Il Fatto 3.11.18
Il governo m5s-lega e il barbiere di Lenin
di Piergiorgio Odifreddi
Secondo
Silvio Berlusconi, il governo gialloverde è “il più sbilanciato a
sinistra della storia del Paese”. Poiché però il leader di Forza Italia è
notoriamente ossessionato dai comunisti, che secondo lui sono insediati
in ogni luogo e responsabili di ogni male, la sua opinione non va presa
troppo seriamente. Ma può fornire lo spunto per ricercare analogie tra
ciò che è successo a Palazzo Chigi dopo il 1° giugno 2018, con il
governo del cambiamento italiano, e ciò che è accaduto allo Smolnij e al
Cremlino dopo il 7 novembre 1917, con il governo rivoluzionario russo.
Lasciando
da parte le opinioni ideologiche, grillo-leghiste da un lato e
marxiste-leniniste dall’altro, concentriamoci sui fatti concreti, a
cominciare dall’atteggiamento pauperista e semiascetico che i partiti
pentastellato e bolscevico hanno imposto ai propri vertici e proposto ai
propri militanti. Ad esempio, gli scontrini dei rimborsi spese dei
parlamentari 5S della scorsa legislatura e i viaggi in economy dei nuovi
ministri richiamano lo stile di vita modesto adottato da Lenin, che si
accontentava di vivere insieme alla moglie e alla sorella in quattro
sole stanze al Cremlino, e attendeva pazientemente in coda il proprio
turno per passare dal barbiere. Anche l’astio verso i tecnici e il
sospetto nei confronti delle loro “manine”, uniti alle minacce e alle
promesse di epurazione politica nei ministeri, trovano un’antecedente
molto più drastico e radicale nell’esecuzione degli alti comandi zaristi
e nel licenziamento degli ufficiali dell’esercito, che furono
sostituiti da una nuova gerarchia tratta dalle truppe rivoluzionarie, di
scarsa preparazione ed esperienza militare, ma di fidata fede
bolscevica. Quanto alla rimozione del pessimismo dei fatti e alla sua
sostituzione con l’ottimismo della volontà, sintetizzate nel rifiuto del
nuovo governo grillo-leghista di farsi condizionare dai mercati e dai
trattati europei, e nel proposito di abolire la povertà per decreto,
impallidiscono di fronte all’analogo rifiuto del nuovo governo
bolscevico di farsi condizionare dalla situazione bellica al fronte e
dai trattati internazionali, e al proposito di uscire unilateralmente
dalla guerra con il decreto sulla Pace, approvato già l’8 novembre 1917.
In
fondo non è sorprendente trovare simili analogie, in governi che si
propongono programmaticamente di apportare cambiamenti radicali nello
status quo del proprio Paese, e quelli fatti non sono che esempi
paradigmatici delle novità da introdurre nel comportamento individuale
dei nuovi leader, nell’organizzazione interna del nuovo Stato e nelle
relazioni esterne con i Paesi stranieri. Novità che devono essere
introdotte, per mantenere le promesse di cambiamento, ma che non
necessariamente si possono introdurre.
Al proposito, la storia
sovietica lascia poche illusioni al riguardo. Ad esempio, fare la fila
dal barbiere poteva essere naturale per un politico disoccupato in
esilio, ma diventava velleitario e sciocco per un capo di governo
occupato a condurre una Guerra civile che impegnava tutto il suo tempo e
richiedeva tutte le sue energie. Infatti, poco dopo Lenin capì che era
meglio fare meno gesti simbolici, ma meglio il proprio lavoro. Anche
aggirare e rimuovere i tecnici nell’esercito non si rivelò essere una
grande idea, visti i risultati ottenuti al fronte. Infatti, durante la
Guerra civile non si poterono risuscitare gli alti comandi zaristi
fucilati, ma si dovettero reintegrare di corsa gli ufficiali rimossi,
pur mettendo al loro fianco dei commissari del popolo a controllare le
loro “ditine” posate sui grilletti. Perché con i dilettanti si stava
perdendo la guerra, mentre per vincerla servirono i professionisti.
Quanto ai condizionamenti esterni, si possono anche rimuovere nella
propria testa, ma non per questo essi svaniscono miracolosamente.
Il
decreto della Pace portò in poche settimane a un ultimatum tedesco e
alla capitolazione di Brest-Litovsk, con la perdita di un terzo
dell’impero russo: a sconfiggere in seguito la Germania non fu certo
l’unilateralismo sovietico, ma l’azione comune degli Alleati.
I
sovietici impararono presto la lezione che i proclami utopici e le
azioni dimostrative sono malattie infantili del cambiamento, e li
sostituirono con un realismo e un pragmatismo che permisero loro di
sopravvivere per settant’anni, tanti quanti la nostra Repubblica.
Se
il governo giallo-verde vuole provocare un cambiamento serio e desidera
durare a lungo, dovrà imparare anch’esso presto la stessa lezione e
vaccinarsi velocemente contro le stesse malattie infantili.