La Stampa 2.11.18
I colpi di Stato senza militari che mettono alla prova la democrazia
di Juan Luis Cebrian
Quando
Curzio Malaparte scrisse “Tecnica del colpo di stato” non immaginava
che, col passare del tempo, i processi di sostituzione del potere
costituito con metodi illegali sarebbero migliorati in modo consistente
grazie ai progressi della tecnologia e ai nuovi equilibri della società.
Corrono voci insistenti secondo le quali Jair Bolsonaro, vincitore
indiscusso del secondo turno delle elezioni brasiliane, sarà presidente
del Paese grazie a un piano premeditato contro il potere legittimo del
Pt (il partito dei lavoratori guidato da Lula), quando forze più o meno
occulte andarono all’attacco della presidenza di Dilma Rousseff. Da lì
ebbe inizio, in modo apparentemente rispettoso degli usi democratici,
anche se non altrettanto delle regole del gioco, l’offensiva neofascista
che sarebbe culminata nella vittoria elettorale di domenica.
Anche
in Spagna i separatisti catalani sono stati accusati dai partiti fedeli
alla Costituzione di aver tentato un colpo di stato quando hanno
approvato unilateralmente l’indipendenza. Molti autori affermano che i
colpi di stato classici, con gli appelli all’esercito e all’uso della
forza, non si usano più. Si parla, ad esempio, di golpe finanziario, se
si manipolano le quotazioni di Borsa e il tasso di cambio per indebolire
o far cadere i governi, e di autogolpe quando il potere costituito si
mette scientemente in pericolo per cercare di perpetuarsi, come nel Perù
di Fujimori.
Il fantasma di Bannon
L’uso dei social network
per influenzare le elezioni diffondendo notizie false e voci
diffamatorie su questo o quel candidato è un altro modo per distorcere
la realtà e screditare l’avversario e per cercare di sconfiggerlo alle
urne. I movimenti populisti, da Trump a Salvini, mettono costantemente
in atto questo metodo con risultati non disprezzabili. Gli oppositori di
Bolsonaro accusano Steve Bannon, senza portare alcuna prova, di aver
contribuito a sobillare i social network contro i partiti di sinistra.
Sia vero o no, gli obiettivi e l’ideologia dell’ ex capo della campagna
elettorale di Trump sostanzialmente coincidono con il pensiero del nuovo
presidente del Brasile, e sono contigui agli impulsi antidemocratici
dei governanti della Polonia o dell’Ungheria, e anche a quelli dei
sostenitori del caotico governo italiano. Però anche la vittoria nel
Paese del samba di questo ex capitano espulso dall’esercito, xenofobo,
razzista e anti-femminista, una specie di maschio alfa prestato alla
politica, si deve all’ indignazione popolare per le conseguenze della
crisi finanziaria ed economica e all’aumento delle disuguaglianze. La
demagogia populista sa come alimentare queste passioni per poi placarle
con promesse che non potranno mai essere mantenute.
Il pretesto della corruzione
La
corruzione, diffusa non solo in America Latina, per quanto enorme, non
cessa di essere un pretesto per suscitare ulteriore malcontento. In
Brasile, come nella maggior parte dei Paesi democratici, trova le sue
motivazioni nel finanziamento delle campagne elettorali. L’uso di
Petrobras, colosso petrolifero di proprietà pubblica, per ottenere fondi
per tali fini, è cominciata certamente molto prima del governo di
Fernando Henrique Cardoso, iniziale artefice del cosiddetto miracolo
brasiliano, il cui impatto economico è stato proseguito dai governi di
Lula da Silva.
Dopo la giornata di domenica, il Paese è stato
diviso in due parti, e anche questa estrema polarizzazione è un segno
dei tempi. C’è chi sostiene che se si fosse espresso oltre il 20% di chi
si è astenuto o ha annullato il voto, il risultato sarebbe stato
diverso, ma è un argomento discutibile. La verità è che Bolsonaro ha
unito tutte le forze conservatrici e che, incredibilmente, anche i
liberali hanno aderito alle sue proposte di estrema destra, che
minacciano di distruggere il tessuto politico brasiliano. A lui si è
contrapposto un candidato indebolito anche dal calendario, perché è
stato scelto poco prima delle elezioni, dopo che i tribunali avevano
vietato la candidatura di Lula, debole nel suo tentativo di proseguire
sulla strada delle politiche socialdemocratiche caldeggiate dai moderati
del Pt. I suoi leader hanno dimenticato che l’insicurezza dei cittadini
e la crescente violenza delle mafie sono tra i motivi del consenso
elettorale di chi promette legge e ordine, anche a costo di mettere a
ferro e fuoco il Paese.
Le troppe brutalità
Anche se nelle
sue prime dichiarazioni dopo la vittoria Bolsonaro ha cercato di
moderare la brutalità del suo linguaggio, nessuno dimentica che durante
la campagna elettorale aveva detto che i rossi potevano solo scegliere
la prigione o l’esilio e persino che bisognava fucilare gli esponenti
del Pt. Il partito e l’ex presidente Lula sono stati demonizzati
all’estremo durante la campagna elettorale, ma hanno ancora la
rappresentanza più forte in un Parlamento, frammentato in dozzine di
gruppi diversi.
Nel breve termine si prevede che l’economia del
Paese rimanga stabile, ma i rischi di destabilizzazione politica e la
tentazione dell’ala più a sinistra del Pt di portare l’opposizione in
piazza disegnano un orizzonte incerto. Le istituzioni democratiche
saranno messe seriamente alla prova. Con un esecutivo che fa la voce
grossa e una legislatura di maggioranze quasi impossibili, molti
democratici guardano ai tribunali come l’unica barriera contro la deriva
autoritaria. E anche se un settore considerevole dei giudici si è
politicizzato (è sufficiente vedere il destino del presidente Lula) la
speranza in una giustizia indipendente appare l’ultimo baluardo per
proteggere le minoranze dallo tsunami che si è scatenato domenica
scorsa.
(Traduzione di Carla Reschia)