La Stampa 20.11.18
La Costituzione figlia delle bande partigiane
E gli italiani si ripresero la sovranità
La tesi dello storico Giuseppe Filippetta:la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti
di Giovanni De Luna
Alla base della nostra Costituzione ci sono i lavori dell’Assemblea Costituente che recepirono le indicazioni dei partiti politici, ricostituitosi dopo venti anni dittatura; prima della verifica elettorale del 2 giugno 1946, i partiti trovarono la loro legittimazione nella Resistenza e nella lotta armata contro i nazisti e i fascisti; la ottennero grazie all’efficacia del rapporto che furono in grado di instaurare con le bande partigiane e con le istanze di sovranità dal basso che furono da esse avanzate; queste istanze furono il frutto della scelta di impugnare le armi che - nello sfacelo dello Stato seguito all’8 settembre 1943 e nell’assenza di una sovranità statuale accettata e riconosciuta - portò decine di migliaia di italiani a riappropriarsi della propria sovranità individuale, così da attribuire alla loro esperienza armata un immediato e spontaneo «potere costituente»
Tutto cominciò l’8 settembre
L’estate che imparammo a sparare, il libro di Giuseppe Filippetta in uscita giovedì per Feltrinelli (pp. 300, € 22), scandisce questi passaggi, proponendo un’interpretazione della lotta partigiana innovativa sul piano storiografico, originale su quello giuridico. La sua tesi infatti è che la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti, ne scolpì i caratteri originari e, anche se fu recepita solo parzialmente nel testo definitivo, si propone oggi come il lascito civile e istituzionale più significativo della Resistenza. Per argomentare questa posizione, si affida a una ricognizione attenta e partecipe di tante storie personali «minuscole e potenti, grandiose e comuni, differenti e uguali», scruta nelle fonti più disparate, quelle letterarie e quelle «ufficiali», oltre a studiare con grande efficacia il dibattito che coinvolse allora i giuristi, complessivamente orientati a trascurare la portata costituzionale della lotta partigiana.
Tutto cominciò quindi l’8 settembre 1943. Nel vuoto istituzionale e politico spalancatosi dopo la dissoluzione dell’esercito regio, chi decise di combattere, armato, contro i tedeschi e i fascisti, scelse la strada di un impegno volontario e pieno di rischi, dando inizio a un percorso in cui i singoli individui si riappropriarono della libertà, ma soprattutto di una sovranità non più delegata a uno Stato che non c’era più. Fu una scelta che portò a riconquistare anche la propria autonomia individuale, nutrita dalla consapevolezza di poter decidere da soli il proprio destino e quello degli altri. In questo senso, i partigiani furono non politicamente, ma «giuridicamente» rivoluzionari.
L’inizio del nuovo Stato
Queste spinte trovarono un loro primo ambito organizzativo nella banda partigiana. Anni orsono, un grande storico come Guido Quazza la definì un «microcosmo di democrazia diretta», insistendo sul rapporto di fiducia tra i comandanti e i propri uomini, sottolineandone le differenze con la disciplina del vecchio esercito sabaudo; oggi Filippetta precisa quella definizione, indicandola come il primo segmento istituzionale del nuovo Stato. Nella «banda», infatti, la scelta sovrana dei singoli partigiani, attraverso la partecipazione e l’autogoverno, si misurò con compiti e obiettivi che andavano oltre gli aspetti militari di quella loro esperienza; si trattava di gestire - insieme alle armi e al potere che ne derivava - trasporti e viveri, confrontarsi con i bisogni della popolazione, amministrare le strutture burocratiche dei comuni, istituire tribunali, prendere decisioni che coinvolgevano territori più o meno vasti (dalle singole comunità alle vaste aree liberate delle Repubbliche partigiane nate nell’estate 1944).
Senza i partiti e il loro ruolo subito decisivo anche nell’Italia del Sud, le bande e il Clnai che le rappresentava non sarebbero però riusciti a incidere sulla politica nazionale. Questo passaggio dalla banda ai partiti, dal locale al nazionale, non fu indolore né facile. Appena finita la guerra, le istanze di sovranità armata che le varie formazioni partigiane avevano incarnato furono inglobate in strategie politiche più complesse e articolate; quando, dopo la vittoriosa insurrezione del 25 aprile 1945, con la consegna delle armi da parte degli insorti, i partiti «delle tessere» soppiantarono quelli «dei fucili», vincoli e compatibilità istituzionali divennero prioritari e, proprio attraverso i partiti, lo Stato appena ricostruito si riappropriò della sua piena sovranità.
Nei lavori della Costituente le elaborazioni programmatiche dei partiti ebbero un peso preponderante; pure, qualcosa della «sovranità» degli individui che avevano impugnato le armi riuscì a filtrare. La fedeltà al «popolo dei morti» partigiani invocata da Piero Calamandrei fu, ad esempio, uno degli elementi che rafforzarono l’ispirazione unitaria che riuscì allora ad avere la meglio sui dissidi ideologici già affiorati nei rapporti tra i vari partiti. Non solo. Filippetta indica almeno due articoli che derivano direttamente dalla sovranità individuale vissuta nell’esperienza partigiana: l’articolo 49 (quello che indica come soggetti del concorso alla determinazione della politica nazionale non i partiti, ma i cittadini che possono usare come propri strumenti i partiti, ma che hanno anche altre forme per esprimere la loro volontà) e l’articolo 75 sul referendum abrogativo.
Frammenti, è vero. Pure, oggi, con i partiti costituenti scomparsi nel nulla, forse è proprio da quei frammenti che si può ripartire per rifondare - come auspica Filippetta - un patto di cittadinanza che trovi una sua nuova legittimazione direttamente nelle coscienze dei singoli individui.
il manifesto 20.11.18
Nativi e stranieri nella lotta comune contro i governi
Migranti. A difesa di poteri e interessi, i signori della globalizzazione non hanno messo in campo solo le armi, ma anche la mobilitazione sovranista, nazionalista e fascista. Ma, nella lotta impari per la convivenza pacifica, migranti e nativi hanno interessi che coincidono perché hanno tutto da guadagnare a combattere il potere di chi ci governa
di Guido Viale
Nella marcia degli honduregni verso gli Stati Uniti è difficile non riconoscere il Quarto stato di Pelizza da Volpedo; e non vedere in quel presentarsi disarmati e affamati a una frontiera anche la convinzione che la Terra è di tutti. Dunque non solo la disperazione, ma anche la rivendicazione di ripartire i beni che i signori della globalizzazione rubano al loro paese, costringendoli a lasciarlo. Così come è difficile non riconoscere nell’esercito mobilitato per impedire loro l’ingresso negli Stati Uniti una riedizione dei cannoni con cui, sul finire dell’800, il generale Bava Beccaris disperdeva e sterminava i manifestanti che lottavano per il pane.
Questa è la versione americana della guerra scatenata contro i migranti nel Mediterraneo per farli affogare o respingerli nei Lager libici; o delle barriere e dei respingimenti ai confini terrestri; o la cacciata dai centri di accoglienza negando ogni forma di protezione. Insomma, tra coloro che cercano di entrare nelle cittadelle del benessere (in gran parte alle nostre spalle) e i poteri che si adoperano per respingerli si è aperto un conflitto sociale o, se vogliamo, una “lotta di classe” di portata planetaria, destinata a dominare il corso del secolo.
A rendere opaco uno scenario così chiaro è il fatto che a difesa di privilegi e poteri, i signori della globalizzazione hanno messo in campo non solo armi e armamentari di ogni genere, ma anche la mobilitazione sovranista, nazionalista, a volte fascista, ma comunque razzista, di una parte crescente dei loro sudditi diretti: cioè noi, i nativi dei paesi meta dell’“assalto al cielo” dei migranti. Gli interessi di migranti e nativi non sono opposti: entrambi, in forme e in misura diverse, sono sottoposti al giogo e allo sfruttamento della grande finanza che domina il mondo. Ma, come già ai tempi del colonialismo e dell’imperialismo («ultima fase del capitalismo»; magari!), noi, quei “nativi”, siamo l’unico referente delle tante sinistre che si pretendono nemiche dei poteri mondiali. Per loro i migranti sono solo un “intoppo”, un problema marginale; così ci rendono ostaggi del capitale che fingono di combattere.
Oggi il conflitto sociale che oppone i poteri che governano la Terra alle genti in cammino che vorrebbero riappropriarsene è una lotta per l’egemonia su una “zona grigia” che siamo noi, i nativi. Questo spiega come mai in aiuto dei poteri che dominano un mondo ormai globalizzato siano stati mobilitati sovranismi, nazionalismi e fascismi che non ne sono certo i nemici, bensì il supporto più sicuro, l’unico in grado di far argine alle rivendicazioni, ma soprattutto ai corpi e alle vite, delle genti in cammino che chiedono di condividere con noi i beni loro sottratti.
Quanto a noi nativi, quell’egemonia l’abbiamo lasciata in mano al nemico: e tanto più quanto più pensiamo che per sottrargliela bastino proclami e misure che non fanno i conti con il contesto generale del conflitto, perché considerano solo i pro e i contro immediati: l’offa avvelenata che dovrebbe proteggere la “nazione” da entrambi: grande capitale e migranti.
Oggi, a sostegno dei poteri che dominano il mondo c’è uno stuolo di loro rappresentanti in quasi tutti i campi della politica, delle professioni, dell’accademia, delle forze di repressione. Mentre a sostenere ragioni e corpi delle genti che premono sui confini delle cittadelle di un benessere ormai evanescente non c’è per ora che un papa che predica sempre di più al vento, impigliato com’è nel roveto di interessi, vizi e corruzione dell’organizzazione di cui è capo; e le mille organizzazioni della solidarietà – quelle che operano sia ai confini di mare e di terra per salvare vite, sia nell’accogliere senza rubare, sia nei processi di inclusione sociale – criminalizzate da una persecuzione che non dà tregua.
E’ una lotta impari, come agli albori del movimento operaio, quando un “volgo” disperso e disorganizzato si scontrava con un apparato militare convertito dalla guerra al nemico esterno a quella al nemico interno. Ma è qui che si decidono collocazione e compiti immediati e futuri di ciascuno: dare voce a chi non ce l’ha per consegnar loro un’egemonia culturale e politica su quella zona grigia che siamo noi; in nome di, ma sempre più anche insieme ai migranti che oggi sono l’antitesi dello stato di cose presente.
Dimostrare con la pratica che gli interessi profondi di nativi e migranti coincidono; che entrambi hanno tutto da guadagnare minando il potere di chi ci governa. Tutto ciò – va ricordato – sullo sfondo di cambiamenti climatici, disastri ambientali, guerre e sconvolgimenti sociali che sono all’origine sia della fuga di milioni di persone dalle terre che abitavano da secoli, sia del potere di un pugno di satrapi sordi di fronte ai rischi della devastazione del pianeta. Perché le maggiori vittime di questo dissesto di dimensioni planetarie sono i poveri della Terra.
La Stampa 20.11,18
Uccise i parenti con il tallio
Assolto perché infermo di mente
di Manuela Messina
È stato uno dei suoi deliri a spingerlo a contaminare con del solfato di tallio, acquistato su Internet, l’acqua minerale offerta a nove suoi familiari, di cui tre morti avvelenati.
Con questa valutazione - supportata da una perizia psichiatrica e da una consulenza difensiva che hanno stabilito la sua totale incapacità di intendere e di volere - il giudice di Monza Patrizia Gallucci non ha potuto fare altro che assolvere dalle accuse di omicidio volontario plurimo premeditato, Mattia Del Zotto, il 28enne di Nova Milanese, in provincia di Monza, che ha confessato l’omicidio dei nonni paterni e della zia, avvenuto alla fine dello scorso anno. «Affetto da un disturbo delirante, totalmente incapace di intendere e volere al momento dei fatti perché affetto da vizio totale di mente», aveva concluso il perito incaricato dal Tribunale.
I soggetti impuri
L’insensato movente del giovane era stato, per sua ammissione, quello di «punire i soggetti impuri», tra cui due nonni e una zia, morti tra atroci sofferenze. Una zia e una badante riuscirono a salvarsi, ma ancora non sono del tutto guarite. Del Zotto rimarrà in carcere fino a quanto non sarà individuata la struttura psichiatrica in cui, per volere del giudice, dovrà restare per i prossimi dieci anni per essere curato. Nello stesso documento, il perito nominato dal giudice si riferiva al ragazzo come di un soggetto «socialmente pericoloso, che necessita di trattamenti intensivi di durata indefinita in una struttura psichiatrica giudiziaria», seppur «capace di partecipare al processo».
Diversa era stata invece la ricostruzione del pm Carlo Cinque, che aveva chiesto la condanna all’ergastolo. Il pubblico ministero aveva infatti ritenuto valide le conclusioni del suo consulente, che aveva riconosciuto all’uomo solo un vizio «parziale» di mente che lo aveva lasciato consapevole nel momento in cui aveva deciso di sterminare i parenti. I familiari sopravvissuti del giovane, ancora residenti nella stessa villetta dove è avvenuta la tragedia, e dove abitano anche i suoi genitori, come riferito dall’avvocato di parte civile Stefania Bramati «hanno preso bene la sentenza, sapendo perfettamente che il giovane ha bisogno di essere curato». Il legale ha fatto sapere di volere attendere «le motivazioni del verdetto, ad ogni modo i vari familiari tra loro sono in buoni rapporti, condividono la stessa casa, e di fatto non hanno nemmeno mai chiesto una perizia di parte per avanzare richieste di risarcimento di sorta».
il manifesto 20.11.18
Dl sicurezza, 17 deputati M5S chiedono di modificarlo
Nuove crepe nel Movimento 5 Stelle. Con una lettera al capogruppo della Camera. Salvini: «Va approvato in fretta»
di Carlo Lania
Otto emendamenti per provare a fare alla Camera quello che non è stato possibile fare al Senato: modificare il decreto sicurezza. I termini per presentarli scadono questa mattina alle 9,30 e se nel frattempo i firmatari non avranno fatto marcia indietro le proposte di modifica rappresenteranno l’ennesima crepa all’interno del Movimento 5 Stelle provocata dal provvedimento voluto dalla Lega e in particolare dal suo leader Matteo Salvini.
Ad annunciare gli emendamenti sono stati ieri 17 deputati pentastellati con una lettera al capogruppo alla Camera Francesco D’Uva. Il decreto, hanno spiegato, non fa parte del contratto di governo ed è «in contraddizione con il programma M5S». Ma soprattutto i dissidenti chiedono di poter discutere punti delicati come la riforma dello Sprar o la limitazione delle libertà personali dei migranti, in pratica l’ossatura del provvedimento che già ha provocato discussioni nel gruppo del Senato. Un confronto che, fa capire il finale della lettera, all’interno del M5S è sempre più difficile avere. «Concludiamo – hanno scritto infatti i diciassette- non più sperando in una maggiore collegialità e condivisione, come facciamo da tempo, ma chiedendola con forza».
La richiesta, però, è destinata a rimanere tale. Le prime reazioni dei vertici del movimento non fanno infatti sperare niente di buono. Nessuna riunione è stata convocata né sarebbe in programma, mentre sia D’Uva che Di Maio fanno capire di voler procedere senza rivedere le stesse situazioni già vissute a Palazzo Madama, dove i senatori De Falco, Nugnes, Fattori, Mantero e La Mura dopo aver chiesto inutilmente anche loro di poter discutere e modificare il testo, alla fine hanno abbandonato l’aula al momento del voto. «Il dl sicurezza è già stato migliorato al Senato e presto verrà approvato anche alla Camera», ha tagliato corto il capogruppo, mentre Di Maio è stato ancora più categorico nei confronti degli autori della lettera: «Credo che vogliano fare un’azione di testimonianza, ma mi aspetto lealtà al governo che va avanti finché è autonomo».
Va detto che diversamene dal Senato, alla Camera la maggioranza può contare su numeri più che solidi. Insieme, Lega e 5 Stelle dispongono di 346 deputati e se anche i 17 dissidenti dovessero disertare l’aula al momento del voto – previsto per il 23 novembre – l’esito finale resta scontato. E comunque l’ipotesi di un ricorso al voto di fiducia, come è già successo a palazzo Madama, resta sempre in campo.
Agli atti rimane quindi un crescente dissenso all’interno dei 5 Stelle, che ad appena otto mesi dall’inizio della legislatura non è un bel segnale per il governo. Come sa bene Salvini, che stanco delle incertezze grilline ieri non ha speso molte parole per l’ennesimo mal di pancia degli alleati. E il suo più che un commento è sembrato un ordine: il dl sicurezza «va approvato in fretta», ha detto il ministro ansioso di portare a casa il provvedimento.
Il decreto prosegue intanto il suo iter. Ieri in commissione Affari costituzionali sono stati ascoltati tra gli altri i rappresentanti dell’Anci, l’Associazione dei Comuni, e dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), e tutti hanno espresso forte preoccupazione per le conseguenze che alcune misure, come l’abrogazione della protezione umanitaria e il prolungamento del periodo di trattenimento nei Centri per i rimpatri, potranno avere sulla gestione di migranti e richiedenti asilo. «Siamo di fronte a un provvedimento socialmente pericoloso, oltre che incostituzionale in molte sue parti, che produrrà irregolarità, conflittualità sociale e marginalità, ledendo diritti fondamentali», ha commentato il deputato di +Europa e membro della commissione Affari costituzionali Riccardo Magi, firmatario di 100 emendamenti al testo. «L’obiettivo – ha spiegato il deputato – è disinnescare gli aspetti peggiori del decreto favorendo maggiori possibilità di regolarizzazione».
il manifesto 20.11.18
Insegnanti, aumenti minimi. Un miraggio gli stipendi europei
Legge di bilancio. I primi numeri sul rinnovo del contratto per il pubblico impiego smentiscono le promesse della campagna elettorale dei 5 Stelle
di Giansandro Merli
A gennaio 2018, in piena campagna elettorale, Luigi di Maio aveva detto che la scuola era in cima alle priorità del Movimento 5 stelle e che l’adeguamento degli stipendi degli insegnanti ai livelli europei costituiva una condizione necessaria per restituire prestigio e valore alla loro professionalità. L’attuale vicepresidente del consiglio e ministro del lavoro e sviluppo economico aveva assicurato che le risorse per l’istruzione sarebbero aumentate fino al 10,2% del Pil, per allineare l’Italia alla media Ue attraverso un incremento di 2,3 punti percentuali della spesa pubblica. Tutto questo, aveva precisato, «nel medio periodo».
NELLA LEGGE DI BILANCIO 2019, però, le risorse stanziate sono totalmente insufficienti a raggiungere simili obiettivi. Per adesso, di rifinanziamento complessivo del comparto di scuola e università si è sentito parlare solo attraverso annunci-spot. Come quello di una generica «tassa sui petrolieri», con introiti potenziali da due miliardi di euro, menzionata a inizio novembre dal ministro del lavoro e poi scomparsa dal dibattito. O la più recente proposta di «sugar tax», un’imposta sulle bevande zuccherate capace di generare, secondo le stime dell’esecutivo, fino a 300 milioni di euro. All’università ne andrebbero un terzo. Una goccia nel mare dei 9 miliardi tagliati all’istruzione da Berlusconi e mai più rifinanziati negli ultimi 10 anni.
PER IL RINNOVO DEL CONTRATTO del pubblico impiego, invece, nell’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) è previsto lo stanziamento di 1,1 miliardi per il prossimo anno, 1,45 per il 2020 e 1,8 per il 2021. Con queste cifre gli stipendi dei dipendenti pubblici, e quindi anche degli insegnanti e del personale Ata, crescerebbero di pochi euro al mese. Le stime oscillano tra i 14 e i 40 euro mensili in più. Lordi, ovviamente. Si tratta di aumenti inferiori alla metà di quelli garantiti dall’ultimo rinnovo contrattuale, firmato dalla ministra Valeria Fedeli nella scorsa legislatura. «I finanziamenti per l’incremento dei compensi di 3 milioni e 300 mila dipendenti pubblici non tengono conto del blocco decennale e dell’aumento dell’inflazione registrato negli anni» sostiene l’Anief-Cisal, che chiede il riallineamento degli stipendi attraverso il recupero del tasso di inflazione reale. Per l’Istat ammonta al 12%.
A QUESTE POLEMICHE ha risposto ieri il ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Marco Bussetti, affermando che l’esecutivo è al lavoro per scongiurare il taglio degli stipendi degli insegnanti che sarebbe scattato a gennaio perché «il precedente governo non ha stanziato abbastanza risorse durante l’ultimo rinnovo contrattuale per mantenere gli aumenti previsti». Secondo il ministro il cammino della legge di bilancio è appena iniziato e «ci sono tutti i margini per inserire ulteriori risorse». Bussetti ha assicurato che incontrerà i sindacati prima dell’approvazione della manovra e cercherà «una pre-intesa in vista del rinnovo contrattuale».
NICOLA FRATOIANNI, segretario nazionale di Sinistra italiana, è intervenuto sulla questione dicendo: «Sulla scuola il governo fa promesse roboanti, ma nulla di concreto. Se sarà confermato l’aumento di 14 euro per gli stipendi degli insegnanti, fanno bene le organizzazioni sindacali ad annunciare che non ci sarà nessuna trattativa».
I FONDI PER SCUOLA, università e ricerca rimangono i grandi assenti della legge di bilancio più chiacchierata degli ultimi anni. L’affannosa ricerca di risorse nelle pieghe del provvedimento conferma l’esistenza di un problema. Ne sono consapevoli gli studenti che nelle mobilitazioni autunnali stanno chiedendo un «cambiamento» reale, che vada al di là dello slogan usato dal governo.
Repubblica 20.11.17
I DEMOCRATICI AL BIVIO
di Piero Ignazi
Dopo nove mesi dalla sconfitta del 4 marzo, il Pd, forse, incomincia a discutere. Forse, perché una parte preferisce far finta di niente e continuare a rivendicare le tante cose belle fatte dai governi a guida democratica: come se le urne di marzo, e tutti i test elettorali precedenti e successivi, non avessero prodotto una sconfitta dietro l’altra. Alla fine di questa via crucis, forse, incomincia una riflessione critica sulle ragioni del declino democratico. I due elementi incontrovertibili della decrescita infelice del Pd da cui partire sono la perdita di contatto con i settori sottoprivilegiati, concentrati nelle piccole città e nelle periferie di quelle grandi, e la fuoriuscita di gran parte del proprio elettorato verso i 5stelle. Tutte le analisi post-elettorali concordano nel legare questi due fenomeni alla discesa nei consensi dei democratici. Ogni altra considerazione è accessoria. Ora, di fronte a questo quadro il partito può scegliere se " coltivare" l’elettorato residuo che è rimasto fedele, e che ha un profilo socio- demografico ben preciso ( e diverso dal passato), oppure cercare di recuperare quello che se n’è andato. I renziani sono i più convinti sostenitori della continuità: il Pd non ha sbagliato nulla, ha governato splendidamente, ha perso solo perché se n’è andata la vecchia guardia. E quindi va mantenuto uno stretto rapporto con quella componente acculturata, urbana, di ceto medio e medio-alto che ora costituisce la roccaforte del voto democratico. La tenuta di Milano ne sarebbe una conferma ( dimenticando però quanto è stato fatto dalla giunta di sinistra di Pisapia) Questa opzione è perfettamente in linea con le scelte – e le non scelte – dei governi Renzi e Gentiloni. Si tratta solo di accentuare i tratti liberisti e di mettere la sordina a varie politiche di welfare.
I tre candidati maggiori che si contendono la segreteria ( includendo qui anche Martina) non condividono questo impianto. Seppure con accenti diversi, sono tutti critici della passata gestione del partito e vogliono rimettere il Pd a contatto con gli strati in sofferenza della società adottando politiche adeguate ai loro bisogni. Tanto Martina quanto Minniti e Zingaretti sono intenzionati a chiudere la fase del renzismo : puntano ad archiviare una politica fondata sull’irrilevanza del partito come struttura, sul primato della comunicazione e sulla personalizzazione al quadrato e sulla rincorsa ai ceti emergenti, smart e cool. I tratti che accomunano i tre candidati ( anche quelli di Minniti) sono più forti delle loro differenze. E comunque le loro differenze sono minori di quelle che le separano da Renzi. L’ex segretario ne ha preso atto da tempo e ha già lanciato la sua nuova struttura, i Comitati Civici (significativa sigla di un modo democristiano non certo in linea con la tradizione del cattolicismo democratico presente nel Pd). Basta scorrere le pagine web di alcuni esponenti di questa corrente per vedere come la loro agenda sia fitta di impegni per costituire la rete dei Comitati. La separazione di percorsi è quindi già in atto. Vedremo quando sarà sancita. Azzardando una previsione, la rottura si concretizzerà quando la coalizione di governo incomincerà a incrinarsi seriamente. In quel momento verrà a galla l’altro nodo della questione democratica: che fare con il M5S. Se tutti i candidati , o il nuovo segretario, apriranno una fase di ascolto con i 5Stelle sostenendo i provvedimenti più ostici alla Lega per staccarli dall’abbraccio con Salvini, la strategia renziana dell’opposizione assoluta sarebbe sconfessata. In questo caso l’ex segretario avrebbe una ghiotta ragione politica per uscire; e aumenterebbe anche il suo seguito. Salvo poi ritrovarsi nello stesso dilemma del Pd. Con chi fare alleanze? Oltre a uno splendido isolamento in attesa di tempi migliori, o si torna a fare politica sporcandosi le mani con il M5S, o si va alla corte fatiscente del Caimano . Ma quest’ultima è una opzione possibile per il partito dei governi Prodi? O non rappresenta l’ultimo, devastante, tradimento di una storia?
il manifesto 20.11.18
Nativi e stranieri nella lotta comune contro i governi
Migranti. A difesa di poteri e interessi, i signori della globalizzazione non hanno messo in campo solo le armi, ma anche la mobilitazione sovranista, nazionalista e fascista. Ma, nella lotta impari per la convivenza pacifica, migranti e nativi hanno interessi che coincidono perché hanno tutto da guadagnare a combattere il potere di chi ci governa
di Guido Viale
Nella marcia degli honduregni verso gli Stati Uniti è difficile non riconoscere il Quarto stato di Pelizza da Volpedo; e non vedere in quel presentarsi disarmati e affamati a una frontiera anche la convinzione che la Terra è di tutti. Dunque non solo la disperazione, ma anche la rivendicazione di ripartire i beni che i signori della globalizzazione rubano al loro paese, costringendoli a lasciarlo. Così come è difficile non riconoscere nell’esercito mobilitato per impedire loro l’ingresso negli Stati Uniti una riedizione dei cannoni con cui, sul finire dell’800, il generale Bava Beccaris disperdeva e sterminava i manifestanti che lottavano per il pane.
Questa è la versione americana della guerra scatenata contro i migranti nel Mediterraneo per farli affogare o respingerli nei Lager libici; o delle barriere e dei respingimenti ai confini terrestri; o la cacciata dai centri di accoglienza negando ogni forma di protezione. Insomma, tra coloro che cercano di entrare nelle cittadelle del benessere (in gran parte alle nostre spalle) e i poteri che si adoperano per respingerli si è aperto un conflitto sociale o, se vogliamo, una “lotta di classe” di portata planetaria, destinata a dominare il corso del secolo.
A rendere opaco uno scenario così chiaro è il fatto che a difesa di privilegi e poteri, i signori della globalizzazione hanno messo in campo non solo armi e armamentari di ogni genere, ma anche la mobilitazione sovranista, nazionalista, a volte fascista, ma comunque razzista, di una parte crescente dei loro sudditi diretti: cioè noi, i nativi dei paesi meta dell’“assalto al cielo” dei migranti. Gli interessi di migranti e nativi non sono opposti: entrambi, in forme e in misura diverse, sono sottoposti al giogo e allo sfruttamento della grande finanza che domina il mondo. Ma, come già ai tempi del colonialismo e dell’imperialismo («ultima fase del capitalismo»; magari!), noi, quei “nativi”, siamo l’unico referente delle tante sinistre che si pretendono nemiche dei poteri mondiali. Per loro i migranti sono solo un “intoppo”, un problema marginale; così ci rendono ostaggi del capitale che fingono di combattere.
Oggi il conflitto sociale che oppone i poteri che governano la Terra alle genti in cammino che vorrebbero riappropriarsene è una lotta per l’egemonia su una “zona grigia” che siamo noi, i nativi. Questo spiega come mai in aiuto dei poteri che dominano un mondo ormai globalizzato siano stati mobilitati sovranismi, nazionalismi e fascismi che non ne sono certo i nemici, bensì il supporto più sicuro, l’unico in grado di far argine alle rivendicazioni, ma soprattutto ai corpi e alle vite, delle genti in cammino che chiedono di condividere con noi i beni loro sottratti.
Quanto a noi nativi, quell’egemonia l’abbiamo lasciata in mano al nemico: e tanto più quanto più pensiamo che per sottrargliela bastino proclami e misure che non fanno i conti con il contesto generale del conflitto, perché considerano solo i pro e i contro immediati: l’offa avvelenata che dovrebbe proteggere la “nazione” da entrambi: grande capitale e migranti.
Oggi, a sostegno dei poteri che dominano il mondo c’è uno stuolo di loro rappresentanti in quasi tutti i campi della politica, delle professioni, dell’accademia, delle forze di repressione. Mentre a sostenere ragioni e corpi delle genti che premono sui confini delle cittadelle di un benessere ormai evanescente non c’è per ora che un papa che predica sempre di più al vento, impigliato com’è nel roveto di interessi, vizi e corruzione dell’organizzazione di cui è capo; e le mille organizzazioni della solidarietà – quelle che operano sia ai confini di mare e di terra per salvare vite, sia nell’accogliere senza rubare, sia nei processi di inclusione sociale – criminalizzate da una persecuzione che non dà tregua.
E’ una lotta impari, come agli albori del movimento operaio, quando un “volgo” disperso e disorganizzato si scontrava con un apparato militare convertito dalla guerra al nemico esterno a quella al nemico interno. Ma è qui che si decidono collocazione e compiti immediati e futuri di ciascuno: dare voce a chi non ce l’ha per consegnar loro un’egemonia culturale e politica su quella zona grigia che siamo noi; in nome di, ma sempre più anche insieme ai migranti che oggi sono l’antitesi dello stato di cose presente.
Dimostrare con la pratica che gli interessi profondi di nativi e migranti coincidono; che entrambi hanno tutto da guadagnare minando il potere di chi ci governa. Tutto ciò – va ricordato – sullo sfondo di cambiamenti climatici, disastri ambientali, guerre e sconvolgimenti sociali che sono all’origine sia della fuga di milioni di persone dalle terre che abitavano da secoli, sia del potere di un pugno di satrapi sordi di fronte ai rischi della devastazione del pianeta. Perché le maggiori vittime di questo dissesto di dimensioni planetarie sono i poveri della Terra.
La Stampa 20.11.18
Leda e il cigno, Pompei a luci rosse
di Maurizio Assalto
Leda guarda verso gli spettatori e pare ammiccare quasi rassegnata, mentre un bianco cigno pianta le zampe sulle sue cosce opulente e ritorce il collo insinuando il becco sul seno della fiorente moglie di Tindaro, re di Sparta. Eppure il cigno è nientemeno che Zeus, uso a queste trasformazioni per fare sue le donne altrui. La storia è nota: dall’unione vennero fuori alcune uova (non poteva essere altrimenti), e da queste nacquero i Dioscuri Castore Polluce, oltre a Clitennestra e Elena, futura moglie di Menelao e causa (involontaria?) della guerra di Troia. Siccome però nella stessa notte l’instancabile Leda giacque pure con il legittimo consorte, la tradizione mitologica non si è mai messa d’accordo su quali dei figli fossero progenie di Tindaro e quali di Zeus, e quindi immortali.
Sicuramente immortale doveva in ogni caso essere Leda, se a quasi duemila anni di distanza dall’eruzione che seppellì Pompei la sua immagine affrescata in una domus è rispuntata dalla lava e dai lapilli bella e florida come pria. Un quadretto di straordinaria qualità esecutiva, dai colori vividi come appena dipinto, e soprattutto di esplicita, inconsueta sensualità, che sembra riportarsi ai modelli scultorei di Timoteo, come ha sottolineato ieri il direttore del Parco archeologico di Pompei, Massimo Osanna, nell’annunciare il ritrovamento. Una nuova, meravigliosa scoperta, che va ad aggiungersi alle innumerevoli altre registrate dalla scorsa primavera, quando sono stati avviati i lavori di salvataggio per riconfigurare il fronte di scavo nella Regio V minacciata dall’incombere del materiale eruttivo causa dei recenti crolli.
La licenziosa scena di Leda e il cigno - un motivo iconografico molto popolare a Pompei, come del resto nell’arte di tutti i tempi, da Leonardo a Dalí - è riemersa dal cubiculum (camera da letto) di una casa dal cui atrio era «risorto» in estate un Priapo nell’atto di soppesarsi l’abnorme fallo: evidentemente il dominus non voleva farsi mancare nulla e non si peritava di esplicitare le sue intenzioni. Poteva essere «un ricco commerciante», ipotizza Osanna, «forse un ex liberto ansioso di elevare il suo status sociale anche con il riferimento ai miti della cultura più alta».
Ora si pone il problema di come proteggere i due affreschi: «Si valuterà con i tecnici», anticipa il direttore, «l’ipotesi di rimuoverli e di spostarli in un luogo dove potranno essere salvaguardati e esposti al pubblico». Resta una curiosità: se da un ettaro o poco più di scavo nella Regio V stanno tornando alla luce tante meraviglie, che cosa potrebbero riservare i 22 ettari di Pompei ancora sepolti?
Repubblica 20.11.18
Storia e leggenda
La fortuna di un simbolo
L’eros senza maschio di Leda e il cigno
di Silvia Ronchey
Ed ecco che a Pompei la sempre imponderabile cabala dei crolli e dei controlli fa riemergere una variante ancora più antica, pittorica, di un episodio amoroso da sempre simbolo, nella storia della pittura e della letteratura, dell’autoerotismo femminile: del piacere che la donna può darsi senza la cooperazione del maschio, anzi, di alcun umano. Nella scultura adrianea, copia di un originale ellenistico, il corpo di Leda, completamente nudo, è contratto nell’amplesso, la mano celata nel grembo premuto alle piume, stretto fra le unghie di un onirico cigno dotato di doppio fallo, dove quello proteso nel lungo collo, cui le labbra si accostano in un’appena dissimulata fellatio, prevale sull’altro che si insinua fra le cosce tremanti — per citare i versi di Yeats — della ragazza che è in piedi e barcolla. Nell’altrettanto esplicito erotismo dell’affresco pompeiano, Leda, i drappeggi dell’abito appena scostati, ancora cinta di diadema e calzari, è abbandonata su una sedia ed è al seno scoperto che si protende il becco del bianco fantasma erotico avvinghiato alle sue cosce.
Nelle grandi Lede della storia dell’arte successiva c’è sempre qualcosa di ineffabile dipinto sul viso della donna da cui non a caso nascerà Elena, e con lei la guerra di Troia, e dunque Roma, con la fuga di Enea. Perfino il sorriso leonardesco del dipinto della Galleria Borghese è solo uno dei tanti misteriosi, allusivi, indecifrabili sorrisi che Leda, moltiplicata nel suo sogno in infinite immagini pittoriche, regala prima, durante o spesso dopo l’amplesso all’empatia dei pittori.
Del resto, della meno censurata tra le Lede dei grandi maestri, quella di Michelangelo, non sopravvive l’esecuzione finale, smarrita o censurata in un giro di corti che dalla committenza estense si arenerà in quella di Francia, ma la copia di Rosso Fiorentino della National Gallery dà un’idea di quanto meno pudica della Leda post coitum di Leonardo fosse l’idea che Michelangelo aveva di quell’amplesso.
Il cigno non è una bestia. È la figurazione simbolica dei desideri repressi e insieme delle paure erotiche femminili. Tutta l’imponderabilità e irrefrenabilità dell’erezione maschile è richiusa e dischiusa in quelle grandi ali frementi, che nell’iconografia assumono, come sempre le immagini dei sogni, proporzioni vertiginosamente variabili, ora ridotte alla sensualità del passer della Lesbia di Catullo, ora talmente gigantesche da far intravedere nel corpo a corpo erotico delle Lede avviluppate nelle loro piume qualcosa di simile alla lotta di Giacobbe con l’angelo. In effetti, se a qualcosa la loro tradizione iconografica può essere accostata, è quella di una vertigine del volo — pensiamo allo slancio di Icaro — che il mondo greco, attingendo alla tradizione orientale, consegnerà all’angelologia cristiana e islamica.
Che siano di chimera, di fenice o di cigno, che richiamino Eros o Ermes dal piede alato, e con lui la natura stessa del sogno, le ali, tipico oggetto di fobia sessuale femminile, sono un altro potente simbolo di hybris fallica. Creato dalla fantasia, dalla forza del sogno, dall’urgenza del simbolo, il cigno di Leda è quanto di più lontano da una concreta presenza animale.
Nulla a che fare con gli accoppiamenti bestiali della mitologia greca, come quello di Pasifae col nero, potente toro dall’immenso membro, che non a caso farà sorgere alle fondamenta dell’edificio psicologico greco una creatura — il Minotauro — che simboleggia nella mitologia l’assoluto irrazionale, la parte bestiale che è in noi, tanto avida quanto sapiente, tenuta a guardia del grande labirinto dell’inconscio.
Ma neanche quel figlio, per i greci, è il male, anzi. Sarà la sua uccisione da parte dell’infido eroe Teseo a produrre la combinazione di eventi che porterà a un’ancora più potente compensazione simbolica: a consegnare Arianna, sorella del Minotauro e suo esatto contrario, sacerdotessa della razionalità della dea Atena, a farsi sposa, abbandonata a Nasso, di Dioniso, il dio della natura scatenata e dell’ebbrezza.
Il prodotto dell’accoppiamento di Leda non sarà meno inquietante.
Elena incarnerà la femminilità più potente di tutto il mito greco, quella cui non si resiste, capace di addormentare con il suo nepente il cuore degli uomini, di scatenare le loro guerre, di disseminare, con la sua forza di donna creata dal puro piacere di una donna, il massimo disorientamento nel mondo dei maschi. Elena dalle bianche braccia, candida e onirica come "il bianco tumulto" che la fa nascere, sarà la femme fatale per eccellenza, la splendida strega capace di scardinare ognuno degli aspetti dell’egemonia maschile.
Il mito di Leda è dunque il mito d’origine dell’autonomia femminile, del suo desiderio sessuale emancipato dal maschio, delle sue non solo erotiche ma anche concrete paure — poiché certo essere ingravidate da un sogno è da sempre nelle donne uno dei più irrazionali e archetipi timori, non a caso esorcizzato nelle storie di maghe e di streghe. È forse questo solo, nel mito di Leda, l’intervento di Zeus. Per una volta assolviamolo dalla sua fama di stupratore. Quello di Leda è il contrario di uno stupro. E la vasta fortuna della sua iconografia è uno dei tanti segni nascosti, sotterranei, carsici che la psiche femminile ha lasciato, indecifrati dai molti, còlti dagli artisti e dai poeti, serbati e sussurrati nel segreto delle corti, della sua indipendenza e della sua libertà.
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