La Stampa 20.11.18
La Costituzione figlia delle bande partigiane
E gli italiani si ripresero la sovranità
La tesi dello storico Giuseppe Filippetta:la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti
di Giovanni De Luna
Alla
base della nostra Costituzione ci sono i lavori dell’Assemblea
Costituente che recepirono le indicazioni dei partiti politici,
ricostituitosi dopo venti anni dittatura; prima della verifica
elettorale del 2 giugno 1946, i partiti trovarono la loro legittimazione
nella Resistenza e nella lotta armata contro i nazisti e i fascisti; la
ottennero grazie all’efficacia del rapporto che furono in grado di
instaurare con le bande partigiane e con le istanze di sovranità dal
basso che furono da esse avanzate; queste istanze furono il frutto della
scelta di impugnare le armi che - nello sfacelo dello Stato seguito
all’8 settembre 1943 e nell’assenza di una sovranità statuale accettata e
riconosciuta - portò decine di migliaia di italiani a riappropriarsi
della propria sovranità individuale, così da attribuire alla loro
esperienza armata un immediato e spontaneo «potere costituente»
Tutto cominciò l’8 settembre
L’estate
che imparammo a sparare, il libro di Giuseppe Filippetta in uscita
giovedì per Feltrinelli (pp. 300, € 22), scandisce questi passaggi,
proponendo un’interpretazione della lotta partigiana innovativa sul
piano storiografico, originale su quello giuridico. La sua tesi infatti è
che la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti, ne scolpì
i caratteri originari e, anche se fu recepita solo parzialmente nel
testo definitivo, si propone oggi come il lascito civile e istituzionale
più significativo della Resistenza. Per argomentare questa posizione,
si affida a una ricognizione attenta e partecipe di tante storie
personali «minuscole e potenti, grandiose e comuni, differenti e
uguali», scruta nelle fonti più disparate, quelle letterarie e quelle
«ufficiali», oltre a studiare con grande efficacia il dibattito che
coinvolse allora i giuristi, complessivamente orientati a trascurare la
portata costituzionale della lotta partigiana.
Tutto cominciò
quindi l’8 settembre 1943. Nel vuoto istituzionale e politico
spalancatosi dopo la dissoluzione dell’esercito regio, chi decise di
combattere, armato, contro i tedeschi e i fascisti, scelse la strada di
un impegno volontario e pieno di rischi, dando inizio a un percorso in
cui i singoli individui si riappropriarono della libertà, ma soprattutto
di una sovranità non più delegata a uno Stato che non c’era più. Fu una
scelta che portò a riconquistare anche la propria autonomia
individuale, nutrita dalla consapevolezza di poter decidere da soli il
proprio destino e quello degli altri. In questo senso, i partigiani
furono non politicamente, ma «giuridicamente» rivoluzionari.
L’inizio del nuovo Stato
Queste
spinte trovarono un loro primo ambito organizzativo nella banda
partigiana. Anni orsono, un grande storico come Guido Quazza la definì
un «microcosmo di democrazia diretta», insistendo sul rapporto di
fiducia tra i comandanti e i propri uomini, sottolineandone le
differenze con la disciplina del vecchio esercito sabaudo; oggi
Filippetta precisa quella definizione, indicandola come il primo
segmento istituzionale del nuovo Stato. Nella «banda», infatti, la
scelta sovrana dei singoli partigiani, attraverso la partecipazione e
l’autogoverno, si misurò con compiti e obiettivi che andavano oltre gli
aspetti militari di quella loro esperienza; si trattava di gestire -
insieme alle armi e al potere che ne derivava - trasporti e viveri,
confrontarsi con i bisogni della popolazione, amministrare le strutture
burocratiche dei comuni, istituire tribunali, prendere decisioni che
coinvolgevano territori più o meno vasti (dalle singole comunità alle
vaste aree liberate delle Repubbliche partigiane nate nell’estate 1944).
Senza
i partiti e il loro ruolo subito decisivo anche nell’Italia del Sud, le
bande e il Clnai che le rappresentava non sarebbero però riusciti a
incidere sulla politica nazionale. Questo passaggio dalla banda ai
partiti, dal locale al nazionale, non fu indolore né facile. Appena
finita la guerra, le istanze di sovranità armata che le varie formazioni
partigiane avevano incarnato furono inglobate in strategie politiche
più complesse e articolate; quando, dopo la vittoriosa insurrezione del
25 aprile 1945, con la consegna delle armi da parte degli insorti, i
partiti «delle tessere» soppiantarono quelli «dei fucili», vincoli e
compatibilità istituzionali divennero prioritari e, proprio attraverso i
partiti, lo Stato appena ricostruito si riappropriò della sua piena
sovranità.
Nei lavori della Costituente le elaborazioni
programmatiche dei partiti ebbero un peso preponderante; pure, qualcosa
della «sovranità» degli individui che avevano impugnato le armi riuscì a
filtrare. La fedeltà al «popolo dei morti» partigiani invocata da Piero
Calamandrei fu, ad esempio, uno degli elementi che rafforzarono
l’ispirazione unitaria che riuscì allora ad avere la meglio sui dissidi
ideologici già affiorati nei rapporti tra i vari partiti. Non solo.
Filippetta indica almeno due articoli che derivano direttamente dalla
sovranità individuale vissuta nell’esperienza partigiana: l’articolo 49
(quello che indica come soggetti del concorso alla determinazione della
politica nazionale non i partiti, ma i cittadini che possono usare come
propri strumenti i partiti, ma che hanno anche altre forme per esprimere
la loro volontà) e l’articolo 75 sul referendum abrogativo.
Frammenti,
è vero. Pure, oggi, con i partiti costituenti scomparsi nel nulla,
forse è proprio da quei frammenti che si può ripartire per rifondare -
come auspica Filippetta - un patto di cittadinanza che trovi una sua
nuova legittimazione direttamente nelle coscienze dei singoli individui.