La Stampa 19.11.18
Pd, il congresso della grande confusione
L’unico dilemma è taciuto: che fare col M5S?
di Federico Geremicca
Ci
sono ancora troppe cose che non tornano nel faticosissimo percorso
congressuale avviato dal Pd a 250 giorni (dicasi duecentocinquanta)
dalla disfatta del 4 marzo: e com’era prevedibile, l’Assemblea nazionale
convocata l’altro giorno per fissare procedure e tempi di questo
complicato iter, non poteva che confermare questa perdurante situazione
di confusione e stallo.
Non torna, prima di tutto, il numero di
candidati per ora in pista: sette, che sarebbero già troppi per un
partito in formidabile espansione e figuriamoci - dunque - per una
comunità che fino a ieri sembrava non aver ancora nemmeno deciso se
riprendere il cammino oppure rifondarsi in qualcosa di nuovo e di
diverso. Non torna, poi, il dato - letteralmente antistorico -
dell’assenza totale di donne nella corsa alla segreteria: quasi non
fossero più considerate una risorsa, e quasi non fossero state proprio
delle donne le animatrici delle «piazze civiche» di Roma e Torino, pur
esaltate come possibile embrione di una nuova opposizione.
Ma più
di tutto non tornano le generiche piattaforme politiche abbozzate dai
candidati e soprattutto l’oscuro ruolo che sembra essersi ritagliato
Matteo Renzi, che diserta l’Assemblea nazionale (offensivo e grave),
dice «non mi occupo del Congresso Pd» (offensivo e non credibile) e
intanto manovra per azzoppare questo candidato o per condizionare
quell’altro, non avendo ancora deciso se restare nel Partito democratico
oppure animare un qualche nuovo contenitore.
Matteo Renzi (è bene
ricordarlo) annunciò le sue dimissioni immediatamente dopo la rovinosa
débâcle di marzo, ma pochi - conoscendolo - credettero che quell’addio
fosse sostanziale e non solo formale: col senno di poi, si può dire che
avessero ragione, visto che dalla scorsa primavera ad oggi l’ex
segretario ha come preso in ostaggio il Pd, tenendolo fermo al palo
delle proprie difficoltà. Oggi, la più leale tra i suoi fedelissimi - e
intendiamo Maria Elena Boschi - si limita sibillinamente ad avvertire:
«Andarsene dal Pd? No, ma il partito va rifatto». Già: ma con quale
profilo, su quale piattaforma e con quale segretario?
Parole come
piattaforma possono naturalmente sembrare generiche e antiche: ma non è
detto che sia sempre vero, soprattutto nella condizione in cui versa il
Partito democratico. Per esempio, la piattaforma proposta all’Assemblea
nazionale da Katia Tarasconi - renziana delusa - è tanto chiara che di
più non si potrebbe: «Se dovessi dare un titolo al mio intervento - ha
detto - lo intitolerei ritiratevi tutti». Una posizione magari estrema,
ma certamente comprensibile. Si può dire lo stesso per i «sette uomini
d’oro» candidati alla segreteria?
Proviamo a cambiare
l’interrogativo. Quanto sarebbe diverso un Pd a guida Zingaretti da un
partito che scegliesse per leader Marco Minniti? E cosa ci si dovrebbe
aspettare se ad essere eletto, al contrario, fosse Francesco Boccia o
Cesare Damiano? Infine: che distanza c’è tra la posizione di Maurizio
Martina (che punta ad una incomprensibile «candidatura di squadra») e
quella di Matteo Richetti o del giovane Dario Corallo? Probabilmente
nessuno, nello stesso gruppo dirigente del Pd, sarebbe in grado di
elencare punti di contatto o differenze. E figuriamoci, allora, i poveri
iscritti-elettori...
Per ora, infatti, le diverse candidature in
lizza sembrano volersi caratterizzare soprattutto per il loro tasso di
anti-renzismo. Perfino Marco Minniti, l’ultimo a scendere in campo, ha
voluto chiarire: «Non sono lo sfidante renziano: in campo c’è solo Marco
Minniti». Può sembrare paradossale, e per l’ex presidente del Consiglio
non dev’essere certo un bel sentire: ma al di là del Pd che non si
vuole più, che partito hanno in testa i sette candidati? E soprattutto:
che «politica delle alleanze» proporrebbero oggi, quando la questione
delle questioni resta il rapporto con i Cinquestelle del tandem Di
Maio-Di Battista?
Le risposte dei candidati sono vaghe, generiche,
e oscillano dal comodo «non è questione di oggi» al prudente
«valuteremo l’evoluzione del Movimento». E invece, forse, è proprio
questione di oggi: e non sono la stessa cosa un candidato che dica «mai
con i grillini» ed un altro che assuma l’impegno di provare ad aprire -
comunque e subito - un canale di comunicazione con i Cinquestelle. Per
un ipotetico elettore Pd, sapere con chi intende allearsi domani il
partito che ha votato o voterà, non è cosa irrilevante. In un modo o
nell’altro, dunque, una risposta dovrà arrivare: e non è detto che non
sia proprio su questo quesito-spartiacque che si deciderà un Congresso
tardivo, confuso e per questo ancora difficilissimo da decifrare.