venerdì 2 novembre 2018

Corriere 2.11.18
Tutta l’anima in un libro
Riflessioni «Il tuo sguardo illumina il mondo» (Solferino): una meditazione sulla morte, l’amicizia e il potere della poesia
La lettera di Susanna Tamaro a Pierluigi Cappello vista da un grande psichiatra
di Eugenio Borgna


La matrice del bellissimo libro Il tuo sguardo illumina il mondo (Solferino) di Susanna Tamaro è stata l’amicizia che l’ha legata a Pierluigi Cappello, poeta friulano che dalla età di sedici anni, a causa di un incidente stradale, viveva su di una sedia a rotelle, e moriva di una malattia tumorale nel 2017. Le pagine dedicate a questa amicizia sono di una indicibile lirica tenerezza, e si leggono con il cuore in gola, ma Susanna Tamaro parla (anche) della sua infanzia e della sua adolescenza, della sua giovinezza, ferite da una sensibilità e da una fragilità, da una delicatezza e da una timidezza che la rendevano diversa dalle sue spensierate compagne di scuola, e che nemmeno i suoi genitori sapevano comprendere nel loro significato e nel loro valore. Le sue fragilità sono state infine racchiuse in una diagnosi, quella di sindrome di Asperger, che ha dato loro un senso radicalmente diverso da quello di non essere se non conseguenza di una personale mancanza di interesse, e di impegno.
Dal libro, che si svolge in un dialogo ideale con il poeta friulano, vorrei stralciare alcune riflessioni, e in particolare ora quelle che ci parlano della fascinazione del suicidio, che l’ha accompagnata nella sua adolescenza, e non è stata diversa da quella che nella loro adolescenza è stata rivissuta da Giacomo Leopardi e da Simone Weil. Nulla di patologico, certo, in una esperienza di vita, come questa, che ne indica nondimeno la sensibilità e la fragilità, la febbrile attenzione al male di vivere, alla indifferenza e alla crudeltà della vita. Ma il libro mi ha consentito di cogliere la radicale importanza che Susanna Tamaro consegna alle parole, alle parole della poesia in particolare, nel sanare le ferite dell’anima. La rivelazione, che la poesia sia qualcosa che riguardi la profondità della sua anima, l’ha avuta alla età di sedici anni, leggendo l’autobiografia di Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto. La poesia è stata in ogni caso il nutrimento che le ha consentito di superare gli anni dell’adolescenza e della giovinezza. «E che cos’è la poesia, se non il riconoscere la nostalgia dell’eterno che abita da sempre nei nostri cuori?».
Susanna Tamaro ci parla della malattia mortale di Pierluigi Cappello, e dei medici che lo curavano con grande competenza tecnica, ma senza amore, con indifferenza e alterigia, e ci parla degli psichiatri che l’hanno incontrata, dimostrandosi incapaci di attenzione e di gentilezza d’animo, di ascolto e di pazienza, così indispensabili alla cura. Sono pagine accorate, dolorose e sferzanti, che non posso non condividere, anche se non mancano medici, come il medico di famiglia di Pierluigi Cappello, e non mancano psichiatri, consapevoli della enorme importanza delle parole e dell’ascolto, della partecipazione emozionale, nella cura.
Fra gli altri temi, che ci fanno leggere il libro come un diario dell’anima aperta al mistero del dolore e mai negata alla speranza, non potrei non citare ancora il tema della morte e del morire, della morte come ombra mai assente dalla vita di Susanna Tamaro, e del morire come modo oggi dilagante di evitare il male e la sofferenza. È il più umano dei desideri, lei ci dice, ma aggiunge: «A turbare — e a dare il segno della fragilità a cui siamo arrivati — è il fatto che si consegnino allo Stato le chiavi della nostra vita nella convinzione che solo nelle sue leggi si nasconda la salvezza», e con parole roventi e straziate si chiede se nelle leggi non si possa nascondere un universo concentrazionario. Nelle parole di Ungaretti, «la morte si sconta vivendo», si coglie, ci dice ancora questo libro, il senso profondo della nostra esistenza, e la nostra umanità ci deve rendere capaci di accettare la fragilità, di resistere al dolore (chi parla di vittoria, dice Rilke in una delle sue poesie, resistere è tutto), di assisterlo, di condividerlo con la delicatezza dei pensieri e dei gesti. E siamo ancora nell’umanità quando, davanti all’intollerabile, invochiamo la morte, e magari riusciamo anche a metterla in atto.
Sono pagine vibranti di umanità che non si possono leggere se non nel silenzio del cuore, e che nascono da una filosofia della vita mai chiusa alla speranza. Ma non posso non riconoscermi ancora in quello che Susanna Tamaro dice della gentilezza dell’anima, della tenerezza e della creatività come qualità umane che si accompagnano alla tristezza e alla malinconia, alla condizione umana ferita dal dolore e dalla sventura (mirabilmente descritta da Simone Weil quando diceva che non c’è conoscenza senza sofferenza); e questo, certo, senza elogiare la sofferenza, ma cogliendone il senso e il mistero.
Questo libro, che si nutre di memoria e di nostalgia ferita dal dolore, ci fa conoscere, se siamo capaci di sguardi che si aprano al mondo che ci circonda, quanta sensibilità umana e quanta immaginazione creatrice risplendano nell’amicizia, breve come un sospiro, e luminosa come una stella del mattino, che ha legato il destino di Susanna Tamaro a quello di Pierluigi Cappello: le sue poesie, citate nel libro, sono bellissime. Cosa è l’amicizia, lei si chiede ancora, se non una attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro? Cosa è la psichiatria, si chiedeva Manfred Bleuler, un grande psichiatra svizzero, se non dare la mano a una persona fragile che chiede aiuto?
Le cose che ho scritto non colgono se non alcuni aspetti di questo libro, che, nutrito di vita e di passione, di dolore e di mistero, è sorgente di infinite parabole semantiche: ne ho scelto alcune: quelle che ho sentito le più vicine alla mia sensibilità, e alla mia formazione clinica. Ho letto questo libro senza accorgermi del trascorrere del tempo, del tempo dell’orologio, e dell’agostiniano tempo interiore, come avviene quando un libro ci dice qualcosa di nuovo, qualcosa che apre il nostro cuore alla speranza, qualcosa che cambia il nostro modo di vedere le cose, qualcosa che il drago dell’oblio non è in grado di cancellare. La lettura di questo libro, una lettura ininterrotta, mi ha confrontato con le straordinarie doti narrative di Susanna Tamaro, ma anche con le sue intuizioni psicologiche che le hanno consentito di scendere negli abissi della sua interiorità: premessa, questa, alla conoscenza dei modi di essere degli altri, delle loro più profonde radici esistenziali. Un libro sul dolore dell’anima e del corpo, ma un libro (anche) sulla speranza, goethiana stella cadente, che si può scorgere solo se sappiamo accogliere il mistero come dimensione ineliminabile della vita. «Personalmente, non ho mai spento la debole lanterna della speranza. So che nulla è impossibile a Dio, ma so altrettanto bene che i nostri sogni non sono i Suoi sogni, i nostri desideri i Suoi desideri. Farli coincidere è un’umanissima speranza che trova però conferma soltanto in casi straordinari».
Le esperienze di vita di Susanna Tamaro le hanno consentito di scrivere un libro che aiuta a conoscerci meglio, e che ogni persona sensibile al valore della fragilità e della timidezza, della tristezza e della speranza, del silenzio e della grazia dovrebbe leggere e meditare. Sì, un libro di grande slancio narrativo che, vorrei ancora ripeterlo, è la splendida testimonianza di una amicizia, che si fa preghiera come diceva Simone Weil, e che libera dall’egoismo e dall’individualismo, dalla solitudine e dalla indifferenza, dalla insensibilità e dalla perdita della speranza che svuotano di senso le relazioni umane, che sono il fondamento di una vita che riconosca il suo destino nella comunione e nella solidarietà con le persone fragili, e insicure, che hanno bisogno di aiuto, e non sanno chiederlo. Siamo tutti chiamati a riconoscere l’indicibile nel dicibile.