni che tutelano i rifugiati alla frontiere, in modo che possano svolgere una funzione di informazione e orientamento».
Per tutto questo, adesso, Mohammad M. non ha una spiegazione. Sa che prima l’Italia l’ha scaricato dall’altra parte della frontiera, sa che adesso l’Italia lo ha accolto come era suo diritto. La domanda d’asilo è datata 6 agosto 2018. Presto verrà chiamato dalla commissione. «Il mio sogno è restare qui», dice.