giovedì 22 novembre 2018

il manifesto 22.11.18
L’«ars combinatoria» della moltitudine
Tempi Presenti. A partire da «Assemblea», di Toni Negri e Michael Hardt (Ponte alle Grazie)
di Marco Bascetta


Il tempo e lo spazio è quello dell’Impero, la complessa articolazione politica del capitalismo globale e dei suoi dispositivi di governo; il soggetto è la moltitudine, dimensione collettiva di una molteplicità irriducibile e polifonica di soggetti; la premessa della liberazione nonché il suo fine è il comune, destinato a scardinare il duopolio esercitato dalla proprietà privata e dallo stato. Nel quadro tracciato dalla trilogia di Toni Negri e Michael Hardt, a partire dal 2002, si tratta ora di mettere a punto gli strumenti della politica e dell’azione, di farli scaturire dalla realtà del mondo contemporaneo, dalla sua totalità sociale, ordinandoli in una prospettiva di trasformazione radicale. Di dare, insomma, fisionomia, sulle orme di Machiavelli, a un nuovo «Principe», inteso non come uomo della provvidenza, ma come metodo e intelligenza collettiva, capace di combinare fortuna e virtù, potenza ed effettività, democrazia e potere.
A QUESTO COMPITO si accinge Assemblea, l’ultimo lavoro dei due autori (Ponte alle Grazie, pp.440, euro 28,50). Un compito tutt’altro che semplice, molto più simile all’inizio di un viaggio avventuroso che non alla sua conclusione. L’avvio dell’esplorazione di una politica possibile, finalmente privata della sua autonomia e di gran parte degli strumenti, la nazione, la sovranità, l’unitarietà del popolo, che la modernità le aveva messo a disposizione. E che tuttavia sopravvivono attraverso varie metamorfosi, spesso in forme oppressive e violente, all’esaurimento del loro ciclo storico progressivo. È soprattutto guardando «dal basso», dal tessuto del lavoro vivo, sostengono Negri e Hardt, che questo esaurimento e le nuove vie imboccate dall’accumulazione capitalistica vengono più nitidamente alla luce. Ma con esse anche le impasse, le strettoie, le battute di arresto dei movimenti sociali, la difficoltà di consolidare i risultati conseguiti, di mantenere il controllo sull’innovazione e sulla ricchezza prodotte dalla circolazione del sapere, da una fitta interazione di soggettività, dalla condivisione delle esperienze e delle sensibilità e, infine, l’incapacità di stabilizzare le nuove forme politiche democratiche prodotte dalle lotte (sotto osservazione è soprattutto, nei suoi caratteri inediti, il ciclo del 2011, da Gezi Park alle acampadas spagnole, da Zuccotti Park alle primavere arabe).
Il problema può essere formulato in diversi modi, uno dei quali è il rapporto tra la dimensione orizzontale della moltitudine che produce il comune e quella verticale dell’organizzazione, la capacità cioè di prendere decisioni, di chiamare a raccolta la pluralità dei soggetti (assemblea) nell’affrontare le urgenze del momento, nel conferire durata e consistenza al contenuto delle lotte. Ma senza però ricadere in quella distanza tra governanti e governati che è l’essenza della sovranità. Senza generare una leadership che si costituisca stabilmente come coscienza separata dei movimenti e loro guida, che questo avvenga nella forma della rappresentanza o in quella del carisma.
LA FORMULA che i due autori adottano per scongiurare questa involuzione è un rovesciamento del rapporto classico tra tattica e strategia. Quest’ultima spetterebbe infatti alla moltitudine e ai movimenti che in essa prendono vita, mentre la tattica, l’azione contingente, dovrebbe affidarsi all’organizzazione intesa come una dimensione intelligente di servizio e di tenuta. Questo rovesciamento è reso possibile dal fatto che a produrre nuova società non è l’impresa del capitale e nemmeno la coscienza di un’avanguardia che ne penetra le contraddizioni, ma quella cooperazione sociale che costituisce la vita della moltitudine e, per così dire, il suo rapporto con sé stessa, nonché il suo perenne conflitto con i dispositivi dell’accumulazione. La quale però non può più separare la potenza dell’interazione dalle soggettività che la esercitano, come ancora poteva il padrone della fabbrica con la forza combinata dei suoi operai, pena prosciugare la sua stessa fonte di ricchezza, il territorio preso di mira dalla sua vocazione di predazione coloniale. Non può sottrarre, ma può estrarre la ricchezza sociale così come estrae le materie prime sepolte sotto la superficie del pianeta. Il senso dell’affermazione «il comune viene prima» risiede qui. Nel fatto che è la cooperazione sociale a fare impresa ed è la dimensione collettiva, non gli individui in competizione fra loro, la vera imprenditrice di sé stessa.
NELLA MOLTITUDINE intraprendente, dunque, e nella produzione del comune è racchiusa la visione strategica di una nuova società non astrattamente utopica, ma radicata nella prassi della cooperazione. Tuttavia, di fronte alla difficoltà del comune di sottrarsi ai dispositivi di cattura del capitale estrattivo e di tradursi in autogoverno converrà domandarsi se il rapporto tra il comune prodotto dalla cooperazione sociale e l’appropriazione capitalistica sia poi così lineare come lo è lo sfruttamento delle risorse minerarie. Se anche il comune «viene prima», una volta «estratto» esso può essere riproposto come «a priori» nella forma che l’appropriazione capitalistica intende imprimergli, riaffermandosi così come condizione ineliminabile della produzione di ricchezza. In termini astratti, il capitalismo delle piattaforme, i suoi algoritmi, i suoi network, i suoi strumenti tecnologici, organizzativi e amministrativi possono agire come categorie trascendentali che tracciano a priori i confini entro i quali la produzione di soggettività può essere detta, agita, esperita e infine sfruttata. Il mondo fenomenico ricadrebbe così sotto la legge del capitale che, superando i suoi caratteri puramente «estrattivi», tornerebbe a dettare le condizioni del possibile.
PER RESTARE dentro la suggestione kantiana dovremmo allora pensare lo scarto, l’eccedenza, l’imprevedibilità e l’autonomia del comune come una sorta di noumeno resistente alla fenomenologia del capitale, ma senza il quale l’intero sistema, così come l’impianto della critica kantiana, crollerebbe su sé stesso. Ovviamente non parliamo di uno spettro metafisico che vive solo della sua pensabilità, ma di una materialità della vita collettiva e dell’interazione tra i singoli che i dispositivi dell’accumulazione non riescono a inquadrare e trattenere entro i propri schemi. E che, però, non può isolarsi nella sua purezza come perenne dimensione di alterità e di resistenza senza riappropiarsi anche delle condizioni del pensiero e dell’azione che sono state trasformate in capitale fisso.
VI È PERÒ UN PROBLEMA, o piuttosto una sensazione che accompagna insistentemente il lettore di Assemblea lungo le molte diramazioni nelle quali si sviluppa l’argomentazione dei due autori. E cioè che questo scarto, questa irriducibilità della moltitudine sfugga in un certo senso alla moltitudine stessa. Che essa risulti imprevedibile e indefinibile anche a sé stessa. E che questo la ostacoli nel farsi potere, costringendo nell’implicito la capacità strategica che le viene riconosciuta. Può apparire un grave limite politico e un fattore di confusione, ma si tratta in fondo del paradosso di tutte le strategie di libertà, sempre aperte, sempre resistenti a ogni tracciato lineare, anche quando convergono per propria natura, ontologicamente direbbero gli autori, verso l’orizzonte del comune. Ed è proprio in questa apertura, estranea a ogni prescrizione dottrinaria, a ogni imposizione teleologica, ma radicata nella pratica delle relazioni e interazioni che Negri e Hardt fanno risiedere la capacità strategica della moltitudine. La politica del «nuovo Principe», allora, non si traduce in una linea di condotta, in un percorso obbligato verso la rivoluzione, ma in una ars combinatoria che attraversa forme diverse dell’agire politico e sociale: l’esodo dall’ordine sociale e produttivo imposto dal capitale; il riformismo antagonista, che a differenza da quello servizievole delle morenti socialdemocrazie, incalza le istituzioni sul terreno di una restituzione della ricchezza, di una ripresa del controllo democratico sulle risorse del comune; infine l’esercizio di una egemonia e del potere che ne discende sull’insieme della società. Nessuna di queste forme è però autonomamente risolutiva.
NON LA PREFIGURAZIONE su scala ridotta di nuovi rapporti sociali che convive con l’ordine dominante, non la «lunga marcia attraverso le istituzioni» che rischia di perdersi per strada, non una presa del potere che potrebbe finire con l’imitare e riprodurre le tradizionali prerogative della sovranità. Vecchie contrapposizioni che hanno lungamente infelicitato la vita dei movimenti vengono a cadere (riforma e rivoluzione, economia e politica, spontaneità e organizzazione, realismo e utopia) per sciogliersi nella politicità della dimensione sociale.
In un percorso così composito e accidentato, così dipendente dall’inventiva e dalla sperimentazione nulla è teleologicamente garantito. E non è un caso che gli autori evochino alla fine il pari di Blaise Pascal, una scommessa senza rete, che ha però in palio da una parte il nulla e dall’altra la pienezza dell’essere.