La Stampa 21.11.18
Quattro ore di terrore in un garage
Baby gang tortura un quindicenne
Calci, pugni e coltelli: sequestrato da quattro coetanei per strappargli informazioni su un amico
di Emilio Randacio
«Non
si scherza con la mia family». Il profilo sui social è da subito
minaccioso. «Se fai il grosso ti spegniamo»; si capisce, è un tipo con
cui non si può scherzare. Un vero bullo. La sua foto è ancora più
sfrontata: un ragazzo che a stento dimostra i suoi quindici anni, fissa
l’obiettivo fumando una sigaretta. È lui il capo della banda.
Periferia
ovest di Varese, prefabbricati e condomini in fila. Il suo nome non si
può fare, ma da queste parti, chi frequenta la scuola media, lo conosce
bene. E, soprattutto, lo teme. La sua famiglia proviene da un Paese del
centro Africa. Diverse segnalazioni, nessun precedente, e a scuola già
due bocciature. Secondo le accuse, sarebbe lui l’ispiratore del raid
che, venerdì 9 novembre, ha portato al sequestro di un suo coetaneo. Un
giovanissimo preso a caso, probabilmente, dal mucchio di ragazzini che
di solito dal piccolo boss e i suoi amichetti, cercano di stare alla
larga. Giovanni (nome di fantasia per tutelare i suoi anni e un trauma
psicologico da cui non si è ancora ripreso) frequenta un istituto
professionale. Quel venerdì, all’una, sta andando a scuola a prendere un
amico. «Erano d’accordo di andare a pranzo in un fast food», racconta
l’avvocato di famiglia, Augusto Basilico. Ma davanti alla scuola, mentre
sta ancora aspettando, Giovanni viene circondato. Loro sono in quattro,
hanno la sua stessa età ma sembrano più grandi, più decisi, lo
minacciano. E lui è costretto a seguirli in un garage di un casermone
popolare. Sopra c’è l’appartamento del capo. Ci vive anche la nonna e
due rottweiler.
Passeranno circa quattro ore prima che Giovanni
riesca a tornare a casa. I bulli gli chiedono informazioni su un
compagno di scuola da cui «piangono» 30 euro, forse per del «fumo» non
saldato. Ma sembra un pretesto per iniziare un gioco tanto macabro
quanto violento. Nel suo racconto ai genitori, Giovanni non ricorda
tutto. «Deve aver perso anche conoscenza», sottolinea il padre nella
denuncia. Oltre al capo, ci sono un ragazzo albanese e due italiani. Gli
puntato un coltello alle gola, lo minacciano con un una bomboletta
infiammabile spray e un accendino, gli levano le calze e gli colpiscono
il collo del piede con una spranga, lo prendono a calci. Ma Giovanni non
sa cosa dire, non vuole tradire l’amico. E allora il “capo” gli strappa
un orecchino e lo indossa come un trofeo. Il giovane viene spogliato
sul pavimento del garage e cosparso con dosi massicce di acqua e sapone.
Lo studente timido, senza problemi a scuola, non risponde più , è
annichilito, sotto choc. I quattro quindicenni si accendono anche degli
spinelli e costringono Giovanni a fumare.
«Mio figlio non ne ha
mai fatto uso», giura ora il padre distrutto dal dolore. Il capo, non
contento, decide di salire in casa e prendere i cani, poi desiste. Prima
di rilasciare il coetaneo la banda lo minaccia: «Se racconti qualcosa a
qualcuno, noi andiamo in riformatorio, ma quando usciamo ti uccidiamo».
Prima di lasciarlo andare, gli prendono il cellulare e i soldi che
tiene nella custodia dello stesso.
Sono passate da poco le 17
quando Giovanni rientra a casa. Ha segni sul corpo, una pedata sulla
giacca, è sfinito e spaventato. Ma trova il coraggio di raccontare tutto
alla madre. I genitori da tre anni si sono trasferiti a Varese, fanno
gli operai. Gente per bene, senza ombre nella vita. Giovanni viene
portato subito al pronto soccorso. Il referto parla di 15 giorni di
prognosi. Ma sono le ferite dell’anima quelle che pesano davvero. Così
Giovanni, dimesso dal pronto soccorso, il lunedì successivo, in preda
agli attacchi di panico, viene ricoverato nel reparto di
neuropsichiatria infantile. «La notte non dormiva per gli incubi, si
svegliava e urlava», racconta ancora il padre. Giovanni verrà dimesso
cinque giorni dopo, ma la guarigione non è ancora arrivata. Serviranno
mesi prima di riuscire a mettersi alle spalle questo trauma. Anche
perché la banda di quindicenni nel frattempo non dimentica. Questa
settimana sul profilo social di Giovanni arriva un video. Nello stesso
garage delle torture, il capo e il coetaneo albanese, fumando uno
spinello lo avvertono ancora, mostrandogli un coltello e garantendogli
vendetta se parla. Citano il fratello di Giovanni come possibile
vittima.
La Questura di Varese indaga, il branco viene
identificato e gli atti trasmessi al Tribunale dei minori di Milano: più
che di un gruppo di spacconi minorenni, raccontano le gesta di un clan
della mala. Sequestro di persona, rapina, lesioni gravi e minacce le
ipotesi d’accusa. «No comment» è il mantra dei pm, innervositi dalla
fuga di notizie. Il padre di Giovanni è ancora scosso. «Siamo distrutti e
preoccupati per nostro figlio». Ma non vuole sentir parlare di
vendetta. «Solo giustizia e una pena esemplare per quello che è
successo». Spiega «di non aver mai pensato di risolvere la vicenda
andando a trovare personalmente quei ragazzi, non sarebbe servito a
nulla. Ma, ora, mi aspetto delle risposte»