il manifesto 2.11.18
Nell’altro lato del vento, la libertà dell’immaginario
Cinema. Da oggi su Netflix «The Other Side of the Wind», il film incompiuto di Welles, finito da Bogdanovich
di Cristina Piccino
«La
regia è il lavoro più facile del mondo» dice Orson Welles nella
conversazione con Peter Bogdanovich (Il cinema secondo Orson Welles, il
Saggiatore), stanno parlando d’altro ma potrebbe essere The Other Side
of the Wind, il suo film incompiuto – presentato in anteprima alla
Mostra del cinema di Venezia – che arriva da oggi su Netflix senza
appuntamenti anche in sala. Speriamo però che sia gli esercenti italiani
che il colosso dello streaming consentano una circuitazione di questa
magnifica opera anche sul grande schermo, superando le polemiche esplose
intorno alla «questione» Netflix durante il festival veneziano.
La
realizzazione di The Other Side of The Wind,a cui Welles aveva lavorato
tra il 1970 e il 1976, si deve soprattutto all’ostinazione di Peter
Bogdanovich, che ha guidato un magnifico team – al montaggio Bob
Murawski, colonna sonora vertiginosa di Michel Legrand – seguendo gli
appunti e le note di sceneggiatura del suo «maestro» – all’epoca
Bogdanovich era il pupillo di Welles, come il personaggio che recita nel
film. C’era poi il montato, quei cinquanta minuti che Welles aveva
messo insieme prima che il progetto fosse messo da parte definitivamente
nel 1979, quando i negativi erano stati bloccati dal produttore, Mehdi
Bushehri, dopo la rivoluzione iraniana.
SE QUESTO che vediamo oggi
sia il film che il regista di F for Fake aveva in mente non lo sapremo
mai ma poco importa. Così come non è importante l’idea stessa di
finitezza, se sia compiuto o meno, perché The Other Side of the Wind non
può essere finito, la sua materia è il cinema stesso, il suo movimento,
quel divenire che sui bordi dei fotogrammi mette alla prova lo sguardo
delle spettatore e il proprio essere. Film nel film, racconto di una
vita, epico e malinconico, jam session di immagini caustica e
tenerissima contro la «finitezza» della storia, dello script, della
scadenza di un cinema in cui irrompe prepotente la vita, e forse anche
il contrario, legame viscerale, incessante. Infinito, appunto.
Chi
è J.J. «Jake» Hannaford, una leggenda per alcuni, una catastrofe per
altri? I giovani lo adorano, lo inseguono, lo studiano: è un mito. A
rispondere alle loro domande c’è Otterlake (Bogdanovich) il suo
«biografo» ufficiale che ha raccolto centinaia di bobine di
conversazioni, tanto da poter rispondere a ogni domanda.È stato il suo
allievo amatissimo ma ora lo ha superato girando un film di successo –
motivo di contrasto tra i due – mentre Hannaford continua a litigare coi
produttori, è tornato a Hollywood dopo anni in Europa e il film a cui
sta lavorando non avanza.
È il giorno del suo settantesimo
compleanno, l’amica Zarah Valeska (Lilli Palmer) ha organizzato una
festa, sono tutti invitati, giovani fan, critiche acide, personaggi del
cinema, sarà anche l’occasione per mostrare il film a cui sta lavorando.
Tutto verrà registrato, le macchine da presa sono ovunque e sempre
accese, il loro obiettivo è preciso e implacabile come un’arma . Ma cosa
filmano? Cosa è che raccontano? Quale è la verità e cosa invece il suo
paradosso, cosa è riproducibile e cosa invece rimane comunque oscuro?
E
il film? I soldi sono finiti, l’attore protagonista, John Dale è
scomparso. Ci sono un ragazzo, Dale, e una ragazza, la chiamano «la
Meticcia» (è Oja Kodar) sempre nudi. Si inseguono, si guardano, fanno
sesso. Non ci sono parole, solo sguardi, e il ragazzo e la ragazza
-l’inizio di tutte le storie. Un altro uomo geloso li scaraventa nel
fango fuori dall’auto. Intorno alla piscina frammenti di frasi, il
cinema, fare cinema, criticare il cinema. Hannaford sembra più
interessato a una ragazzina, la ascolta nei suoi progetti, ha la faccia
magnifica di John Huston, sigaro e alcol. «Ho invitato i giovani perché
Zarah vuole che io conosca le nuove generazioni» dice.
La notte
rotola, l’elettricità salta, si accendono le candele per la torta, la
fine sarà l’alba in un drive in (L’ultimo spettacolo?) alla ricerca di
uno schermo per quel film senza fine, e alla fuga del protagonista il
regista risponde urlando nel megafono: «Lasciatelo andare!».
ALL’INIZIO
Welles voleva fare un film «alla Godard», una specie di versione
ironica della Nouvelle Vague – «Bertolucci è sempre un mangia spaghetti»
commenta a un certo punto Hannaford. Ma The Other Side of the Wind col
suo lisergico passaggio tra bianco e nero e colore, 35 millimetri e 16
millimetri, zoom impazziti diviene il racconto commuovente e magnifico
del regista e dell’intimità di un fare cinema che sfugge alle regole e
alle imposizioni, che è lotta, fatica, follia. Quasi una autobiografia
(o un’autofinzione) attraverso il fare-cinema, i film di un regista che
non teorizza – come invece i più giovani che lo circondano: tutto è lì,
«la regia è una cosa semplice».
La società dello spettacolo e lui,
Orson Welles senza retorica né moralismi, in quel flusso di immagini
parole davanti allo schermo vuoto. Battaglie e ambiguità. Tattiche e
strategie, ai finanziatori non si deve mai dire di avere bisogno di
soldi quando si chiedono fa dire Welles al suo alter ego
Huston/Hannaford.
DISCORSI su dio che è donna, sull’amicizia che
come i film è una cosa pericolosa. È un viaggio nei film di Welles
attraverso i luoghi e le immagini che li compongono, un gioco di specchi
– e non solo gli infiniti riflessi della Signora di Shangai – tra il
deserto, Shakespeare, Otello in cui si riflette insieme al passato della
propria opera una consapevolezza che forse tutto questo è già altrove,
studiato, amato, archiviato.
Eppure la questione è ancora la
stessa, cosa funziona – secondo leggi del momento – e cosa no, cosa
asseconda le mode e cosa le rifiuta. La libertà dell’artista e la sua
indipendenza, l’immagine e la sua forma che può moltiplicarsi
all’infinito