sabato 3 novembre 2018

La Stampa 3.11.18
Se Mélenchon sdogana la violenza e spinge la sinistra francese alla ribellione
In una democrazia ci sono pochi gesti più violenti della minaccia di colpire un poliziotto
di Bernard-Henri Levy


È già da un po’ che Jean-Luc Mélenchon offre un brutto spettacolo.
Quel suo essere estremista, quel suo ruolo di perdente senza lustro.
I colpi al di sotto della cintura contro Macron, l’Olanda, Valls, e altri.
La strana contiguità con l’estrema destra lepenista su temi molto sensibili come il dégagisme (neologismo, significa cacciare chi ha il potere senza necessariamente sostituirlo, ndr) e i migranti.
Gli insulti al Crif (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France).
Il processo, stile Trump, e con una fissazione su Radio France, ai giornalisti e ai media ai quali a quanto pare non perdona di aver tardato a riconoscerlo.
O l’imbarazzante trasmissione politica durante la quale, alcuni mesi fa, ha cercato di umiliare due donne, Laurence Debray e Nathalie Saint-Cricq, colpevoli di avergli chiesto, con un’insistenza che considerava sospetta, del suo tropismo venezuelano.
Questo Mélenchon non era più «populista». Era odioso. Sessista. Servile con i potenti (Putin, Assad). Implacabile con le vittime (i democratici ucraini, i civili massacrati, i tibetani). Beffardo con «la gente», come a dire il servidorame, che non gli piace (ancora la settimana scorsa, questa giornalista di France 3 di cui scimmiottava stupidamente l’accento meridionale). Tutto questo su uno strano piccolo ritornello che, combinando l’appello al popolo con il culto della personalità, ricorda quell’antica conoscenza dell’ideologia francese nota come Boulangismo.
Contro l’ufficiale di polizia
Tuttavia, con la reazione alle perquisizioni richieste dall’indagine sui suoi resoconti elettorali e su possibili impieghi fittizi, ha appena raggiunto un nuovo stadio della sua inquietante metamorfosi.
Come per Michel Onfray la scorsa settimana, bisogna vedere per credere.
Bisogna vederlo, su Youtube, mentre con uno sparuto drappello di seguaci infuriati, cerca, vero ariete umano, di sfondare la porta dei propri uffici.
Bisogna vederlo, gli occhi strabuzzati, l’indice levato, mentre minaccia un imperturbabile ufficiale di polizia e poi un procuratore della Repubblica, che mostra un impeccabile sangue freddo.
Bisogna vederlo mentre gli si fa addosso, quasi bocca a bocca, urlando, sputacchiando, cercando la rissa e, non trovandola, mettendosi poi a urlare ancora più forte, schiumante di rabbia.
Bisogna vedere tra la ressa, la confusione dei tavoli ribaltati e i suoi che strillano «colpiscilo, colpiscilo, colpiscilo», l’arrivo di un luogotenente che commenta: «Vi avevo detto che era violento» a proposito di un altro poliziotto che, gettato a terra, conserva un ammirevole autocontrollo.
«La Repubblica sono io», esclama questa nuova Marianne in versione maschile. «La mia persona è sacra», geme a un tratto, come in una rissa tra ubriachi.
E la scena sarebbe ridicola se non fosse per quello sguardo folle, quella voce spessa e sgangherata, quel tratto «tenetemi o faccio un macello», che rivelano il vero, orribile volto dell’anima.
Il via libera alla forza
I più onesti tra i «Ribelli» potranno sempre preoccuparsi per quello che è successo.
Potranno, come Alexis Corbiere, al programma di Cyril Hanouna, cercare di fare l’agnellino e dissolvere questa sequenza raggelante nella melassa di scuse vaghe e, volendo, sincere.
Qualcosa è successo.
Qualcosa è stato liberato, sulla scena politica francese, che autorizza, d’ora in poi, il ricorso alla violenza, alle discussioni muscolari, alla forza.
E non è facile capire, ad esempio, cosa si potrà ancora obiettare all’autentico delinquente che, domani, in qualche periferia difficile, si concederà il gesto di Mélenchon e della sua sciarpa tricolore per colpire davvero un rappresentante della legge.
La verità è che in una democrazia ci sono pochi gesti più essenzialmente violenti dell’atto o della minaccia di colpire un pubblico ministero, un poliziotto o qualsiasi altro esponente dell’autorità repubblicana.
La verità, più esattamente, è che non ci vuole molto perché un volto diventi un muso, perché la parola ceda il passo alle escandescenze e poi all’aggressione. E basta questo «non molto» perché, se si trova seguito, si passi dalla serietà dei poteri separati e distribuiti, dall’equità delle procedure imposte ai potenti così come agli altri, in breve, dal regno assoluto della legge, all’odio, alla rabbia, ai gruppuscoli e alle fazioni armati non già di pensieri alati, ma di pugni e zanne.
È lo stesso tragitto che abbiamo visto percorrere, negli Anni 30, a un comunista di nome Doriot, sindaco di Saint-Denis; anch’egli mostrava tutto il suo disprezzo per le istituzioni e le leggi.
È lo stesso percorso raccontato dai libri di Maurice Barrès, dove altri «ribelli», alla vigilia della Prima guerra mondiale, passano da Sorel a Maurras e dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Bene, il signor Mélenchon è esattamente a questo punto.
Lo avevamo lasciato seguace di Robespierre - lo troviamo emulo di Doriot.
Voleva essere un sans-culotte - ma si ritrova nello spirito delle Leghe.
Lui, il capo, lo sa. Conosce troppo bene la storia della Francia per ignorare le strade che sta per prendere. Ma eccolo qui. È stufo. Forse non è nemmeno così arrabbiato come pretende di essere, pensa solo che ci sia troppo da aspettare. «Non saranno certo - dice testualmente - giudici, poliziotti e politici perdenti che ci obbligheranno a vivere diversamente». Dobbiamo intendere: «Ho atteso troppo i favori dei Mitterand, degli Hollande, dei Jospin, di quei vecchi anziani che mi lodavano e quindi mi metto in proprio».
Sì, è giunto il momento, pensa. E si frega le mani. Anche se sappiamo che quest’ora non sarà la sua, ma quella dei distruttori della Repubblica.
Traduzione di Carla Reschia