La Stampa 22.11.18
Il popolo è diventato una fiction
La democrazia diretta e gli altri miti d’oggi
E i populisti fabbricano la neolingua
di Massimiliano Panarari
E
dunque, che cosa è attualmente il popolo? Oggi, come nel momento
storico della Rivoluzione francese, rappresenta un’astrazione e una
fictio (ovvero, se si preferisce, una fiction) di cui si servono la
teoria politica e la dottrina giuridica per fondare la categoria di
sovranità e la logica di funzionamento delle istituzioni. E, oggi, come
allora, costituisce un terreno di battaglia politico (e di distorsioni e
manipolazioni) rispetto al quale i neopopulismi hanno individuato il
proprio vessillo nel maggioritarismo estremo. Che, nel nome della più
nobile e gloriosa delle poste in gioco (la rappresentanza democratica)
viene esteso in modo indebito e assolutistico facendo coincidere la
volontà della maggioranza – o presuntamente tale, appunto – con quella
generale di «tutto un popolo».
Peggio per le minoranze
Se le
minoranze non la pensano così, e vogliono restare tali non
conformandosi, peggio per loro, perché l’opinione pubblica si esaurisce
de facto e in maniera consustanziale in quella della maggioranza.
Quindi, zitte e mosca! Ed ecco così che la «totalità» (organicistica)
del popolo viene a identificarsi con i propri rappresentanti populisti,
che diventano i soli legittimati a parlare in nome e per conto del
popolo tutto in quanto (sedicente) «comunità organica».
E lo
fanno, spesso, utilizzando un linguaggio creato ad hoc, perché quando un
nuovo regime si insedia istituisce una neolingua, con la finalità di
renderla l’idioma unitario del proprio (neo) popolo. Questa, come noto,
rappresenta una delle intuizioni più durature di 1984 di George Orwell,
la cui validità è stata ampiamente certificata dal marketing politico,
dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive, che hanno dimostrato che
si può vincere alla grande una campagna elettorale (e mantenere il
consenso) proprio cambiando radicalmente i significati del lessico della
politica e imponendo un’egemonia linguistico-culturale che obbliga gli
avversari a inseguire da una posizione di debolezza e subordinazione. La
narrativa populista ha sposato questa forma estrema di soft power
(fondamentalmente brevettata a partire, seppure con tonalità diverse,
dal reaganismo), che viene miscelata con i precetti dello spin doctoring
e veicolata molto efficacemente attraverso i social media.
Ricostruzione delle parole
Difatti,
precisamente una neolingua è quella che viene dispiegata, giorno dopo
giorno, dai due populismi postmoderni arrivati al governo dell’Italia,
quello nazional-sovranista della Lega e quello
camaleontico-postideologico del Movimento 5 Stelle, ambedue
dichiaratamente «anti-sistema», e quindi impegnati a edificare – in
maniera tra loro competitiva – un altro sistema (semantico), servendosi
anche (e meticolosamente) della ricostruzione delle parole e della
incessante fabbricazione ex novo dei frame linguistici.
La
neolingua orwelliana si basava sui principi della semplificazione e
della limitazione delle alternative – esattamente come avviene nel
discorso pubblico populista basato sulla polarizzazione, dove ogni
tematica complessa viene sottoposta a un processo di riduzione ai minimi
termini e di banalizzazione. E dove ci si deve schierare «con noi, o
contro di noi»; una dicotomia obbligata e un manicheismo coatto in cui
il «noi» evocato a ogni piè sospinto coincide in maniera alquanto
plastica con l’ipostatizzata comunità organicista del popolo. Ragione
per la quale chi non supporta le misure dell’esecutivo italiano
legastellato – e, più in generale, chi non condivide le ricette
populiste – finisce per essere relegato a una condizione di nemico a
tutti gli effetti.
In primo luogo, perché la polarizzazione anche
linguistica si tinge di una connotazione moraleggiante, come nel caso
della campagna anti-casta per antonomasia, quella riguardante i
vitalizi. E come nella formulazione lessicale del «decreto dignità» del
vicepresidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico, Lavoro
e Politiche sociali Luigi Di Maio, la quale rimanda nuovamente a un
piano etico e metapolitico che risulta centrale nell’ideologia sottile
del populismo.
La neolingua legastellata, infatti, batte e ribatte
sempre sul livello simbolico (e il «muscolarismo»), che per il
populismo è assai più rilevante delle politiche concrete. E lo mostrano,
in modo inequivocabile, tutti i suoi architravi: le idee forza (la
legittima difesa quale «valore non negoziabile» e l’«abolizione della
povertà» tramite il cosiddetto reddito di cittadinanza), le ostentazioni
di virilità nelle relazioni internazionali (l’Italia che è «stata un
po’ prepotente», ma vincente nei confronti dei partner Ue, a detta del
premier Conte, con riferimento a uno dei vari summit tenutisi tra
Bruxelles e Strasburgo), le frasi ruvide da bar sport elevato da
refugium peccatorum dei commenti a sproposito ad apparato ideologico e
gli slogan pensati come tweet o soundbite televisivi: «La pacchia è
strafinita» pronunciato da Salvini a proposito di migranti, profughi e
clandestini infilati tutti nello stesso mucchio, facendo di tutta l’erba
un fascio.
Rovesciamento dei significati
Oppure il «vive su
Marte» indirizzato al non allineato presidente dell’Inps Tito Boeri; le
proiezioni utopico-futuristiche (o, se si preferisce, le fughe in
avanti, come la delega ministeriale alla democrazia diretta o la
mezz’ora gratis di Internet «per i poveri»); la scelta programmatica del
politicamente scorretto e la polemica costante verso i «buonisti» (come
le Ong); l’abilità nel rovesciamento dei significati («risorsa» che, da
contributore straniero della previdenza nazionale, si converte nella
sarcastica etichetta salviniana per indicare lo squilibrato nigeriano
che ha assassinato un anziano a Sessa Aurunca nel luglio 2018). Sempre, e
rigorosamente, all’insegna della logica della campagna elettorale
permanente nella quale tendono a moltiplicarsi esponenzialmente i
fattoidi (i cosiddetti «fatti alternativi»), la cui verosimiglianza
frutto di manipolazione risulta inversamente proporzionale alla
veridicità dei fatti autentici.