La Stampa 22.1.18
La Via della Seta in Italia le mani cinesi su Trieste
di Paolo Possamai
Via
della Seta. Nome morbido. Ma sostanza molto hard nello schema
geopolitico che oppone Cina e Stati Uniti per il dominio del mondo e in
specie per l’egemonia commerciale sull’Europa. Perché la Via della Seta
punta a entrare nel cuore del Vecchio Continente, usando i varchi di
accesso dei porti di Trieste e di Venezia. Lo dicono gli investimenti in
atto e in programma.
Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità
portuale di Trieste e Monfalcone, ha veicolato tramite Asia Times una
tesi molto essenziale: «Il Porto di Trieste necessita di 1,2 miliardi di
dollari di investimenti per sostenere il suo sviluppo, particolarmente
nelle nuove zone franche. Investitori cinesi stanno trattando per
coprire metà dei costi, anche se altri operatori stranieri hanno
mostrato interesse da Kazakhstan, Azerbaijan, Turchia, Iran e Malesia».
I
capitoli di sviluppo del porto giuliano sono legati ai nomi dei moli e
di aree dismesse da decenni. Partita che potrebbe dare un orizzonte di
sviluppo formidabile a una città altrimenti in declino. «Stiamo
combattendo il declino – dice D’Agostino – e lo dicono numeri che ci
proiettano a essere l’undicesimo porto europeo per volumi. Siamo
diventati attrattivi e competitivi perché sotto a una sola autorità
offriamo un sistema logistico integrato, fatto di banchine, interporti,
zone franche, servizi ferroviari».
Il bacino non è l’Italia
La
vera intuizione di D’Agostino, che da un paio di settimane è anche
vice-presidente di European Ports Organisation, consiste nell’aver
riconnesso lo scalo al suo vero bacino, che non è l’Italia ma i mercati
europei centro-orientali. Lo sanno bene i cinesi. E ha rimesso in
funzione la rete dei binari posati dall’impero asburgico, raddoppiando
in un paio d’anni il volume dei treni che portano in Germania, Polonia,
Repubblica Ceca, Ungheria. Tant’è che Viktor Orban, qualche giorno fa,
ha dichiarato che l’Ungheria punta sul rapporto con Trieste e si sfila
invece dal co-finanziamento della ferrovia collegata al porto sloveno di
Capodistria. Mosse che ai cinesi non sfuggono, naturalmente. Così che
non sorprende vedere tanti orientali intenti a studiare le carte
portuali triestine. Perché risponde al criterio base degli investitori
cinesi, racchiuso nell’acronimo Ppc: port, park (aree industriali),
city. Significa che tutto il contesto deve essere attrattivo. Ecco
perché guardano al raddoppio del Molo VII, terminal contenitori che
richiede 200 milioni di euro di investimento e che per 60 anni è in
concessione a una società al 50% di Msc (Aponte) e al 50% della To Delta
di Pierluigi Maneschi. Un primario global contractor cinese sta
trattando per entrare, con una quota di minoranza, in To Delta.
«In
generale – commenta D’Agostino – rifiutiamo investitori solo
finanziari. Prediligo chi porta traffici e si assume il rischio di
costruire l’infrastruttura. Banche e fondi di investimento alla porta ne
abbiamo a iosa». Tesi che va tenuta a mente per definire le regole del
gioco. In questione ci sta l’interesse di China Merchants Group (Cmg),
ma anche di Dubai Port World (Dpw gestisce 78 terminal in giro per il
mondo) per le numerose operazioni in atto: Piattaforma logistica (20
ettari), futuro Molo VIII, area Teseco (ex-raffinerie Aquila, 40
ettari). Senza dire che pure il sito della storica Ferriera di Servola,
già Italsider e oggi parte del gruppo Arvedi, è in predicato di essere
riconvertita a funzioni logistiche (60 ettari).
Il capitolo più
vicino consiste di sicuro nella Piattaforma logistica, cantiere che sarà
concluso entro metà 2019 e attualmente in mano a San Servolo Docks
controllata da Parisi Group e Icop. In pole position per rilevare la
maggioranza ci sta oggi Cmg, che poi potrà candidarsi a costruire e a
gestire il colossale Molo VIII (più che doppio rispetto al Molo VII).
«Ma vorrei sottolineare – dice ancora D’Agostino – che a parte
infrastrutture adeguate a traffici destinati a crescere nei loro piani
esponenzialmente, gli investitori cinesi o degli Emirati Arabi vedono in
Trieste l’opportunità di zone industriali prospicienti al mare, dotate
di zone franche e di snodi logistici efficienti. Insomma un ecosistema
armonico e ben regolato ove insediare i loro partner».
Un grande
gioco a incastro, con l’intervento di interessi di scala globale, sta
partendo nell’area portuale triestina. Al punto che un pezzo di città
dove sta la Ferriera potrebbe cambiare destino. «Il piano di espansione
portuale, e in particolare la necessità di un’area ove attrezzare treni
da 750 metri, ci spinge a trattare per l’area della Ferriera. Ne abbiamo
bisogno a prescindere dai cinesi» dice ancora D’Agostino. Toccherà a
Giovanni Arvedi decidere, ammesso intenda chiudere l’altoforno, se
mantenere il laminatoio o abbandonare del tutto l’impianto. Anche su
questo capitolo sono concentrati interessi che hanno il loro quartier
generale a Hong Kong.
L’errore del Pireo
Anche i cinesi
sbagliano. Così quando China ocean shipping company (Cosco) nel 2008 ha
rilevato per 4,3 miliardi di euro la gestione del Porto del Pireo ha
sbagliato la porta di ingresso all’Europa. Avevano pensato che il Pireo
fosse la via per il mercato più grande e ricco del pianeta, porto di
testata della loro Maritime Silk Road Initiative. Ma disgraziatamente le
ferrovie e le autostrade nei Balcani sono ancora materia grezza e
incerta. E così ecco che divengono fondamentali i porti del Nord
Adriatico.