Il Fatto 22.11.18
Nell’imbuto umano di Tijuana
Messico - In
città i migranti sono 9 mila. Al terzo giorno di arrivi, i locali si
riuniscono in chiesa: “Aiutarli? Il denaro serve ai nostri ospedali”
di Mariana Martínez Esténs
Tijuana
è una città di cambiamenti, contrasti e grandi movimenti di persone.
Così è nata e su quest’onda ha proseguito la sua breve ma convulsa
esistenza. Eppure questi ultimi sono stati giorni di prime volte: per la
prima volta dopo anni si è svegliata con la garitta di San Ysidro – la
torre di controllo più attraversata del mondo – chiusa. Il che ha creato
gravi disagi ad almeno 50 mila persone che quotidianamente passano di
lì per andare a scuola o al lavoro.
L’esodo di rifugiati
centroamericani – erroneamente definito carovana –, è costituito per lo
più da cittadini dell’Honduras. Stando ai dati del consolato honduregno,
a Tijuana sarebbero arrivati 5 mila connazionali e se ne aspettano
altri 9 mila nelle prossime settimane.
Perché scelgono Tijuana?
Anche se raggiungerla significa oltre mille chilometri in più, continua a
essere quella con più infrastruttura: dagli alloggi ai posti di
identificazione, alla quantità di agenti addetti all’immigrazione.
Inoltre qui è molto più basso il rischio di rapimenti da parte di bande
criminali, se confrontata con la rotta del golfo che passa per gli Stati
di Veracruz e Tamaulipas. Questo nonostante Tijuana stia passando uno
dei peggiori momenti della sua storia quanto a omicidi, con 7 assassinii
giornalieri di media e un sindaco indolente che risponde che gli
omicidi “non sono una priorità in agenda” a differenza dell’arrivo dei
centroamericani. “Queste persone si presentano qui con atteggiamento
aggressivo, cantando, minacciando le autorità, facendo cose a cui gli
abitanti di Tijuana non sono abituati”, ha spiegato il sindaco Juan
Manuel Gastelum, soprannominato “El Patas” (satana, ndt), “tutto il
Messico deve sapere che noi ne abbiamo abbastanza… alcuni di loro sono
pigri, drogati… che roba è questa?”. Le sue dichiarazioni gli sono valse
la risposta via Twitter di Trump: “Come Tijuana, gli Stati Uniti
neanche sono pronti a questa invasione e non la sosterranno. I migranti
stanno commettendo crimini e creano gravi problemi in Messico. Devono
tornare a casa!”
L’arrivo: l’11 novembre è arrivato a Tijuana un
gruppo di 77 membri della comunità Lgbtq, che con l’aiuto di donazioni
private ha affittato delle case su Airbnb nella zona residenziale vicina
a “la Playa”. I residenti li hanno accolti urlando. “Certo che ho una
casa”, risponde Cesar Mejía, attivista honduregno e leader Lgbtq, “ma
lei vuole che mi uccidano?”. Il giorno dopo sono arrivati in autobus
altri gruppi, scortati dalla polizia federale e da associazioni per i
diritti umani: quasi 5 mila persone che si vanno a sommare alle code di
2600 richiedenti asilo provenienti anche da spostamenti interni di
persone in fuga dalla violenza in altre regioni del Messico. Circa 100
migranti – per lo più giovani uomini – hanno scelto di dormire in
spiaggia per non andare negli accampamenti già stracolmi.
La terza
notte gli abitanti della zona residenziale si sono riuniti di fronte
alla chiesa. Una piccola delegazione è andata a protestare al
commissariato di polizia e alla fine un centinaio di loro, infervorati, è
tornato in spiaggia ad affrontare a brutto muso i migranti perché
risalissero sugli autobus e se ne andassero. “Siamo una piccola
comunità, quasi familiare, molti lavorano a San Diego, in California e i
migranti ci stanno creando problemi quando usciamo con i bambini, ci
sono persone che si drogano, altre defecano per strada”, dice Jahanna
Pérez, una oculista che manifesta. “Non sono arrivati medici, avvocati,
ingegneri, ma il peggio di quei Paesi, gente senza istruzione”. Il
giorno stesso degli scontri a Playa è stato impedito l’ingresso ad
autobus con 800 migranti, che sono stati fatti scendere al mattino
presto in mezzo alla strada. “È dura, soprattutto perché ci sono molte
donne e bambini”, spiega Narylin Cabrera, che racconta di aver preferito
passare la notte sul ciglio della strada e riprendere il cammino il
giorno dopo.
Il Comune ha aperto un centro sportivo vicino alla
frontiera dove circa 3 mila migranti dormono in prefabbricati o in
giacigli improvvisati da loro con coperte e corde. Qualcuno addirittura
ha approntato dei veri rifugi con rami secchi. L’accampamento ha un solo
bagno e visto che si tratta di distribuire cibo al meno due volte al
giorno, non può reggere. Il sindaco e il governatore lamentano di non
aver ancora ricevuto denaro dal governo federale. Si prevede che i
richiedenti asilo passeranno dai 6 ai 18 mesi in città, mettendo
un’enorme pressione allo Stato, al Comune e alla rete dei migranti. Le
autorità stanno ricevendo gruppi da 80 o 90 richiedenti asilo al giorno.
Di questo passo secondo il monitoraggio del sito Trac, solo tra il 4 e
10% riuscirà ad accedervi. “Sono arrivato in autobus per iscrivermi alla
lista di richiedenti asilo”, dice Tomás Torres, salvadoregno arrivato
con l’esodo, “ho preso il numero 1300 e mi hanno detto che aspetterò un
mese, un mese e mezzo solo per poter presentare domanda”. Hanno
organizzato anche una fiera del lavoro e l’ambasciatore di Honduras in
Messico promette di aprire un consolato mobile per identificare i
cittadini.
Lo scontro. Domenica mattina presto, circa 500 persone
si sono date appuntamento nel centro finanziario della città per
manifestare fino all’accampamento nel quale si trovano 2300 persone, tra
cui 300 bambini. Una volta arrivati al campo i 200 manifestanti hanno
provato a entrare con la forza. Tra di loro c’erano anche personaggi
noti per la loro radicalizzazione. Questi agitatori di professione fanno
leva sullo scontento sociale di persone come Bertha Alicia Rodríguez,
infermiera con 21 anni di servizio. “Non vogliamo altri migranti, non ne
possiamo più di violenza, se ne vadano pacificamente, auguriamo loro
ogni bene, ma nel proprio Paese. Undici milioni di pesos per risolvere i
loro bisogni? Perché non li impieghiamo negli ospedali, non abbiamo
niente, neanche le garze”, assicura Rodriguez con un cartello che dice:
“Basta migranti”.